(Titolo originario: The Mission of Human Resources Manager / Shlichutò shel hamemuné al mashabei enosh); Israele/ Germania/Francia, 2010; Genere: Drammatico)
“La gente è così….va e viene….”
Una canzone con parole e musica evocative funge da introduzione e da commiato alla vicenda narrata nell’ultima pellicola del regista israeliano Eran Riklis, del quale, tra gli altri, abbiamo gustato, due anni fa, l’intenso Il giardino dei limoni [1] .
Il Responsabile delle Risorse Umane, distribuito in Italia dalla meritoria Sacher di Nanni Moretti, cui si deve anche la comunicazione al pubblico nostrano di Meduse di Etgar Keret e Shira Geffen, è tratto dall’omonimo romanzo di Avraham B. Yehoshua, pubblicato da Einaudi sei anni fa.
L’opera è stata insignita in Patria del titolo di migliore film dell’anno ed ha vinto all’ultimo Festival di Locarno il “Premio del Pubblico”; inoltre è candidato all’Oscar 2011.
La storia ci riporta agli anni bui della cosiddetta Seconda Intifada e precisamente al maledetto 2002, che, in Israele, segnò un picco quanto ad attentati terroristici.
In una delle infinite carneficine che hanno sconvolto la vita degli israeliani, e precisamente in una strage perpetrata a Gerusalemme nell’affollato mercato di Mahane Yehuda, resta uccisa una giovane donna. Il suo cadavere rimane diversi giorni all’obitorio poiché nessuno lo reclama. Del caso si impossessa rapidamente il giovane corrispondente di un quotidiano progressista locale. L’insonne cronista indaga e viene a sapere che la vittima si chiamava Yulia Petracke (nel romanzo Regajev), era immigrata dalla Romania e lavorava come addetta alle pulizie nel maggiore panificio della capitale. La direzione dell’azienda non si era nemmeno accorta della scomparsa della propria dipendente! Al fine di evitare che l’accusa d’insensibilità sociale, rivolta dal cronista sulle pagine del giornale, si diffonda con conseguente, inevitabile perdita di prestigio e clientela, la responsabile del panificio, una signora matura bruna ed energica -chiamata la Vedova- convoca la persona che gode della sua massima fiducia, il Responsabile delle Risorse Umane. Questi è un uomo dall’aspetto un po’ trasandato, di poche parole, alle prese con una difficile situazione familiare: si è da poco separato dalla moglie (nei confronti della quale, lo si intuisce, prova ancora un sentimento profondo, sia pur malcelato), con conseguenti problemi di sistemazione in albergo; inoltre gli riesce ben poco, nonostante reiterate dichiarazioni di buona volontà, di mantenere un rapporto di presenza continuativa con la figlia adolescente.
Il panificio, così dispone la Vedova, farà pubblicare una dichiarazione di smentita della propria presunta mancanza di sensibilità; inoltre il Responsabile, dopo aver riconosciuto all’obitorio la salma, dovrà partire alla volta del Paese natìo di Yulia, con la bara della stessa al seguito e una congrua somma di danaro, da corrispondersi alla famiglia. Le verranno quindi tributate degne esequie, a spese, va da sé, dell’azienda.
Dopo un’iniziale, quanto inutile, resistenza, l’uomo accetta il compito affidatogli.
Dalle prime indagini compiute sul conto della defunta, viene a sapere che ella, immigrata in Israele alcuni anni prima alla ricerca di una vita migliore, insieme al marito e al figlio, era in realtà laureata in Ingegneria, ma si era adattata a svolgere umili mansioni pur di sfuggire da un’esistenza che non sopportava. Ben presto il coniuge e il ragazzo erano ritornati in Patria, ma ella era rimasta, ad affrontare da sola le dure difficoltà quotidiane in un Paese certo straniero, ma nel quale aveva riposto tutte le sue speranze. Viveva, lei cristiana, in un modesto quartiere abitato da Ebrei ultraortodossi, i quali le avevano attribuito il nuovo nome di Ruth (come la moabita della Bibbia?); e talvolta cercava un attimo di pace e raccoglimento nel giardino della Chiesa russa di S. Maria Maddalena, sul Monte degli Ulivi.
Una vita nuova; finché un giorno il destino tragico aveva sconvolto per sempre i suoi sogni.
Il Responsabile, dopo che è riuscito a farsi rilasciare dall’obitorio la salma risparmiandosi la penosa esperienza del riconoscimento -d’altronde, a parte ogni altra considerazione circa le condizioni del corpo dopo l’attentato, quella donna lui non la conosceva affatto- si reca così in Romania (ma potrebbe trattarsi di qualunque altro Stato satellite a vario titolo dell’ex Impero sovietico) accompagnato ….dalla bara e dall’immancabile giornalista, soprannominato “il Serpente”, il quale ostenta smanie giustizialiste, ma in realtà è solo un bambino mai cresciuto con costante nostalgia della mamma.
Di notevole efficacia, sia pur solo accennata, è l’immagine della coltre, se non di indifferenza, almeno di forzata rassegnazione di fronte alla quotidiana realtà fatta di morti, feriti e bombe, in una Gerusalemme quasi sempre in penombra, ingolfata dal traffico veicolare. Ben pochi i momenti di luce. Il protagonista spegne con aria distratta l’apparecchio radio (o Tv) allorché l’annunciatrice comunica che era una donna “la persona che si è fatta esplodere….”.
Dramma continuo, morte ad ogni angolo….Ma c’è chi, venuto da lontano, è disposto a correre il rischio pur di costruirsi la sua Terra Promessa.
Il Viaggio dell’uomo, del quale non ci viene indicato il nome, come del resto sono significativamente anonimi tutti gli altri personaggi della storia, salvo Yulia -quasi un richiamo al cappottino rosso, unico punto di colore, indossato dalla bimba ebrea in Schindler’s List- diviene pian piano qualcosa di radicalmente diverso da un oneroso compito eseguito con zelo burocratico.
Attraverso il peregrinare da un luogo all’altro, incontrando personaggi talora carichi di umanità, spesso dal comportamento incomprensibile, affrontando situazioni tra il tragico e il grottesco, il Responsabile -reso molto bene dall’attore Mark Ivanir- troverà dentro di sé proprio quelle Risorse interiori che gli daranno la forza per sciogliere il grumo di (solo apparente) cinismo, esso sì davvero deresponsabilizzante, che aveva reso la sua esistenza così vuota ed inutile.
L’opera è sorprendente, nel continuo trasformarsi da magica poesia a dura realtà quotidiana (vissuta sia nel proprio Paese, che in luoghi remoti la cui esistenza il Responsabile non avrebbe magari mai immaginato ), da lacrima a sorriso: vero paradosso ebraico.
L’incontro con una robusta, quanto improbabile consolessa israeliana dal marito abile nell’arte dell’arrangiarsi; le soste in luoghi assurdi, come un rifugio antiatomico abbandonato da tempo; la corsa verso il remoto villaggio d’origine della donna con la bara legata, ad un certo punto, sul tettuccio di un blindato prestato dall’esercito (e guidato dal protagonista, il quale, in quanto israeliano, deve giocoforza aver confidenza coi mezzi militari), il rapporto d’affetto che si instaura, dopo un inizio burrascoso, con il giovane figlio di lei, fino all’arrivo a destinazione dove giungerà pure l’anziana madre di Yulia, grazie alla quale la vicenda si conclude con un emblematico epilogo…Grazie a tutto questo e soprattutto grazie a questa fata senza volto, il perno di tutta la storia, forse ricominciare da capo è possibile.
Un inno alla speranza e al desiderio prepotente di vita, che hanno fatto dichiarare ad Avraham B. Yehoshua, nel corso di un’intervista rilasciata poco tempo fa: “Dei dieci film tratti dai miei libri, questo è il primo che mi ha reso felice”.