PREMESSA
Cari Lettori,
mi appresto a raccontarVi il viaggio compiuto in Israele dal 21 aprile all’1 maggio scorsi, un’esperienza, come del resto quella precedente del 2009, per la quale ogni aggettivo sarebbe inadeguato.
                Per non annoiarVi con termini scontati quali “straordinario” (divenuto, da qualche anno, nel generale rimbambimento e imbarbarimento  linguistico, l'aggettivo qualificativo unico, bon à tout faire), “splendido”, e così via, lascio a Voi la scelta della valutazione, in ordine alla stessa, secondo la Vostra sensibilità. Confesso che, durante quei dieci giorni, ho riempito un intero quaderno di appunti, versandovi i miei sentimenti e stati d’animo, oltre, beninteso, le notizie che la nostra impareggiabile -questo aggettivo, considerata la persona, è necessario; concedetemelo- guida in loco Angela Polacco Lazar ci ha presentato con la caratteristica -mi verrebbe da dire, “tutta sua”- competenza e capacità di sintonizzarsi con la lunghezza d’onda di ciascuno di noi partecipanti.
Rientrata a Bologna, non è stato facile trarre da un materiale magmatico ed informe una vicenda, quanto più possibile, lineare e coerente; tenuto anche conto che a tale impresa sono stati dedicati i ritagli del tempo libero dagli impegni professionali. Quello che segue, se avrete la pazienza di leggermi, è un percorso affettuoso lungo il sentiero tracciato dal tema di quest’anno. Percorso che, inevitabilmente, alterna pensieri e sentimenti vissuti al momento del viaggio -e qui riportati- ad altri, frutto di riflessioni successive, elaborate dopo il ritorno a casa.
Una novità, rispetto al Diario precedente: durante il racconto mi sono permessa di coinvolgere, per così dire, tra i tanti, alcuni scrittori, israeliani e non, a me noti e vicini. In diversi momenti e passaggi della narrazione ne ho evocato qua e là le pagine, riportando in nota, ça va sans dire, i relativi riferimenti.
Ciò nell’intento di far uscire il mio contributo da una visione strettamente personale e soggettiva verso un ambito corale e condiviso, pur nella varietà del vissuto di ciascuno.
                
                 Buona lettura.
 
20 APRILE, MARTEDI
Vigilia di partenza accompagnata da una, per fortuna solo leggera, apprensione.
Da alcuni giorni gli aeroporti europei sono in tilt.
L’emergenza causata dall’eruzione, in Islanda, del vulcano nei pressi del ghiacciaio di Eyjafjallajokull (uno scherzo o una minaccia, quel nome?) sta lasciando gran parte del continente a terra. La gigantesca nube di cenere, che, dispettosa, osserva dall’alto i Paesi situati nella parte settentrionale dell’Europa, ha costretto alla chiusura gran parte degli aeroporti, compresi quelli del Nord Italia, almeno per alcune ore.
Il nostro gruppo ha, come primo appuntamento, Fiumicino dove convergeranno, tra stasera e domattina presto, coloro che hanno scelto, per raggiungere tale località, o il treno (come Mauro ed io), o l’automobile o magari l’aereo da Milano o da altre città del nord, utilizzando le ormai celebri “bretelle” di cui Lucia (Chicca) Scarabello, la nostra infaticabile organizzatrice di viaggi in Israele, scrive da mesi nei suoi messaggi e mail organizzativi.
Si parte/non si parte, doccia scozzese di notizie: fino a poche ore fa voci catastrofiste facevano nascere dubbi perfino sull’aeroporto della Capitale, che non si trova propriamente a Nord.
E i “milanesi”? Speriamo bene.
La nostra prima tappa è l’Hotel Hilton Garden, dove domattina alle 7.00 precise un bus navetta ci porterà al vicino terminal dell’Alitalia, in vista dell’imbarco.
Nella sala da pranzo dell’albergo vediamo subito Tea e Walter, i cari padovani, insieme a due loro amici di Bolzano, nuovi ingaggiati, Luigina e Giuseppe. Novità confortanti su domani mattina, rassicura Walter; possiamo quindi, a nostra volta, accomodarci a sedere per goderci un’ottima tagliata di manzo all’aceto balsamico e rosmarino. Al tavolo accanto, tre simpatiche signore venete si presentano: Silva, Rosanna (entrambe di Padova) e Franca (Conegliano Veneto).
 
21 APRILE, MERCOLEDI
Il mattino dopo, puntualissimi, ritroviamo al terminal Chicca e gran parte del gruppo, a cominciare da Roberto, l’amico di Aosta, la cui presenza per me significa: se c’è lui, la partenza per Israele è assicurata -e non conta se, insieme ad altri, arriverà a destinazione col volo seguente-.
I controlli di sicurezza non sono particolarmente pressanti, anzi. Partenza, con lieve ritardo. Basta uno spuntino, arricchito da qualche pagina di lettura del romanzo portato con me (I cinque libri di Isacco Blumenfeld di Angel Wagenstein) ed ecco Tel Aviv. Questa volta non ci accolgono, in fase di atterraggio, le Torri Azrieli, i tre più famosi grattacieli della città, ma quartieri residenziali con giardini e una fitta rete di strade a grande scorrimento. Nell’atrio arrivi del “Ben Gurion” ci attende un certo Mandi, mezza età, molto alto, calvo, incaricato dell’ormai tradizionale Agenzia di appoggio in loco I.G.T., con un cartello ben evidente “AMICI ITALIANI DI ISRAELE”. E come no….
Il tema del viaggio 2010 è: I KIBBUTZIM RACCONTANO LA STORIA DI ISRAELE.
Il Kibbutz, questa realtà mitica e concreta al tempo stesso, la struttura base della società israeliana, lo strumento operativo del movimento sionista, la sfida a cristallizzate convenzioni sociali e religiose, l’opportunità per la donna ebrea di dimostrare il suo valore come persona, al di là dei ruoli imbalsamati dalla tradizione di “moglie” e/o “madre”, il simbolo della rinascita ebraica nella Terra dei Padri….Ma i kibbutzim sono in crisi? Ed è vero, per contro, che, negli ultimi anni, i giovani ritornano al kibbutz fondato dai nonni, magari organizzato oggi secondo criteri e “filosofie” nuovi? Cercheremo di scoprirlo attraverso gli incontri programmati, ma anche ascoltando la nostra sensibilità di persone che vivono in un contesto molto diverso, orientato sovente secondo valori addirittura opposti. Il rapporto col tema del 2009 è stretto: l’anno scorso abbiamo riservato maggiore riguardo alla Natura e al suo legame con la Storia; nei prossimi giorni ci sarà la Storia in primo piano, anzitutto tramite un’istituzione, il kibbutz, la cui immagine, nei decenni scorsi pareva, come detto, essersi appannata. Ritorneremo poi, all’interno delle città, nei luoghi emblematici già visitati, anzi ci soffermeremo con il proposito di approfondire alcuni aspetti cui, per mancanza di tempo, non avevamo riservato la meritata attenzione.
 
Sbrigati in fretta i consueti adempimenti formali, dopo aver percorso un lungo corridoio interno con le pareti tappezzate da manifesti colorati inneggianti alle bellezze del Paese -il che mi dà precisa consapevolezza dell’arrivo- eccoci sul pullman diretto in albergo.
Lungo il percorso e all’entrata in città migliaia e migliaia di bandiere e bandierine nazionali: ieri, 20 aprile, cadeva Yom Hatzmaut, la Festa dell’Indipendenza, ma la gioia dell’evento è troppo grande: non si esaurisce, non può esaurirsi, in un giorno solo.

 
Quando meno te lo aspetti spuntano, azzurro intenso su fondo bianco, immagini di Ghilad (Shalit, e chi altro?), col suo volto da ragazzo, a ricordare che la gioia non sarà mai davvero tale finché egli è in catene.
Dopo esserci liberati dei bagagli, depositati nella nostra stanza ai piani alti dell’Hotel Metropolitan, Mauro ed io desideriamo fare una salutare camminata. Il pomeriggio è appena iniziato, la giornata è azzurra, il sole è caldo……Indossiamo, sotto ai vestiti, i costumi da bagno e ci dirigiamo verso la vicina spiaggia. Il mare è solcato da alte onde, non me la sento di fare il bagno. Mauro però, un po’ perché lo desidera e un po’ per il suo innato spirito di contraddizione, si butta in acqua, sotto lo sguardo meravigliato e divertito di Franca e Rosanna, in barba ai miei inviti alla prudenza e al fatto che, in quel momento, in acqua non c’è proprio nessuno.
Il mare: “l’altra faccia della città di sabbia”. Sono le parole suggestive di Elena Loewenthal nel prezioso (ed agevole) libretto dedicato dalla scrittrice a Tel Aviv: non una guida, beninteso, ma il resoconto di un viaggio, il suo, iniziato anni fa e ben lungi dall’essere finito[1].
Dopo essere rientrati per un veloce cambio di abbigliamento, ci concediamo una passeggiata sul celebre lungomare (Tayelet), costeggiato da un larghissimo marciapiedi, di tipo parigino, arricchito con motivi architettonici originalissimi: il pavimento è in fine graniglia con disegni circolari simili a occhi, che invitano i passanti a camminare, correre, riflettere….comunque a prendere sul serio il luogo. Il percorso è poi interrotto da giardinetti, spazi per sostare a far due chiacchiere ed osservare l’orizzonte, continui saliscendi, perdersi e ritrovarsi…
Riprendere a fare jogging, come le tante persone che incrociamo.
Diamo un’occhiata, osservandola da rispettosa distanza di sicurezza, alla sede dell’Ambasciata USA, simile ad un bunker, circondata da un certo numero di militari, ma ci fermiamo davanti alla targa che ricorda, proprio in questo punto, l’episodio tragico dell’Altalena.
L’Altalena (pseudonimo letterario di Ze’ev Jabotinsky) era un vecchio cargo partito nel giugno 1948 -dunque poco dopo la proclamazione dell’Indipendenza- dalle coste francesi, diretto in Israele (impegnato nella guerra contro cinque Paesi Arabi), con a bordo circa un migliaio di volontari e un ingente quantitativo di armi destinate all’Irgun (abbreviazione di Irgun Zvai Leumi, Organizzazione Nazionale Militare), il gruppo militante sionista -responsabile anche di alcuni attentati terroristici-, operante negli anni del Mandato britannico ed ispirato al sionismo di destra (c.d. revisionista) di Zeev Jabotinsky.
In linea di principio l’organizzazione non avrebbe più dovuto esistere, poiché le sue unità (circa 5000 uomini) erano state appena incorporate nelle nuove Forze Armate di Difesa di Israele (lo Tzahal). Tuttavia questa operazione era ancora, in larga parte, incompleta: i battaglioni erano stati incorporati tali e quali nell’appena costituito esercito e perciò il forte conflitto tra le due anime del movimento nazionale ebraico, quella pragmatica che guardava alla Haganah (“La Difesa”) e quella massimalista dell’Irgun, non era affatto risolto. Il comandante dell’Irgun, dopo aver annunciato al Governo il prossimo arrivo della nave, pretese che il 20% delle armi e munizioni fosse portato a Gerusalemme allora sotto assedio arabo, mentre metà delle rimanenti andasse alle unità Irgun dell’esercito. David Ben Gurion oppose un deciso rifiuto: nessuno aveva il diritto di imporre al governo quale uso fare delle armi (un passo difficile e impopolare, mai compiuto finora, ad esempio, dai leaders palestinesi).
Seguì una drammatica serie di equivoci e contrattempi. La vicenda si concluse con l’ordine, dato da Ben Gurion, di mitragliare l’equipaggio e bombardare la nave (dapprima bloccata dall’esercito sulla spiaggia di Kefar Vitkin, una trentina di chilometri a nord di Tel Aviv), una volta che fosse giunta davanti alla città. “Sotto gli occhi spalancati degli osservatori dell’ONU, l’esercito israeliano distrugge una nave carica di armi….E uccide una quarantina di patrioti ebrei venuti a dare man forte contro l’invasore arabo. Nella Knesset Ben Gurion parla di ‘cannone santo’ che ha schiacciato la ribellione. [L’episodio] in qualche modo è per Israele il biglietto d’ingresso nel teatro degli Stati-nazione”[2].
 

 
Le parole incise riepilogano i nudi fatti senza alcuna enfasi, quasi a voler lasciare ai posteri la responsabilità di emettere un giudizio su quanto accaduto. Di certo, apponendo questa targa, il Paese non ha inteso rimuovere dalla sua coscienza tale storia, che forse ancora divide gli animi.
Attraversiamo la strada per sostare davanti a Mike’s Place, il locale di musica dal vivo dove una sobria targa ricorda come lì, la sera del 30 aprile 2003….
 

 
….Asif Muhammad Hanif, ventiduenne terrorista suicida, pachistano di origine, ma con passaporto britannico -macabro debutto, il suo: nessun organo di informazione, e figuriamoci!, all’epoca fece caso a tale particolare: un ragazzo di agiata famiglia, giunto qui dal suo florido ambiente british ben motivato nell’intento di massacrare ebrei- con passaporto britannico, ribadisco, si fece esplodere causando, oltre ad una cinquantina di feriti, anche tre morti: due giovani, Ran Baron e Dominique Hass, e un simpatico signore barbuto -residente nella vicina Holon, padre di due figli adolescenti-, Yanay Weiss, il cui padre, Lipa, era stato uno dei pochi ebrei ungheresi sopravvissuti al tremendo meccanismo di morte posto in essere da Adolf Eichmann, il quale, nel 1944 (!), deportò verso le camere a gas l’intera comunità ebraica magiara. Yanay era appassionato di musica e ogni martedì sera suonava nei locali pubblici. Ed è proprio l’amata chitarra a costituire il cuore del piccolo monumento celebrativo: una chitarra con le corde spezzate, come la vita di Yanay. Famiglia colpita dal dolore in poco tempo, i Weiss: un paio di anni prima era stata uccisa, in altro attentato terroristico (in tale occasione perpetrato contro i passeggeri di un autobus) Inbal, vent’anni[3], figlia di Avner, primogenito di Lipa.


Di nuovo siamo sul marciapiedi che costeggia la spiaggia ed ecco la “Passeggiata” dedicata a Shlomo Lahat (detto Cheech), glorioso Sindaco di Tel Aviv dal 1974 al 1993, esponente del Likud, ma grande amico di Yitzhak Rabin

Poco lontano, un altro tragico ricordo: la Dolphin Disco, accanto al delfinario, teatro di un altro micidiale attentato terroristico, la sera dell’1 giugno 2001, contro un gruppo di ragazzi tra i 15 e i 25 anni, tutti di origine russa, fatti a pezzi da un coetaneo che non sopportava la loro felicità di danzare in Terra di Israele. Un massacro che, una volta tanto, attrasse l’attenzione del mondo, attenzione simboleggiata dai fiori bianchi depositati sul luogo la mattina successiva dall’allora Ministero degli Esteri tedesco Joschka Fischer (in visita ufficiale in Israele durante quei giorni), il quale chiese in tono duro a Yasser Arafat di condannare i mandanti della strage, ma di farlo in arabo affinché la sua gente ne comprendesse le parole.
Il locale, contrariamente ad altri, ricostruiti ben presto in una sfida tenace contro la morte, non ha più riaperto ed è lì, sprangato, alle nostre spalle, come un capannone in disuso.

Nel continuo pulsare di vita spicca quell’angolo dove tutto si è fermato una sera senza tempo di inizio estate; è una cicatrice ben evidente davanti alla quale ti fermi a riflettere.
Un cane di piccola taglia gironzola lì attorno curioso, poi obbedisce al richiamo della padrona e se ne torna disciplinato da lei. Non smetteremo certo di danzare, caro Giulio (Meotti), ma non qui. Non adesso. Qui non è -ancora- possibile. Proprio di fronte a noi la sagoma snella della Moschea Hassan Bek, costruita nel 1916, durante la dominazione turca. All’indomani della strage alla Dolphin, un gruppo di cittadini ebrei esasperati gettò sassi verso moschea, all’indirizzo dei fedeli islamici, ritenuti responsabili di quanto accaduto.
Il paesaggio cambia, man mano che ci avviciniamo alla collina di Jaffa.
La spiaggia cede il passo agli scogli, dove si avventurano un paio di gatti alla ricerca di cibo, per nulla intimoriti dall’acqua, con l’atteggiamento sicuro da abili pescatori.
Una giovane coppia mussulmana attraversa il viale in direzione opposta alla nostra. Jeans, felpa leggera, velo ricamato, ben truccata, lei; pantaloni sportivi, camicia a colori vivaci, lui. Si sorridono tenendosi per mano e chiacchierano animatamente tra loro; hanno l’aria serena di chi può permettersi atteggiamenti liberi senza che nessuno glielo impedisca o li molesti.
Beati arabi israeliani.
Rientriamo in città e poco dopo, senza quasi accorgercene, eccoci in uno dei luoghi più caratteristici, il Mercato del Carmelo (Shuq ha-Carmel). Mi ricordo che fu costituito da un gruppo di ebrei in fuga dalla Russia nel 1917, i quali ottennero dal Sindaco Meir Diezengoff il permesso di dar vita al mercato, immettendo così una nota popolare e vivace in una città fino ad allora un po’ troppo compassata e medio-borghese. 
Si tratta, per così dire, di un mercato ebraico -e infatti si sprecano le bandiere nazionali-, ma non per questo meno suggestivo di un suq arabo, come quello della Città Vecchia di Gerusalemme.
Suoni, colori, odori, canti, voci….I venditori espongono e propongono le loro merci: avresti voglia di fare incetta di peperoni verdi, rossi, gialli, di panciute melanzane color dell’inchiostro, di pesche dorate, di succosi pompelmi rosa e di pomodori rossi dalle varie forme….La pita fragrante appena sfornata da una donna dall’età indefinibile si sposerebbe a meraviglia con quel formaggio adagiato sul bancone vicino…
 

La via del mercato sfocia per magia nella vorticosa e coinvolgente danza di un gruppo di giovani ebrei ultraortodossi. Siamo ormai verso il tramonto ed è ora di rientrare. Imbocchiamo Allenby Street: in questa città non c’è una strada o un viale che sia del tutto diritto, di tipo torinese per intenderci, ma è un continuo cambiar di prospettiva e di scenografia.
Entriamo in sala da pranzo, dove incontriamo il resto della compagnia, compresi coloro che sono giunti col volo successivo al nostro, a cominciare da Roberto. Ecco Ileana e Valeria, le care sorelle vicentine; poi Maria Pia, l’anima milanese del gruppo con le sue battute al fulmicotone, senza sconti per nessuno; e poi i nuovi amici: Silvia di Castelfranco Veneto; Daniela di Bergamo -presto saprò che conosce bene Marco Paganoni e la sua famiglia d’origine-; Nelly di Milano con la giovane nipote (figlia di sua sorella), dal suggestivo nome di Anastasia; gli amici veneziani di Nelly, Giancarlo e Paola; Agnese, svizzera di nascita ma residente a Novara, con la figlia Manuela; Giovanna di Novara; Piero di Reggio Emilia; Letizia, siciliana, ma residente a Cormons, nel Friuli; Evandro, abruzzese, con la figlia Adele e il genero Franco; Guido e Anna, una giovane coppia residente a Bordeaux, ma originaria di Fossano, in provincia di Cuneo, come la mia amica Monica Dogliani; Vincenzo con Mirella, provenienti dalla provincia di Novara, e la sorella di lui con il marito, i Signori Carminati. E’ giunta nel frattempo Angela Polacco, la nostra Stella Polare dei prossimi giorni. Con lei siamo davvero in cammino.
 



[1] Per conoscere ed amare la città ci si può far prendere per mano da Elena LOEWENTHAL con il suo Tel Aviv – La città che non vuole invecchiare, Ed. Traveller Feltrinelli, Milano, Maggio 2009, pp. 153, passim (da me recensito nel Giugno 2009).

[2] Così Eli BARNAVI, Storia d’Israele – Dalla nascita dello Stato all’assassinio di Rabin, Tascabili Bompiani, Milano, Aprile 2001, p. 55; v. poi, ad esempio, Sir Martin GILBERT, Il secolo degli Ebrei, Gribaudo, Cuneo, 2002, pp. 260 e ss.

[3] Le tante storie, finora sconosciute ai più, dei martiri di Israele sono raccontate da Giulio MEOTTI in Non smetteremo di danzare, Lindau, Torino, 2009, pp. 352, passim (da me recensito nell’Ottobre 2009), splendido affresco sulla vita di un popolo eroico, nelle sue svariate componenti.