Meritato, strepitoso successo. Anzi, conclude, questi libri possono essere considerati un unicum: una sola storia che nasce in Europa, cresce nella tragedia, giunge e si ferma in Israele, per poi tornare, circolarmente, all’origine. Ho salutato Etgar, Shira e Marina e li ho guardati allontanarsi tra le persone che cenavano all’ombra dei nostri palazzi rinascimentali: un magico prosieguo di film.
7 LUGLIO 2008
Lizzie Doron è il primo tra gli scrittori che incontreremo in questi giorni.
9 e 10 LUGLIO 2008
16 LUGLIO 2008
Il Museo Ebraico di Bologna ha mantenuto la promessa formulata nel 2007: quest’anno sono ospiti nella nostra città alcuni scrittori israeliani tra i più rappresentativi della nuova generazione.
Dopo la panoramica dedicata nel 2005 alla poesia delle varie generazioni succedutesi tra il periodo mandatario e quello attuale (“TUTTO IL LATTE E IL MIELE”) e le quattro serate in cui, l’anno passato, abbiamo letto le significative pagine di scrittori di opere in prosa notissimi al vasto pubblico (“NON TUTTO È VANITÀ”), espressione di quanto la produzione letteraria abbia costituito, in primo luogo, un elemento fondamentale per l’identità del popolo che viveva nella diaspora e, di poi, abbia rappresentato la base per la formazione della nuova identità rinnovata nello Stato di Israele, il 2008 volge lo sguardo a scrittori della c.d. “nuova generazione”, anche se alcuni di essi non sono giovanissimi, dal punto di vista anagrafico. Questi ultimi presentano cifre espressive diverse, alla ricerca di equilibrio tra tradizione, identità, multiculturalismo, a volte, caratterizzate dalla volontà di sganciarsi dalle tematiche della letteratura tradizionale.
Nei giorni che seguiranno leggeremo brani significativi delle opere insieme con gli autori che dialogheranno con noi.
La cornice scelta per questa manifestazione (che si articola dal 3 al 16 luglio) è il Cortile c.d. “del Terribilia”, in Via Belle Arti 54 -56, luogo quanto mai pregnante nella tradizione locale, in quanto sede di due importanti istituzioni: l’Accademia di Belle Arti e l’Accademia Clementina.
L’iniziativa di quest’anno è intitolata, non a caso, “SOTTO LA STELLA DI DAVIDE”(MI TAKHAT LE MAGEN DAVID) a ricordare il 60° anniversario della (ri)costituzione dello Stato di Israele. Essa si svolge in collaborazione col Comune di Bologna, l’Ambasciata di Israele, la locale Cineteca (assisteremo, insieme con gli Autori, alla proiezione del film di Etgar Keret e Shira Geffen, Meduse, che ho già recensito nei mesi scorsi; ma non mancheranno certo nuovi spunti!); si avvale del patrocinio della Comunità Ebraica bolognese, oltre che delle istituzioni sopra menzionate, nonché del contributo di alcune aziende e banche operanti sul nostro territorio, a cominciare dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna.
Essa si apre con un concerto, tenuto da Amit Arieli.
3 LUGLIO 2008
Amit Arieli, il grande clarinettista, è ben noto agli appassionati di musica c.d. klezmer, la voce musicale della tradizione ebraica. Nato in Israele trentuno anni fa, Amit si è esibito in tutto il mondo, dopo aver studiato in Italia e nel suo Paese di origine ed essersi specializzato presso personaggi celebri, come Giora Feidman e Sabine Meyer. Da tempo ha costituito un gruppo, composto da altri cinque elementi, dal nome suggestivo di New Old Klezmer (reminiscenza di Altneuland?), che riscuote ovunque grande consenso, si è aggiudicato prestigiosi riconoscimenti internazionali (ad esempio dalla European Association For Jewish Culture) e del quale è uscito, tre anni fa, un CD per l’etichetta discografica Ethnoworld.
Questa sera ci ha intrattenuto con uno spettacolo che è perfetta sintesi della sua ricerca e cultura.
Il programma consta di tre parti. Inizia con il suono dello shofar in Israel, brano che richiama vasti spazi, il venticello serale di Gerusalemme ci accarezza mentre il clarinetto, ora subentrato, pare riunire in sé tutti i suoni possibili e immaginabili, come migliaia e migliaia di granelli di sabbia catturati dal pugno di un ragazzo.
Echi tradizionali sposano elementi nuovi, con forti emozioni. Il pubblico, piuttosto attento, è composto da persone di diverse età: moltissimi i giovani, diversi dei quali, per le acconciature e l’abbigliamento, non sfigurerebbero sul palco a far da corona agli artisti; ma già così, seduti in platea, formano un tutt’uno con loro. La vicinanza con la cisterna cinquecentesca in arenaria di Francesco Terribilia, che impreziosisce il vasto, ma semplice cortile, suscita commozione.
Amit è un giovane alto e robusto: ad un primo sguardo, lo scambieresti per un serioso medico, ma si trasforma non appena dà di piglio al suo magico clarinetto. Con lui ci sono due chitarristi, un batterista, un evocativo suonatore di fisarmonica e la cantante solista, Dayana Gnarra, capelli raccolti e occhiali, la quale, all’occorrenza, accompagna le esecuzioni con uno strano strumento, il cui suono è simile alle nacchere, ma la forma è a…grappolo d’uva. Il tutto quanto mai suggestivo.
La voce profonda di Dayana esordisce nella preghiera Avinu Malkenu, nostro Padre, nostro Re; poi ecco lo scintillare di energia e di felicità nei momenti successivi, alternati con l’orazione che, in Psalm sembra un nastro d’oro che sale verso il cielo…..di nuovo Dayana nel brano, a gusto mio -e non solo, visto che, al termine dello spettacolo, il bis ne è stato richiesto a gran voce-, più evocativo dello spettacolo, la celeberrima Tumbalalaika; impossibile non pensare alla Dietrich di Lola o Ich hab’ noch einen koffer in Berlin.
Dayana, eine Yiddishe Marlene!
Le acrobazie dei diversi momenti Freilach, nella seconda parte, richiamano i legami profondi e, all’apparenza paradossali, tra musica klezmer e jazz, tra gli stetlach dell’Europa orientale e la Goldene Medine dei grattacieli.
Danza il Rebbe, danza nella sua gioia pura e semplice.
La semplicità di D-o è per noi, persone complicate, inimmaginabile.
Nell’ultima parte, in omaggio alla circolarità dell’Ebraismo, il ritorno con Israel II al suono dello shofar e alla tradizione biblica, in una rielaborazione che riecheggia a lungo nel cuore.
Nata a Tel Aviv nel 1953, dopo aver vissuto a lungo in un kibbutz sul Golan, è ritornata nella città natale. I suoi libri hanno ottenuto un vasto successo e le sono valsi prestigiosi riconoscimenti….
Così recita la biografia ufficiale di questa signora bionda, coi capelli raccolti in un’acconciatura sbarazzina, il sorriso sorpreso di chi ancora non si rende conto in pieno di come mai tanti, pure nel nostro Paese, abbiano letto con commozione il suo Perché non sei venuta prima della guerra?, edito da Giuntina: un testo breve, ma intensissimo, che leggi in mezza giornata perché, una volta cominciato, non ti riesce di deporlo e devi arrivare all’ultima riga. Poi lo chiudi, questo libretto, e percepisci quanta emozione e amore ti abbiano trasmesso la madre, Helena, la protagonista, e Elizabeth, la figlia (l’Autrice, è ovvio), voce narrante.
Sul palco stasera sono tre: Lizzie al centro, alla sua destra Marina Astrologo, che prima di essere la traduttrice dall’inglese che tutti apprezziamo, è una vera interprete, nella nostra lingua, di parole e sogni, con i quali si diverte a giocare senza turbarli, ma anzi rendendoceli ancor più familiari; a sinistra Bruno Gambarotta, noto regista di programmi RAI e, a sua volta, apprezzato scrittore, che, in queste serate, veste l’abito del padrone di casa/intrattenitore. Ed è proprio lui che ci conduce nel mondo magico, ma quanto mai reale, di Lizzie/Helena, con la classica, ed inevitabile, domanda: Come (e perché) è nato il libro?
Ricordiamo che l’opera, uscita in Italia nel 2008, è stata pubblicata in Israele una decina di anni fa presso l’editore Chalonot di Tel Aviv col titolo Lamah lo bat lifne hamilchamah ?
“Non avevo mai sognato di diventare scrittrice” ammette Doron candidamente “ero troppo impegnata all’Università, con il mio dottorato in Scienze cognitive per pensare ad altro. Poi, un giorno, mia figlia mi domanda un aiuto per il suo progetto Radici: in Israele la scuola chiede ai ragazzi, giunti all’età dell’adolescenza, di ricercare le origini della propria famiglia, affinché si impadroniscano della loro storia e memoria. Io sapevo ben poco dei miei genitori: non ho conosciuto mio padre, morto prematuramente di TBC, quanto a mia madre, beh, non avevo mai riflettuto a lungo su di lei…. Non possedevo documenti che parlassero di loro, nulla. Ma mia figlia era insistente perché, tra l’altro, desiderava riportare buoni voti in quella ricerca sulle Radici!” Lizzie ha un atteggiamento smitizzante mentre, nel suo inglese senza sbavature, ci racconta che, ottenuto un permesso dall’Università, si è messa a lavorare sui suoi, all’inizio scarsissimi, ricordi personali. “Mai e poi mai avrei immaginato che essi sarebbero finiti in un libro dato alle stampe! Dopo un certo tempo, una mia collaboratrice universitaria, non vedendomi più nell’ambiente, mi venne a trovare, temendo che avessi qualche grave problema. Conosciuta la vera ragione di quella scomparsa, dette un’occhiata al mio lavoro e sentenziò: è un gran libro! Di sua iniziativa, è stata lei ad inviare per posta elettronica, con un semplice clic, il mio elaborato a diversi editori e….quante telefonate! Ma tra tutte” prosegue “una mi ha conquistata. Una signora anziana, dall’inconfondibile accento ungherese, mi cercò. Era proprietaria di un piccola casa editrice, mi parlò col cuore dicendomi che avrebbe voluto abbracciarmi. Quando ci incontrammo, vidi che sul braccio aveva tatuato un numero….Le dissi subito il mio testo è Suo. Ne faccia ciò che vuole; io desidero solo ritornare al mio lavoro”.
Quel testo è stato conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo e da pochi mesi, grazie ai Vogelmann, anche nel nostro Paese. E’ un vero peccato che stasera non siano tante (o almeno me ne aspettavo in maggior numero) le persone venute a vedere ed ascoltare Lizzie: forse perché lei è “solo” una scrittrice, non ha -almeno non ha ancora; né spero abbia mai, indipendentemente dalle sue posizioni politiche- la facciata di opinion maker sul conflitto israelo/palestinese, che rende tanto popolari da noi i suoi più celebri colleghi, come Oz, Grossmann, Yehoshua, a prescindere dai -o almeno prima dei- loro stupendi romanzi? Come che sia, la presenza di Lizzie ne rende viva e palpabile un’altra, quella di Helena, sua madre, la protagonista del romanzo. Una figura che si potrebbe definire “straordinaria” se di questo aggettivo non si abusasse, da alcuni anni, fino alla nausea, sulla stampa e nel linguaggio comune.
Helena, cresciuta nel milieu austroungarico, lettrice di Heine, ha vissuto l’indicibile tragedia della Shoah, è sopravvissuta, è approdata in Israele. E’ giunta dal Paese “di là”, quello che non si nomina, al Paese “di qua”, quello della rinascita. Ma può rinascere chi è….sopravvissuto? Helena ci prova; vive la sua quotidiana esperienza in un mondo -e in un modo- tutto suo, scevro da condizionamenti esterni e senza scendere a patti con la comune realtà. Tutta la vita fa i conti con quel sentimento, contro il quale pure sua figlia confessa di aver combattuto (creandosi una propria identità, una biografia diversa, come lei afferma, a prescindere da quella materna), che è la “vergogna” di chi è uscito dall’inferno: la vergogna che, per ironia della vita, non colpisce certo i carnefici, bensì le vittime.
Un sentimento che Helena prova, ad esempio, davanti a Marek, una sorta di…aspirante parente -vero sabra: camicia blu, pantaloni corti, puzzo di vacca-, che le domanda, senza tanti complimenti: “Perché la tua bambina è così pallida e magra? Cosa sono questi vestiti diasporici? E perché, dimmi, perché non sei venuta prima della guerra?” Tale domanda, all’apparenza bizzarra, che dà, in modo perspicuo, il titolo all’opera, è il nocciolo del problema poiché fa emergere il rimprovero (da cui discende il sentimento di vergogna) rivoltole, nel Paese “di qua”: se ti fossi ribellata, se fossi venuta “prima”, l’orrore ti sarebbe stato risparmiato. Contrasto tra questi due “Paesi”, che assumeva contorni drammatici: Lizzie ci racconta che, in prima elementare, l’intera classe dei suoi compagni era composta da piccoli figli di sopravvissuti; per farli integrare meglio nella nuova Patria, che anch’essi avrebbero contribuito a costruire, erano stati affidati ad una maestra sabra. Ciò aveva provocato la reazione negativa dei genitori, contrari ad affidare i loro figli ad una….“straniera”: per protesta, dopo essere stati allontanati dalla classe dove si erano insediati, avevano continuato a stazionare nel cortile della scuola per sorvegliare la situazione!
Il libro sfugge ad una definizione precisa; lo si può considerare un diario/memoriale/romanzo, composto da circa una ventina di racconti / capitoli (riferiti agli anni ’60 e ’70, alcuni con postfazioni agli anni ’90, all’epoca della morte di Helena) legati dalla figura di lei, dove la Shoah non viene descritta in modo, per così dire, realistico, ma immaginata in base alle sue conseguenze sulle persone nel prosieguo del tempo. Per questo motivo, la sua spaventosa realtà è ancora più evidente. Indimenticabile, tra gli altri, è il personaggio di Sarale, anch’ella sopravvissuta e segnata per sempre: vorrebbe testimoniare al processo Eichmann, ma le viene impedito perché è considerata un po’ folle. Helena si batte presso diverse persone ed istituzioni perché, invece, questa testimonianza sia ascoltata, con la seguente motivazione ”……la testimonianza di coloro che sono rimasti sani è da considerarsi non valida, poiché a quanto pare hanno passato una Shoah leggera. Sarale, vostro onore, al banco dei testimoni non deve dire nemmeno una parola. Basterà farla stare lì in piedi perché tutto il mondo veda che shoah Eichmann le ha provocato nell’anima”. Invano.
Il giorno in cui il criminale nazista viene impiccato, Sarale si getta nel vuoto.
Non mancano spunti umoristici, di vera ironia yiddish. Sui metodi e le concezioni educative del Paese di “qua”, ad esempio. O come quando la protagonista organizza un ricevimento a casa sua per i colleghi di lavoro, ma non desidera che questi vedano la modestia dell’appartamento in cui abita, nonostante i numerosi tentativi di migliorare la situazione, pulendo, verniciando, aggiustando questo e quello…..
Allora, prima che la festa inizi, ricorre ad un brillante éscamotage: con il pretesto di fare un giretto nel circondario insieme alla sua cagna…..che cosa fa?
Lascio al lettore il piacere della scoperta dell’universo di Helena, del suo corrucciarsi perché ci sia un solo D-o (che di certo non ama gli Ebrei) e non due, cosicché il secondo avrebbe potuto correggere gli sbagli commessi dal primo; del rifiuto di accettare i risarcimenti della Germania a Israele o i regali per la figlia made in Germany; oppure la pervicacia con cui ella si libera di certe porcellane di fabbricazione bavarese…..
Ironie nell’ironia: sua figlia Elizabeth, la nostra Lizzie, riscuote grande successo in Germania.
A proposito del rapporto tra il clima drammatico in cui Israele è immerso (prima ancora di nascere) e la forte qualità della sua letteratura, la scrittrice conferma tale legame e pone l’accento sull’essenzialità del Paese, sul fatto che in Israele, rispetto ad altri contesti, vi sia “meno gioco e più temi autentici”.
Ritorna sull’immagine, richiamata pure da un altro autore da poco conosciuto, Ron Leshem, di Israele come “paradiso per gli scrittori perché è una sorta di colossale ospedale psichiatrico in cui i pazienti, gli Ebrei, soffrono di patologie postraumatiche”. Con immagini sarcastiche ella suddivide l’ospedale in tre reparti: nel primo vi sono gli “psicotici”, che non vivono nella comune realtà, ma in un mondo creato da loro e per loro (e sono certi abitanti del West Bank); il secondo accoglie chi che cerca ogni giorno di andare avanti, pur consapevole della difficile situazione (la maggior parte dei cittadini, gruppo in cui inserisce pure se stessa); nel terzo stanno quelli cui Israele va, in qualche modo, stretto e cercano altrove, in Estremo Oriente o a zonzo senza una meta precisa, la soluzione ai problemi della vita.
Tutti noi, pazienti dei tre reparti, ride, scriviamo lettere al mondo: esse sono i romanzi che voi leggete!
Nella conversazione su realizzazioni, programmi e progetti, ci ha parlato di altri quattro libri -nessuno, a tutt’oggi, pubblicato in Italia, ma Giuntina può sempre darsi da fare!-, dopo il primo. Il secondo le è stato ispirato da alcuni amici che vivono nel suo quartiere. Protagonisti sono sette giovani uccisi nel primo giorno della Guerra di Yom Kippur del 1973; molti di loro erano figli unici. Chi custodirà la loro memoria, se non la nostra Autrice? Il volume, che ha significato un altro congedo dall’Università (!), è un best seller in Israele. Il terzo libro raccoglie i ricordi infantili della terza generazione dopo la Shoah, mentre il quarto si sofferma sull’esperienza “mia e di altre mie amiche, tutte donne nate in Israele, che fanno i conti con il grave tema del senso di colpa e della vergogna”. Al quinto sta lavorando. E’ l’esperienza più problematica, ci confessa. Problematica perché “nel romanzo è racchiuso un mio segreto personale.
Con l’ultimo libro torno all’origine, cioè in Germania”.
“La scrittura è [per me] un tentativo di toccare ciò che non vedo. Mentre gli altri autori ripensano al loro vissuto, si confrontano con realtà note, il mio percorso è esattamente l’inverso. Scrivere per me è come sporgermi dal precipizio”.
Non ha alcuna intenzione di stupire l’uditorio, Etgar Keret, il secondo personaggio che incontriamo in questa rassegna, uno dei maggiori esponenti della nuova generazione di scrittori israeliani e l’autore più amato dai giovani. Il suo modo di esprimersi per paradossi gli viene naturale, te ne rendi conto appena lo vedi sul palco. 41 anni, ma ne dimostra di meno, nato a Tel Aviv da genitori scampati alla Shoah, jeans-maglietta-sorriso contagioso, la pronuncia delle consonanti in inglese ha un che di sibilante, come capita ai ragazzini.
Ha iniziato a scrivere a 19 anni, durante il servizio militare. E’ autore di sceneggiature per il cinema, storie per la televisione, libri di fumetti e per bambini (Papà è scappato col circo, 2003, illustrato da Rutu Modan) e perfino di un musical dal titolo (ovviamente insolito) Entebbe A Musical, scritto con Jonathan Bar Giora, che gli valse, nel 1993 il primo premio all’Alternative Theater Festival di Akko.
Viene presentato da Bruno Gambarotta come l’enfant terribile della letteratura israeliana, colui per il quale non esistono territori sacri. La sua caratteristica sono i racconti brevi, dal ritmo molto serrato, nei quali versa una capacità surreale di satira ed uno spirito….fulminante. Non a caso un suo libro (tre gruppi di raccolte di storie del 2003/2004) porta il titolo di Pizzeria Kamikaze; esso è edito da E/O, come del resto tutti i suoi testi. Vediamone altri.
Gaza Blues (2005), a quattro mani col palestinese Samir El-Youssef, in cui gli Autori condividono la stessa simpatia per i loro personaggi che sono veri “anti-eroi” e cercano di svelare la complessità di un conflitto che investe la loro vita quotidiana, piena di tutti i sogni, le aspettative, i fallimenti che appartengono comunque alla nostra vita in generale. Ne discende una miscela spiazzante che ci mostra squarci di una società nevrotica e paradossale.
Le tette di una diciottenne (2006), inizialmente apparso nella collana Dal mondo con il titolo Io sono lui, è anch’esso percorso da un forte senso dell’assurdo e dell’incredibile; cifra interpretativa, anche se ovviamente non l’unica, di una realtà, per tanti versi, pazzesca come quella di Israele oggi; fino al recente Abram Kadabram (2008), che il quotidiano Yediot Ahronot ha indicato come una delle cinquanta opere più importanti della letteratura israeliana.
All’osservazione secondo la quale i suoi personaggi paiono vivere in una dimensione minimalista, che considera anzitutto il ”giorno per giorno”, Keret conferma l’esattezza dell’analisi, motivandola come una reazione al fatto di essere cresciuto in un clima, per così dire, ideologizzato, con i valori del sionismo come base, ossatura del Paese.
Ciò lo ha indotto ad ampliare lo spazio personale, nell’esigenza dei personaggi (e dello stesso Etgar) di ritrovare se stessi, senza timore di confessare il proprio disorientamento e malessere esistenziale, pur espressi con il sorriso sulla labbra.
La complessità della natura umana lo porta a far sì che, nelle sue storie, non vi sia una coppia che viva in armonia; si tratti di genitori/figli o marito/ moglie; i vivi e i morti coesistono, così come la tematica del suicidio è ricorrente. “Ma non vi è nulla di macabro” precisa ”anzi il contesto in cui i suicidi sono inseriti è ottimista. Se hai la possibilità di ucciderti, significa che sei in grado di prenderti le tue responsabilità; anzi devi farlo, non puoi scaricare eventuali colpe su altri”.
Che ne dici dell’immagine proposta da qualcuno, lo provoca Gambarotta, che definisce Israele come “Fungo bellissimo, ma…velenoso”?
“L’identità israeliana” risponde “è da sempre costruita su paradossi e contraddizioni. C’è il lato conservatore che porta ad una rigorosa osservanza dello Shabbat, quando, per fare un esempio, i trasporti pubblici non funzionano; ma c’è anche l’Israele che sceglie come proprio rappresentante all’Eurofestival della canzone un travestito, che risulterà il vincitore della kermesse. Israele, insomma, è una bella donna imprevedibile. Un mio personaggio, un uomo d’affari di nome Avner, pur amandola, dice cose terribili su di lei! Vi sono tanti aspetti, nella nostra realtà, che sono comuni a quella italiana, o di altri Paesi occidentali; la vera differenza sta nel…volume: da noi è assai più alto!”
Ci parla della sua famiglia di origine. Sappiamo che i suoi genitori sono sopravvissuti alla Shoah (e qua è là il tema emerge); ci sono pure una sorella ed un fratello, assai dissimili tra loro.
La sorella, 45 anni, segue il filone ultraortodosso dell’Ebraismo, ha undici figli e due nipoti; il fratello, legato all’estrema sinistra, dopo aver tentato di costituire in Patria un gruppo politico volto alla legalizzazione della marijuana, ora vive, su un albero (ma fornito di computer, se ho ben capito!), in Thailandia.
“Siamo molto diversi tra noi, ma stiamo cercando tutti la stessa cosa, pur attraverso percorsi differenti: ciò che trascende la realtà quotidiana, il senso profondo della vita”.
Una figura che ricorre nella sua poetica è l’illusionista o il “prestigiatore”, come Abram Kadabram.
C’è molto in comune tra il “mago” e lo scrittore, entrambi condizionano il pubblico, ma ne sono, a loro volta, condizionati. Quando un “mago” può essere davvero definito tale? Quando lui stesso non riesce a scoprire i propri trucchi; è la stessa esperienza che vive lo scrittore.
Altri personaggi cui Etgar spesso fa ricorso sono i “bambini”, magari inseriti anch’essi in un filone macabro. La letteratura, confessa, mi ha consentito di esprimere il mio volto di bambino che avevo sempre nascosto. I bambini non sono (ancora) parte integrante della società: per questo hanno la capacità rara di vedere la realtà così com’è, contrariamente agli adulti, che vi sono immersi. Vedremo come ha sviluppato il tema della forza dei bambini in una specifica occasione.
Quanto ad una certa predilezione per il tema del “compleanno”, questo si spiega col fatto che, inevitabilmente, il giorno del tuo compleanno, sei costretto a fare un bilancio, sia pure parziale, della tua vita, a guardare dentro di te e all’indietro, nel tuo passato. Il tema del “compleanno” è scelto come momento di sfida.
Alla rituale domanda di come nascano i suoi racconti, egli spiega che la vera molla sono le situazioni di….squilibrio, di instabilità: quando stai per cadere, ti aggrappi a qualcosa. “Ecco, questo significa per me scrivere!”
Il criterio, poi, secondo il quale sono organizzate le raccolte dei suoi racconti, beh questo può essere casuale; magari nascere da una situazione di emergenza. “Una volta” confessa “temevo di perdere i racconti appena scritti perché il computer stava andando in tilt, così, per salvarli, li ho radunati in un unico file….”
Nella nostra conversazione, per usare un’immagine biblica, alla brezza della sera, non è mancato l’accenno agli autori, di diverse epoche e contesti, che hanno influenzato la formazione di Etgar Keret.
Tra questi, nota Bruno Gambarotta, Julio Cortázar ( 1914 – 1984), lo scrittore argentino (ma vissuto a lungo a Parigi) che prediligeva i generi del fantastico e del mistero, stimato da Borges, spesso paragonato a Cechov e Edgar Allan Poe, i cui racconti non sempre seguono una linearità temporale, ma i cui personaggi esprimono una psicologia profonda.
Poi, aggiunge l’ospite, Franz Kafka, Isaac Bashevis Singer e Isaac Babel.
Ma un posto importante lo occupano anche i racconti hassidici. Quando la sorella si è volta verso l’ebraismo ultraortodosso, Etgar, per trovare un comune terreno d’intesa con lei, si è avvicinato a quel mondo, ricco di misticismo, ironia, senso del fantastico. Senza dimenticare la Bibbia, con la quale tutti gli Autori israeliani hanno familiarità, a prescindere dalle singole scelte religiose: si può essere praticanti o meno, credenti o non credenti, ma “il” Libro è pietra miliare nella formazione e nella vita del “Popolo del Libro”.
Dalla Scrittura al Cinema
La sera successiva, il 10 luglio, presso il Cinema “Odeon”, a pochi passi dal luogo dei nostri incontri letterari, è stato proiettato “Meduzot” (Meduse), il lungometraggio -distribuito in Italia dalla Sacher Film di Nanni Moretti- che Etgar ha diretto un paio di anni fa, insieme alla moglie, la sceneggiatrice Shira Geffen, e che ha vinto il Premio Camera d’Or al Festival di Cannes 2007, dopo aver riscosso notevole successo in Israele.
Al termine dello spettacolo i due autori si sono intrattenuti col pubblico in un simpatico dibattito, nel quale hanno espresso con naturalezza e sincerità le motivazioni che li hanno portati a mettersi dietro la macchina da presa; questo in un momento molto felice per il cinema israeliano, che vanta, negli ultimi tempi, alcune pellicole di notevole rilievo internazionale, in una gamma variegata di temi espressi: pensiamo, tra le altre, a Beaufort, candidato all’Oscar come migliore film straniero (ma che in Italia non ha trovato il…suo Nanni Moretti) o a La Banda. O, mi permetto di aggiungere, a Souvenirs.
L’identità di scrittori rivestita da Etgar e Shira, seppure in contesti un po’ differenti, ha dato loro quella libertà di azione che personaggi “del mestiere” non avrebbero probabilmente avuto: “Sapevamo di correre un rischio, entrando in un mondo nuovo” aggiungono “ma lo abbiamo corso volentieri. Nella peggiore delle ipotesi, in caso di flop, saremmo tornati al nostro vero lavoro senza problemi”. “D’altronde, aggiungono “entrambi amiamo il cinema e da esso traiamo ispirazione. Così come, nel cinema, traiamo ispirazione dalla parola scritta”.
Ho rivisto con piacere la pellicola e ho colto aspetti nuovi nella trama delicata di cui è composta. Ad esempio il soffermarsi della macchina da presa sugli interni aridi, quasi squallidi: l’anonimo albergone di Tel Aviv dove Keren e Michael passano la loro luna di miele; l’appartamento in cui vive Batya, il cui soffitto ha urgente necessità di essere riparato; il ristorante specializzato in ricevimenti di nozze -che immagini uno uguale all’altro, nel loro svolgimento e menu- con annesso giovane direttore arrogante; le poche stanze che la signora di origine tedesca divide con la badante filippina, sul volto dolcissimo della quale leggi tutto il dolore per la lontananza dal suo bambino, mentre lei s’impegna più che può nel suo lavoro, arrangiandosi con un inglese elementare e con quell’espressione/domanda che, probabilmente, è l’unica che conosce, nella lingua del Paese: “Tutto a posto?”
Agli interni così freddi e disumanizzati fanno da contraltare i diversi personaggi, con i sentimenti, i desideri, la difficoltà delle persone ad entrare in sintonia l’una con l’altra…..La Tragedia del “Passato che non passa”: “Siamo tutti della seconda generazione” (dopo la Shoah)…..Una madre che sa sorridere solo dai cartelloni pubblicitari (da dove invita il pubblico a sganciare soldi per iniziative pseudobenefiche) e un padre troppo occupato con l’amichetta bulimica di turno per prestare attenzione alla figlia, più o meno coetanea di quest’ultima…..gli struggenti versi della misteriosa poetessa, suicida a causa della solitudine: “…una nave dentro una bottiglia non potrà affondare mai, né ricoprirsi di polvere. E’ bella da guardare mentre naviga nel vento… e intorno…meduse….”
Ma vi è la nota di speranza: la grande forza dell’innocenza infantile e della poesia.
La bambina silenziosa coi capelli rossi, che non si separa per nessun motivo dal suo salvagente, rappresenta la vita che rinasce; di impareggiabile suggestione i lunghi sguardi, negli interni, sulla spiaggia e, soprattutto, alla fine, sott’acqua, tra lei e Batya, cullate dall’affascinante commento musicale per pianoforte.
All’uscita, la via Mascarella, su cui si affaccia il cinema Odeon, era stata pedonalizzata grazie ad una benemerita iniziativa di alcuni ristoratori della zona: sulla strada erano stati posti i tavoli per gli avventori, che così si sono seduti all’aperto in un clima festoso.
Siamo giunti all’incontro conclusivo.
La nostra ospite è, per il pubblico italiano, una scrittrice esordiente, anche se ha alle spalle una consolidata esperienza culturale.
Sarah Shilo, nata a Gerusalemme nel 1958 da madre siriana e padre iracheno, autrice, come tanti colleghi, di libri per l’infanzia, ha diretto il Centro d’arte di Ma’alot, la cittadina israeliana situata nel nord del Paese, tragicamente nota per il massacro, operatovi da terroristi palestinesi nella primavera del 1974 -il 15 maggio, 26° anniversario della proclamazione dell’Indipendenza-, quando furono sequestrati ed uccisi 26 ragazzi di una scuola locale. Oggi ella vive con la famiglia a Kfar Havradim, sempre nel nord di Israele; è madre di cinque figli.
Il suo romanzo di esordio “La pazienza della pietra” ha suscitato grande interesse e le è valso prestigiosi riconoscimenti: il premio Sapir, il premio Wiener e il premio Sharet.
E’ uscito in Patria nel 2005 col titolo Shum gamadin lo yavou con l’Editore Am Oved (Tel Aviv) e, in Italia, quest’anno, con Giuntina.
Come è nato il libro? Nel dépliant illustrativo del Festival viene riportata una spiegazione semplicissima ed affascinante: in occasione del 40° compleanno Sarah ebbe in dono Che tu sia per me il coltello di David Grossman. Lei racconta: “Mi identificai con Yair che voleva ‘dare se stesso’ solo con le parole e con Myriam che aveva la mia stessa età ed era sterile. Attraverso di lei ho avvertito la mia sterilità creativa e la passione per la scrittura, assopita dentro di me. Mandai una lettera a David Grossman e lui mi rispose: mettiti a scrivere”.
Sarah stasera è con noi: una bella donna bruna, con fattezze mediorientali, sorriso dolce, i modi semplici ed immediati, non certo da autrice di best seller. Preferisce rivolgersi al pubblico nella sua lingua, un ebraico ricco di suggestioni vellutate.
Per questo sul palco, insieme a Bruno Gambarotta, c’è pure, nella veste di interprete (oltre che di editore), Schulim Vogelmann, che ha tradotto il testo in italiano.
Come definire quest’opera, pur con i limiti che ciò comporta? Sono cinque lunghi racconti, monologhi che abbracciano un arco di tempo di meno di un giorno e conducono tutti, prima o poi, ad una persona amata, morta sei anni prima, al vuoto incolmabile che questa ha lasciato nei congiunti. Cinque canti, intonati in prossimità dell’anniversario, in memoria di chi, pur materialmente lontano, è vicino in ogni istante.
Il contesto è una cittadina, non precisata, nel nord, abitata da persone, per lo più immigrate, di modesta condizione socio-economica, bersagliata ogni giorno dai razzi katiuscia, sparati contro Israele dal Libano. Il momento storico, rilevabile da una nota a pié di pagina 54, in cui è citato Meir David Kahana -il rabbino e politico ultranazionalista, nato negli USA, trasferitosi in Israele, poi espulso dalla Knesset per le sue posizioni estremiste, ucciso a New York dagli Arabi nel 1990-, è l’inizio degli anni ’80, quando Kahana si trovava in Israele e viaggiava in lungo e in largo per il Paese al fine di convincere la popolazione, specie quella residente nelle zone più disagiate, della bontà delle proprie tesi politiche.
La persona amata era -o meglio è- Massud, capo della famiglia Dadun, immigrata dal Marocco, noto a tutti come “il re dei falafel”, morto all’improvviso nel suo chiosco, forse a seguito di shock anafilattico per la puntura di un’ape (….”Per un anno intero cercarono di capire cosa fosse successo: l’olio o l’ape? Il coltello o la caduta? Il cuore o la bruciatura….?”)
La moglie, Simona, i figli Itzik e Dudi, Kobi -il maggiore-, la figlia diciassettenne Etti, ciascuno secondo la propria sensibilità, ci parlano di lui e ce lo rendono vivo, palpabile.
Vi sono altri due figli, i piccoli Osri e Haim, gemellini di cinque anni e mezzo, nati dopo la morte del padre.
Nella cittadina le famiglie vivono l’una accanto all’altra, come in un unico grande condominio popolare. Il dramma della famiglia Dadun si mescola col dramma di Israele; l’incubo degli attentati terroristici è sempre ricorrente nei pensieri di adulti e ragazzi (“nel nostro paese forse è meglio essere una formica che una persona…”afferma uno dei protagonisti).
Simona, la madre, è una donna ricca di umanità, provata dal dolore, che tenta di stemperare con una massiccia dose di (auto)ironia. Impagabili sono le parole con cui descrive le faccende domestiche, personificate e trasformate in compagne di gioco crudeli, che non aspettano altro che il suo ritorno dal lavoro perché così “mi si scaraventano addosso una dopo l’altra e figurati se, dopo essersi riposate tutto il giorno, non hanno energie per giocare….Non si fermano un attimo le faccende, continuano a ridere fra loro, ridono di me…”.
Dopo la morte del marito è riuscita ad essere assunta presso un asilo infantile dove, insieme alla soddisfazione nel vedere i piccoli che crescono e imparano a camminare, ella deve sopportare i malumori di Dvora, una sorta di supervisore; la quale, forse perché è una sopravvissuta alla Shoah, è ossessionata dalla paura che i bambini non mangino abbastanza e li rimpinza a più non posso (“E poi tutti lo sanno che tutto questo le succede per via dei tedeschi…Guardi il numero che gli hanno tatuato sul braccio e stai zitta”). E poi ci sono le mamme dei piccoli, sempre diffidenti -gli occhi sulla schiena!- e pronte a controllare quanti pannolini sono stati consumati, a fine giornata, per l’igiene dei loro figli.
Simona deve fare attenzione pure al “regno delle vedove”, dove si vive di piagnistei e di rimpianti sterili. Sì, perché se “scappi dall’acqua della compassione della gente, fai attenzione a non cadere nel barattolo dello zucchero delle vedove”.
Massud era il centro della famiglia, riusciva a tenere tutti uniti, nessuno si alzava da tavola prima di lui; ora, al contrario, regna l’anarchia totale.
Solo i gemellini obbediscono a Kobi, perché credono che sia il loro papà. Come può infatti “una pietra sostituire un padre”? Impossibile. Ecco perché la madre ha raccontato ai piccoli questa pietosa bugia, per dar loro una parvenza di serenità.
Ella rievoca il primo incontro con Massud, sulla nave che li avrebbe portati dal Marocco in Israele, esprimendosi in un linguaggio che rivela la passione mai sopita, molto emozionante: lei aveva 15 anni ed era un’adolescente silenziosa, ma “…Il fuoco di Massud ha trovato i semi delle mie risate dentro la mia pancia e li ha riscaldati…..“ La magia del cercarsi senza parlarsi né toccarsi direttamente, con il batticuore dato dal fatto che “le mie risate seguivano la sua voce ovunque andasse”. Poi la gioia dei loro incontri d’amore: odori, profumi, sussurri…
Ora Simona fa i conti con il risentimento verso di lui perché, morendo, egli l’ha abbandonata (“le mie cose, le nostre sono finite sottoterra con te”). Sdraiata all’aperto, davanti alla porta del campo di calcio, anziché nel sicuro del rifugio, ella aspetta il katiuscia per poterlo raggiungere in una -nuova-altra esistenza.
Con profonda ispirazione Sarah scrive la gioia/dramma del diventare madre, con parole che scuotono chi vi si accosta. La protagonista non ha studiato, ma costruisce la sua coscienza di donna pian piano, “mattone dopo mattone”, con l’esperienza di vita.
Bruno Gambarotta osserva che la donna che esce dalle pagine del libro di Sarah è assai diversa dall’israeliana emancipata che siamo abituati ad immaginarci. Per certi aspetti è vero, risponde la scrittrice; ma in Israele vi sono tante donne come Simona, specie quelle di recente immigrazione; tuttavia molte altre, di notevole cultura, mi hanno avvicinato e confidato che il mio personaggio le ha coinvolte nel profondo: esse si sono identificate in quel percorso di maternità.
Anche la sottoscritta, madre di un paio di figli, non è affatto rimasta indifferente leggendo quelle pagine.
Nel sentimento altalenante tra il desiderio di dimenticare Massud e la nostalgia di lui, ella seppellisce l’anello nuziale vicino al cimitero, ma non sulla tomba del marito.
Sono le cinque del mattino e ancora non è passata l’automobile col megafono che autorizza la popolazione ad uscire dai rifugi. All’improvviso ella ode, provenienti dal cimitero, le voci di tutti i suoi figli venuti a fare la azkarà (cerimonia di suffragio nell’anniversario della morte di un parente) per il padre, nel sesto anniversario della sua scomparsa.
Quasi incredula, ne prova una grande emozione. Pur nel dolore, la vita continua.
Il racconto dei fratelli Itzik (13 anni) e David -per tutti Dudi, di poco minore- è a due voci, perché i due sono inseparabili, al di là degli inevitabili bisticci. E’ la narrazione che mi è piaciuta di più, per la spontaneità e la freschezza che emana.
Itzik (13 anni), nato con un handicap alle braccia e alle gambe, è affezionatissimo, fino alla venerazione, ad un falco femmina, chiamata, su suggerimento del fratello Dudi, Dalila, come il personaggio biblico, accolta in un angolo della casa, a scopo, per così dire, difensivo, dato che il ragazzo ha avvalorato la tesi della puntura d’ape come causa di morte del padre. Itzik tratta Dalila come un essere umano (“forse dentro la sua testa i pensieri sono ordinatissimi, pensieri che non si sono mai sporcati, che non si sono mescolati l’uno con l’altro….”) e la conduce sempre con sé.
Nonostante la madre non gli abbia organizzato alcun festeggiamento per il bar mitzvà, egli ha un rapporto diretto e speciale con Dio, nascente da una personale visione religiosa. Questa: “…..perché una persona nasce in un castello e un’altra in una tenda? Perché anche Dio ruba da una parte per metterne da un’altra….per non annoiarsi lassù….E’ proprio quando prendiamo qualcosa che Dio è soddisfatto, perché vede che abbiamo capito il suo gioco” . Maledice il Signore per il suo handicap, ma, nel contempo, pensa anche che forse Egli, mentre era ancora nella pancia di sua madre, aveva scelto che lui, Itzik Dadun, sarebbe stato il primo di una nuova specie di persone, diversa da quelle che, da milioni di anni, fanno sempre le stesse cose!
Spirito fortemente caustico, ha elaborato di conseguenza una morale tutta sua, a cominciare da un nuovo codice di comportamento, in 7 punti, su come/quando/perché sia lecito rubare.
Ha pure studiato, lui che ha abbandonato presto la scuola, un fantasioso progetto in caso di un attacco terroristico al loro palazzo (che però, immaginandosi terrorista, non assalirebbe mai prima che lo stesso edificio non fosse verniciato e pulito per bene!). Fa le mostre del cinico, col fratello romantico e i suoi sogni.
Dudi, concepito dai genitori per riaversi dal trauma per la nascita di Itzik (“…solo per te ho voluto fare un altro bambino, per farti tornare il colore sul viso” dice Simona in un immaginario colloquio col marito defunto), subisce l’influenza e l’autorità morale del fratello, ma sente pure un’inconsolabile nostalgia per il padre.
“La cosa più bella del mondo è la sua mano sulla mia spalla [quando ad esempio gli riesce bene qualcosa] Peccato che poi mi venga sempre in mente papà e mi viene una gran voglia di piangere…Noi non parliamo mai di papà. Cosa dovremmo dirci su papà? Quello che è morto, è morto”. Tuttavia la struggente nostalgia per suo padre (il più bello di tutti! Anche quando era disteso per terra, morto) affiora di continuo in pagine che non si dimenticano, come quando paragona la mano di lui ad un cuscino che riscalda; o rievoca il modo in cui egli gli scartava il gelato in modo che la parte di cioccolato non si staccasse…..
Dudi è molto socievole, contrariamente al fratello, verso ilquale ha piccole delicatezzedi comportamento. Si ritiene un pezzo di ricambio di Itzik: “….Dio ha così organizzato le cose, che le mie mani siano le sue mani di riserva…”
Kobi è il figlio maggiore, di 19 anni. Poiché il padre è deceduto il giorno successivo, egli ricorderà per sempre il suo bar mitzvà, in occasione del quale la madre aveva preparato un sontuoso ricevimento.
All’inizio, nella fabbrica in cui lavora come magazziniere, è noto come “quello entrato al posto di Rosetta”, morta a seguito di un infortunio sul lavoro, e guardato male, quasi che questo evento luttuoso fosse avvenuto per colpa sua. In seguito riesce a guadagnarsi una certa fiducia e ad ottenere un posto di responsabilità.
E’un giovane cui la vita ha impedito di godere il periodo magico dell’infanzia. Ha dovuto assumere presto il ruolo dell’uomo di casa e ricorda spesso l’improvvisa morte del padre, il conseguente dolore, i problemi quotidiani. Costantemente preoccupato per la madre, sogna a Rishon una casa nuova per la famiglia ed un’esistenza meno angustiata dai problemi; ma vagheggia pure una vita tutta sua.
Ha un carattere introverso: una sua espressione, riferito alla propria pazienza, dura, costante (la pazienza della pietra, appunto) dà il titolo al romanzo nella sua versione italiana. La pazienza di un giovane come espressione della dura pazienza di un popolo.
Kobi fa assumere come contabile Jamil Churi, un giovane arabo al quale affida i suoi risparmi. Un giorno Kobi si reca al villaggio dove sta Jamil per rientrare in possesso del danaro e poiché questi, in un primo momento, non glielo consegna, reagisce con violenza. Quando comprende non solo che Jamil non è un ladro, ma sperimenta l’affetto con cui la famiglia di questi lo accoglie, la sua rabbia si scioglie in un pianto liberatore.. Si siede a tavola con i nuovi amici e il sorriso della speranza gli scalda il cuore.
Infine Etti, la figlia, 17 anni. Di grande forza espressiva è il racconto di come vengano vissute le conseguenze, sulla popolazione, della caduta di un missile da parte di questa ragazza, che paragona la marea di gente che si rovescia all’aperto ad un grande mostro spaventato dalla lunga coda che “chiedeva-scongiurava-accusava in una lunga eco: ‘Perché il rifugio è chiuso?’ E la varia umanità chiusa nel rifugio, con problemi e miserie. Riflette sulla propria famiglia, Etti; sul fatto che i gemellini credono che Kobi sia il loro papà; questa situazione crea in lei un certo turbamento. Bisognerà pur dir loro le cose come stanno, pensa, prima che provveda qualcun altro, magari con una frase cattiva.
Ha un ricordo dolce del padre, della sua abilità nel preparare i falafel, quando combinava insieme ingredienti e vivande di accompagnamento a seconda dei diversi avventori ed era sempre disponibile a venire incontro, per il pagamento, ai clienti più poveri.
Grazie all’amore per i fratellini, riesce a cominciare una nuova vita, insieme alla famiglia.
Il romanzo si chiude con l’immagine toccante di Etti che accarezza le testoline di Osri e Haim e racconta loro una storia, che è la storia dei Dadun. Ma è una storia speciale, perché la si deve raccontare dalla fine all’inizio. E la fine “siete proprio voi due…e guardate che bella fine”.
Il libro ha richiesto a Sarah Shilo cinque anni di duro lavoro (dal gennaio 2000 all’agosto 2005) ed un grande sforzo fisico e psicologico, insieme peraltro ad una notevole soddisfazione.
Ella confessa che, all’inizio, non era affatto consapevole della propria vocazione di scrittrice. E’ stata la scoperta, dentro di sé, dell’esigenza di esprimere in una storia il mondo della sua famiglia d’origine a darle l’energia per cominciare e continuare. In questo romanzo e per il futuro.
La pazienza della pietra, in apparenza semplice e scorrevole, è in realtà un lavoro composito ed originale. In primo luogo, il linguaggio usato è frutto di una profonda ricerca: un lessico vivace, pieno di espressioni tratte dal parlato, talora volutamente sgrammaticato, con punteggiatura approssimativa; il che avrà immagino fatto storcere il naso a più di un critico altezzoso, ma l’impatto sul lettore è di notevole effetto. Le riflessioni a cuore aperto di Simona mi hanno ricordato il monologo di “Penelope” nell’Ulisse di Joyce. Grande merito va al traduttore Schulim Vogelmann che ha saputo trasmettere al lettore italiano tutta la forza espressiva dell’originale ebraico.
Bellissime, tra le tante, le pagine in cui prende vita il mondo del rifugio descritto da Etti, la varia umanità che, rimossa la paura, trova la forza di andare avanti: prima dandosi un minimo di organizzazione interna per le esigenze più immediate, indi distraendosi con pettegolezzi sui vicini, infine abbandonandosi a paragoni tra razzi “vecchi” (delle precedenti incursioni) e razzi “nuovi”, quasi fossero mazzi di carte, che ognuno cerca di giocare al meglio.
Non vi è una vera e propria trama, né il contesto storico indicato ha particolare importanza, visto che gli attacchi missilistici da nord sono una costante nella storia dello Stato di Israele e la stessa Shilo ha attinto, per descrivere le scene, da diversi suoi ricordi di vita.
La vicenda è composta, come detto, da cinque ideali pagine di diario incentrate, ciascuna secondo il proprio percorso, su una figura che conserva intatto il suo valore affettivo: Massud. I morti interagiscono con i vivi poiché essi sono presenti e palpitanti almeno quanto questi ultimi.
Una costante nella letteratura, e nella cultura israeliana in genere, sono i sogni. E questo romanzo non fa eccezione. “Che sogno mi hai ucciso Itzik, che sogno…..” si lamenta Dudi.
“I miei sogni sono importanti perché fanno a gara con la realtà e ne sono uno specchio” osserva Sarah.
Tra i tanti altri temi che emergono c’è il rapporto speciale di Sarah con i bambini, dovuto alla sua esperienza, sia professionale, che personale di madre. “Mi identificavo con Itzik e il suo mondo mentre scrivevo” confessa “percepivo la sua solitudine e sentivo che, forse, un ragazzino nella sua situazione ha bisogno di piccole regole per vivere; magari i severi comandamenti degli adulti sono troppo impegnativi per lui!” Ride.
Un libro/universo, che ha suscitato l’interesse dell’ambiente cinematografico, tanto che l’anno prossimo vedrà la traduzione in film.
Sarà interessante scoprire come l’anima della famiglia Dadun verrà compresa e interpretata attraverso le immagini.
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Con la voce originale e significativa di Sarah Shilo si è concluso “SOTTO LA STELLA DI DAVIDE”.
Poche parole di commento. Il bilancio può senz’altro considerarsi positivo, per l’alto profilo degli ospiti intervenuti.
Tuttavia una maggiore pubblicità all’evento non avrebbe guastato, tenuto conto che esso, inquadrato nel più vasto contesto di Bologna Estate, ha rischiato di perdersi in quel nutrito programma di iniziative, di non sempre elevato valore.
Inoltre, la sede scelta (Il Cortile del Terribilia), certo suggestiva, per quanto situata nel centro storico della città, è in una posizione per così dire, defilata rispetto al “cuore” del centro stesso. Ciò lo si è potuto rilevare meglio durante lo svolgimento dell’iniziativa. Maggiore impatto avrebbe avuto il Festival se le serate avessero avuto come cornice una piazza cittadina; ad esempio Piazza S. Domenico, raccolta e spaziosa al tempo stesso, o la scenografica Piazza S. Stefano, che ospitò la prima edizione del 2005 (dedicata alla poesia), richiamando l’interesse di un vasto numero di persone verso un ambito culturale fino ad allora conosciuto a pochi.
Infine non avrebbe guastato la lettura di brani degli autori presenti, magari coinvolgendo giovani studenti dell’Università, che, a mio parere, si sarebbero combinati molto bene con gli scrittori ospiti dell’edizione appena conclusa. L’accenno solo a pochi passi, da parte del sia pur ottimo, per altri versi, Bruno Gambarotta, non è riuscito, per l’intrinseca brevità, a dar piena ragione della ricchezza dei testi.