24 APRILE 2010, SABATO
Partenza in pullman di buonora verso la Città Vecchia.
Passiamo davanti al mitico Hotel King David, dalla inconfondibile, massiccia sagoma rettangolare in pietra arenaria rosata, mentre Angela fa un rapido accenno alle vicende che ivi si svolsero. Ci fermeremo più a lungo al ritorno.
Ecco l’YMCA, altro edificio caratteristico, appartenente alla Young Men Christian Association, la quale ne possiede altri due nella zona nord della Città Vecchia. Risale al 1933 ed è opera dello stesso architetto che progettò l’Empire State Building di New York (A.L. Harmon). Dalla sua torre, alta 50 metri, si gode una bellissima vista su Gerusalemme e dintorni, fino, nelle giornate più limpide, al Mar Morto. L’YMCA è un importante centro culturale, dotato di biblioteca, cinema, auditorium, sala da concerto, un ostello di tutto rispetto e un pregevole museo dedicato alle antichità mediorientali.
Il vicino
Pontificio Istituto Biblico fu fondato alla fine degli anni venti del secolo scorso come succursale del Pontificio Istituto Biblico di Roma. Dall’ottobre 2002, “consegnato il pastorale” al suo successore nella Diocesi di Milano, ha vissuto qui diversi mesi all’anno, per alcuni anni, il
Card. Carlo Maria Martini, del quale ricordo con piacere un breve, ma simpatico, incontro, che avemmo a Milano nel 1995, a margine di un Convegno nazionale dei Giuristi cattolici italiani. Uomo attento al dialogo tra persone di fede diversa e di grandi aperture all’interno della Chiesa -qualità che, entrambe, gli hanno procurato, insieme a numerosi attestati di stima provenienti in primo luogo da personalità non cattoliche (per tutti rammento Arrigo Levi
[1]), talora aspre critiche, specie (evento non raro!) da chi non aveva né titolo, né argomenti seri per formularle-, in uno scritto del 2004 confessava: “Che cosa mi ha portato a Gerusalemme?…….E’ stato lo Spirito Santo….Qui vivo molto bene…perché Gerusalemme è….un luogo di simboli straordinari, è un luogo in cui si respira la storia biblica, dai Patriarchi ai Profeti, fino a Gesù, alla sua passione, morte e resurrezione”
[2] .
Di nuovo quattro passi a piedi, come ieri sera, a
Kfar David, dove ammiriamo la stupenda flora primaverile che ovviamente nel febbraio dell’anno scorso non era ancora sbocciata: robuste piante di fucsia, cespugli di rose, alberi di mandarino con i frutti che occhieggiano qua e là, un profumo ovunque di lavanda mescolata al rosmarino, come piace a Dvora, la protagonista di
La voce del deserto: “….triturava [Sivan] fra le palme lavanda e rosmarino e me li porgeva: senti che profumo”
[3] .
Passiamo tra i condomini di lusso le cui imposte -capita sovente dovunque- sono per lo più rigorosamente chiuse
e ci fermiamo un attimo a fotografare l’affascinante scenario con il King David sullo sfondo.
Entriamo in Città Vecchia attraverso la Porta di Jaffa, Sha’ar Yafo (chiamata in arabo Bab el Khalil, porta dell’Amico, cioè di Abramo, l’Amico di D-o), sul lato ovest delle mura di Solimano. Essa fu aperta nel 1538/’39 nello stesso punto in cui si trovava una delle porte romane; ha due entrate, una (originale) per i pedoni e una per i veicoli; quest’ultima creata nel 1898, modificando il tracciato delle mura, per consentire l’ingresso all’automobile del Kaiser Guglielmo II (!) in visita. L’11 dicembre 1917 attraverso la Porta di Giaffa fece il suo ingresso in Gerusalemme il Generale inglese Edmund H. Allenby, comandante delle forze dell’Intesa operanti in Palestina.
Immediatamente all’interno, sulla sinistra, vi sono due tombe, appartenenti, secondo la tradizione, a due architetti di Solimano, condannati a morte per non aver compreso (per risparmiare denaro e, soprattutto, tempo) nella cinta muraria il Monte Sion posto ad est. La porta, dopo la guerra del 1948, si trovava sul confine tra Israele e Giordania; è stata riaperta nel 1967 dopo la riunificazione della città.
Fervono lavori edilizi e stradali.
Subito a destra la cittadella, la cosiddetta Torre di David, che abbiamo visitato nel 2009, nel cortile della quale ci recheremo stasera per uno spettacolo di suoni e luci sulla storia di Gerusalemme.
Animazione, traffico, un incrociarsi e un confondersi di linguaggi, persone, merci…Mi piacerebbe fermarmi a comperare quel pane a forma di serpente arrotolato (o di collana) con i semi di sesamo in superficie, invitante sulle bancarelle, ma non c’è tempo!
Verso il Quartiere Armeno, dall’irresistibile richiamo, ben conosciuto durante lo scorso viaggio. Proprio oggi, 24 aprile, gli Armeni di tutto il mondo celebrano il ricordo del loro Genocidio, il Metz Yeghern (Grande Male) -perpetrato dai Turchi- che, negli anni della Prima Guerra Mondiale (e altresì in periodi precedenti e successivi), distrusse oltre la metà del popolo, a cominciare dagli intellettuali e dagli esponenti più rappresentativi delle comunità; genocidio a tutt’oggi ostinatamente non riconosciuto dalla Turchia. E, dati la situazione internazionale e le propensioni dell’attuale leadership di Ankara, ritengo che dovrà trascorrere molto tempo prima che questo passo venga compiuto. Ci fermiamo in rispettoso silenzio a visionare sui muri degli edifici le cartine rappresentanti i luoghi delle tremende stragi, corredate di fotografie significative.
La prefazione all’edizione dell’opera di Anita Engle sul NILI, citata nelle pagine precedenti, è scritta da Pietro Kuciukian. Medico chirurgo e scrittore, figlio di un superstite del Metz Yeghern stabilitosi in Italia, profondo conoscitore della lingua e della cultura del suo Paese d’origine, Kuciukian (nato nel 1940 ad Arco, residente a Milano) ha scritto numerosi libri sull’Armenia e costituito insieme a Gabriele Nissim il Comitato per la Foresta Mondiale dei Giusti. Tra le numerose iniziative del Comitato c’è il Convegno Internazionale, organizzato a Padova nel 2000 col titolo: Si può sempre dire un sì o un no. I Giusti contro il genocidio degli Armeni e degli Ebrei.
Nel suo scritto di presentazione del libro sugli Aaronsohn Kuciukian rileva come i primi Pionieri di Israele sentissero una comunanza di destino con gli Armeni e manifesta grande simpatia per il gruppo costituito dai coraggiosi fratelli diZikhron Ya’akov (sensibili tutti, principalmente Sarah e Aaron, alle vicende armene) e si rammarica che i suoi connazionali non abbiano avuto, al tempo del genocidio, un NILI in grado di far giungere in Occidente la notizia di ciò che avveniva in Anatolia; il che forse avrebbe fatto muovere il mondo contro la furia stragista turca e fermare, come egli scrive, il “primo crimine di lesa umanità del XX secolo”
[4] .
Sappiamo che gli Armeni sono una delle comunità più antiche di Gerusalemme (vi si stabilirono fin dal IV secolo d.C., spinti da motivazioni religiose). Il Quartiere armeno nacque dunque come insediamento religioso; successivamente esso acquistò pure una dimensione civile.
Quando la Città fu definitivamente conquistata ai Crociati da Saladino (1187), gli Armeni non furono allontanati e, anzi, prosperarono; e nemmeno la tremenda repressione turca, attuata in questi luoghi durante la Prima Guerra Mondiale (pensiamo alla deportazione degli Ebrei di Tel Aviv), li danneggiò. Questo Quartiere è una piccola città dentro la Città Vecchia. Oltre le alte mura erette nei secoli a difesa intravvedi le chiome di altissimi alberi e immagini giardini.
E Misteri.
Massimo Lomonaco, nel suo recente romanzo, immagina che, grazie alla propria crudele astuzia, Wolgang Blucher (il capo operativo del
kommando di sei giovani nazisti inviati nella Palestina mandataria -dopo aver assunto l’identità di altrettanti ebrei deportati e prontamente uccisi- per preparare l’invasione del Paese da parte delle truppe dell’Asse, una volta sconfitti gli Alleati a El Alamein) sia riuscito ad entrare in uno degli edifici di questa cittadella e in un luogo riservato si incontri con gli altri per fare il punto della situazione: “Blucher …suonò al campanello di un immenso portone in legno scuro. Non aspettò molto: un piccolo uscio, ricavato dal portone, si aprì. Sgattaiolò dentro, seguito velocemente dai suoi compagni”
[5] .
Il Quartiere Ebraico inizia dove termina quello Armeno.
Dopo la riunificazione di Gerusalemme a seguito della vittoriosa Guerra dei Sei Giorni, gli israeliani si sono impegnati nella rinascita della zona, devastata dalle distruzioni a tappeto operate dai Giordani nel 1948 e dal successivo ventennale abbandono. Il luogo è piacevole, vivace, non sembra ricostruito solo alcuni decenni fa; non ha nulla, per così dire, di artificiale, forse perché la prelazione a risiedervi è stata riservata a coloro che vi abitavano prima della Guerra d’Indipendenza. Nulla di casuale, di artefatto, di manipolato. Incantevoli i portoni di alcune case.
Lungo una viuzza, davanti all’ingresso di un’abitazione, un bambino di pochi anni -pantaloni lunghi neri, camicia bianca, kippah- siede orgoglioso a cavalcioni di una piccola variopinta motocicletta, il cui proprietario (un parente, immagino) è membro della United Hatzalah of Israel. Si tratta di un’organizzazione non profit di volontari religiosi i cui soci (circa 1400), provvisti della strumentazione necessaria, intervengono ogni qualvolta vi sia un’emergenza di carattere medico o sanitario; si tratti di attentati terroristici, incidenti stradali o altro (essa ricorda la più celebre Zaka, diffusa anche al di fuori di Israele). Il loro campo d’azione è esteso a tutto il Paese (vi sono diversi centri o sezioni) e l’intervento è rapido poiché i volontari utilizzano per spostarsi piccoli mezzi veloci adatti a tutti i terreni, come, ad esempio, i tortuosi vicoli della Città Vecchia, dove non mancano gli scalini: li vedi alla guida di miniambulanze simili a trattori o anche inforcare motociclette, come quella che volentieri immortaliamo.
Rivediamo le Sinagoghe Hurva e Ramban, precedute dal minareto della
Moschea di Sidi Umar (mi pare fosse un ebreo convertito all’Islam), costruita alla fine del 14° secolo, non distrutta dagli israeliani dopo l’unificazione della città (…), anzi restaurata circa trent’anni or sono.
Percorriamo il Cardo Maximus -asse in direzione nord/sud-, ricostruzione della via principale dell’Aelia Capitolina romana e della Gerusalemme bizantina. In antico la strada percorreva tutta la città fino al punto corrispondente oggi alla Porta di Damasco (Sha’ar Schechun in ebraico; Bab al-Amud, Porta della Colonna, in arabo, da una colonna che si trovava sulla piazza antistante), incrociando il Decumano, che andava dalla Porta di Jaffa alla cosiddetta Porta della Catena, non lontana dal Kotel. Scatto un’immagine del colonnato lungo il Cardo.
Ci incamminiamo in direzione del
Santo Sepolcro. Penso ancora alle pagine di Anna Mitgutsch, poiché mi ritrovo in quanto ella scrive: “Non mi stupirei se parecchi che mi passano accanto e mi guardano di sfuggita sapessero di me più di quanto vorrei. E certe volte avverto alle mie spalle una presenza silenziosa che mi segue continuamente senza lasciare traccia….Sempre i medesimi ragazzi irrequieti, lungo le mura tra la porta di Damasco e quella di Jaffa…come se il vendere cartoline fosse solo il pretesto per un’altra missione, segreta”
[6] .
Giunti in prossimità della meta Angela ci riserva una delle sue sorprese.
Attiguo alla Chiesa del Santo Sepolcro c’è il Monastero Etiope; anzi, dopo secoli di distruzioni e ricostruzioni, il monastero ha finito con “l’adagiarsi” sul tetto di uno dei numerosi piano del Santo Sepolcro, in un punto che, in origine, era una porzione della chiesa del XII secolo.
Attraversiamo una sorta di giardino pensile in cui campeggia un albero del pepe, simile a quello che vidi, nel 1996, vicino alle tombe di David e Paula Ben Gurion, dove ci recheremo nei prossimi giorni.
La Chiesa cristiana etiope è tra le più antiche: la tradizione vuole che essa sia stata fondata da un alto ufficiale di corte, un eunuco funzionario della regina Candace, battezzato dall’Apostolo Filippo (Atti degli Apostoli: 8, 26-40).
La chiesa etiope non ha avuto particolare sviluppo in quanto monofisita (“una natura” in lingua greca) o meglio miafisita : essa, rispetto alle chiese tradizionali, crede nella coesistenza, in Gesù Cristo, di un’unica natura, quella umana e quella divina unite insieme. Il principio è condiviso, in linea generale, pur con differenze non da poco, con altre chiese orientali antiche, propriamente monofisite (la natura divina del Cristo assorbe, per così dire, quella umana) come, ad esempio, la siro-giacobita.
Da non dimenticare poi lo stretto rapporto, secondo la tradizione, tra Re Salomone e il monastero: il primo avrebbe infatti donato agli etiopi il secondo. Al di là delle leggende, è certo il collegamento tra l’illustre personaggio biblico e gli etiopi: pensiamo al Primo Libro dei Re dove si racconta della Regina di Saba che giunse a Gerusalemme portando doni ed enigmi (!) per Salomone. D’altronde non mancano le similitudini tra tradizioni ebraiche ed etiopi se ci riferiamo a quel periodo. Quanto alla Comunità ebraica d’Etiopia, essa conta diversi membri in Israele (circa 63.000), noti col nome di Falasha o, termine preferibile nell’antica lingua sacra chiamata Gez, Beta Israel (Casa d’Israele).
All’ingresso del monastero un’antica colonna sta a indicare la nona stazione della Via Crucis (Gesù cade per la terza volta portando la croce). A questo punto Angela -maestra giusta, pur un po’ severa- ci domanda di punto in bianco se sappiamo quante siano in tutto dette stazioni. Silenzio di tomba per alcuni secondi, seguito da risatine imbarazzate. Mi viene in mente la mia compagna di scuola ebrea, Miryam Camerini, assai più preparata in tematiche e vicende neotestamentarie di noi altri, cattolici battezzati e cresimati.
Andiamo avanti. Mi fermo un attimo ad osservare un anziano monaco etiope, dall’aspetto solenne e dal volto bellissimo assomigliante a quello dell’attore americano Morgan Freeman.
Accediamo alla Basilica del Santo Sepolcro, affollatissima come al solito; in particolare davanti al luogo in cui il corpo di Gesù fu deposto c’è una lunga fila. Moltitudini di pellegrini, voci rumorose, gl’immancabili monaci ortodossi in assetto…da battaglia.
Finalmente trovo, insieme con Mauro, un piccolo ambiente tranquillo dove concentrarci.
SILENZIO.
Usciamo all’aperto.
In un locale posto lungo una stradetta secondaria ci fermiamo insieme a Daniela, Tea e Walter per riposarci alcuni minuti e brindare con una deliziosa spremuta di pompelmo a Roberto, il cui compleanno cade oggi. Giunge sul cellulare di lui un affettuoso messaggio di auguri da parte del figlio ingegnere, Andrea, del quale ci ha parlato con giusto orgoglio paterno.
Udiamo -poco lontana- la voce del muezzin che chiama i fedeli alla preghiera.
Mi piace immaginare che quegli inviti non siano l’ordine a sterminare più infedeli che si può, a cominciare dagli Ebrei, ma abbiano per oggetto la lode alla bontà e misericordia del Signore, la pace tra i popoli, gli uomini, le fedi, la concordia tra le famiglie, il rispetto per le donne.
Utopia? Forse. Ma in questo luogo, con questa luce e questa simpatica compagnia, sognare è quasi un dovere.
Il pomeriggio è dedicato, per la maggior parte, agli amici Anita e Hanan Olamy, che risiedono nel moderno quartiere di Ramat Sharet, nella parte ovest della città.
Oggi, contrariamente a quanto accadde in occasione della scorsa visita, splende il sole!
I padroni di casa ci accolgono con la consueta simpatia e non sembra certo che sia passato un anno dal nostro ultimo incontro; in compenso, nei mesi d’intervallo ci sono state telefonate, messaggi e mail e tanto reciproco affetto. Poco dopo il nostro arrivo giunge anche la cara Miryam Padovano Schusterman, la brava traduttrice dall’italiano in ebraico. Peccato che, a causa di un’indisposizione, proprio all’ultimo momento, Fausta Migdal non abbia potuto essere dei nostri.
Al ritorno Mauro ed io diamo una doverosa occhiata al King David Hotel, proprio di fronte alla Città Vecchia, forse l’albergo più famoso della città. Ripenso alla sua storia. Fu inaugurato a fine primavera 1931 con un fastoso ricevimento curato nei minimi particolari dalla famiglia Moseri, facoltosi ebrei egiziani. Ebbe come ospiti personalità rilevanti della politica (e della mondanità) internazionali, compresi alcuni monarchi costretti ad abbandonare, per circostanze diverse, trono e Paese, come Re Alfonso XIII di Spagna, l’Imperatore Haile Selassie di Etiopia, Re Giorgio II di Grecia. Nel 1938 le autorità britanniche requisirono l’intera ala sud dell’edificio per farne la sede del Governo mandatario e del Comando militare.
In
La caccia di Salomon Klein Massimo Lomonaco immagina, nelle sale del prestigioso Hotel, ricevimenti e incontri dove i protagonisti sono un’insolita coppia di coniugi: l’Avv. Nassib Abcarius Bey (arabo cristiano) e la sua splendida (e assai più giovane) consorte, l’ebrea Leah Tannenbaum. Ma anche un paio dei giovani ufficiali delle SS, incaricati di far da staffetta agl’invasori tedeschi, sono penetrati, ovviamente sotto falso nome, nel King David con un piano, volto a…..beh, leggete il romanzo: quelle pagine sono tra le più emozionanti del libro
[7] .
E ancora, passatemi un’immagine a tutti nota, sulla terrazza principale dell’albergo si svolge l’incontro a cena, sia pure interrotta, tra Ari Ben Canaan e Katy Fremont, un colloquio che è tutto una promessa. Paul Newman ed Eve Marie Saint in Exodus…..
Storico è invece il terribile attentato, perpetrato il 22 luglio 1946, da Lehi (o Banda Stern) e Irgun che distrusse la sede del Comando inglese e provocò la morte di oltre 90 persone, tra le quali diversi Ebrei.
Dopo questo grave episodio l’edificio divenne una fortezza inaccessibile fino a quando la bandiera britannica fu ammainata, a seguito della proclamazione del (ri)nato Stato di Israele.
Trascorso un ventennio di inattività, poiché si trovava proprio sulla linea di confine tra Israele e Giordania, l’Hotel fu riaperto nel 1967, dopo la riunificazione della città.
Vedo entrare dall’ingresso principale una coppia di giovani in jeans e bermuda: mah, forse i portieri, che immagino inappuntabili e assai più eleganti, non risparmieranno loro un velato rimprovero per l’abbigliamento troppo casual.
Cara Gerusalemme, o Jer., come la chiamo con affetto tra me e me, stiamo riprendendo confidenza. E, con noi, ora c’è…Shulamit Hareven.
Nata a Varsavia nel 1930, morta -purtroppo- nel 2003, giunta a dieci anni nella Palestina mandataria, militò nella Haganah e combatté durante l’assedio di Gerusalemme del 1947/48. E’ stata tra i fondatori del Movimento politico Shalom Achshav e si è sempre impegnata per la pace tra israeliani e palestinesi. Scrittrice, giornalista, testimone preziosissima degli eventi di cui è protagonista il suo Paese, ci ha lasciato, tra le numerose opere, un bellissimo romanzo, una vera dichiarazione d’amore alla sua città di adozione, Gerusalemme.
Una città dai molti giorni, questo è il titolo, racconta, attraverso le vicende di una famiglia sefardita -gli
Amarillo (s) , Giallo in spagnolo-, la storia di Gerusalemme (la
Città dai molti giorni, appunto) dalla fine dell’Impero ottomano, attraverso gli anni del Mandato britannico, fino alla vigilia della proclamazione dello Stato di Israele. Un romanzo storico di formazione (formativo per chi legge) come quelli di Oz e Yehoshua, la cui lettura è indispensabile se si vogliono conoscere la letteratura e l’animo profondo israeliani; dove, tra i personaggi c’è anche chi, magari straniero (nella fattispecie, un ufficiale britannico), pur di non lasciare questo luogo amato, rinuncia ad una brillante carriera. Un brano adatto a questo momento: “…..la città era femminile, dolce, solitaria assorta nei suoi pensieri, riservata, una donna che addolcisce il suo tempo con una caramella di zucchero un po’ appiccicosa; i figli raccolti nelle pieghe delle sue sottane…. Altre volte era un uomo forte, asciutto e antico, che emana afrore di capra e di timo…”
[8] .
La giornata di oggi si conclude nel modo, per così dire, più degno e coerente.
Subito dopo cena ci rechiamo lesti alla Torre di David dove assistiamo ad uno spettacolo di suoni e luci nel cortile della fortezza
[9] .
Con l’introduzione di un Re David che suona assorto, le mura della “Cittadella” divengono il palcoscenico della storia di Gerusalemme, raccontata dagli albori ai giorni nostri, attraverso i secoli e i millenni. Con un sincero invito finale alla Pace.
Attraverso sofisticati accorgimenti elettronici le immagini sono proiettate sugli spalti della fortezza creando un effetto cromatico ed emotivo molto forte, propiziato sia da musiche commoventi, come la celeberrima canzone Yerushalaim shel zahav, sia da un cielo stellato limpidissimo che pare abbracciarci tutti.
[1] A. LEVI, op. cit., pp. 179-182.
[2] Carlo Maria MARTINI, Avvinto dallo Spirito vado a Gerusalemme senza sapere cosa mi capiterà, Conversazione apparsa sul notiziario n. 48 del novembre 2004 dell’Istituto Paolo VI (pp. 91-100); Fonte: L’Espresso del 12 gennaio 2005.
[3] A. MITGUTSCH, op. cit., p. 69.
[4] A. ENGLE, Spie all’ombra della mezzaluna, cit., pp. 9-25.
[5] M. LOMONACO, La caccia di Salomon Klein, cit., p. 78.
[6] A. MITGUTSCH, op. cit., p. 46.
[7] M LOMONACO, op. cit., passim.
[8] Shulamit HAREVEN, Una città dai molti giorni, Giuntina, Firenze, 2006, pp. 217, qui p. 72; titolo originale Ir Yamim Rabim, Am Oved, 1972.