(Titolo originale The Hare with Amber Eyes. A Hidden Inheritance, Chatto &Windus, London, 2010)
 
Traduzione di Carlo Prosperi, Bollati Boringhieri editore, Collana Varianti, Torino, Agosto 2011, pp. 397, €. 18,00
“A Vienna non esiste più un Palais Ephrussi e non esiste più una Banca Ephrussi. La città è stata mondata della famiglia Ephrussi…..Scorrendo un registro scopro che sul nome di Viktor è stato impresso un timbro ufficiale rosso: ’Israel’…La famiglia non è stata cancellata, è stata corretta”.
“Sopravvivere agli altri è dura, dice Iggie a mezza bocca. Ma invecchiare in Giappone è fantastico, aggiunge a voce più alta”.
Introduzione
Dopo la pubblicazione in Gran Bretagna nel giugno 2010 (200.000 copie vendute) e negli USA a inizio 2011 (7 edizioni in 8 mesi), esce nel nostro Paese, con Bollati Boringhieri editore, Un’eredità di avorio e ambra, che può essere definito senza alcuna enfasi il caso letterario dell’anno.
L’Autore, Edmund de Waal -olandese per parte di padre, nato a Nottingham nel 1964, residente nella capitale britannica, dove vive e lavora- critico, storico dell’arte e docente di ceramica presso l’Università di Westminster, è uno dei più famosi ceramisti inglesi. Inoltre è curatore del Victoria & Albert Museum di Londra.
Egli stesso ci racconta che, nel 1991, a ventisette anni, ricevette una borsa di studio di durata biennale da una fondazione giapponese che aveva deciso di offrire a sette giovani inglesi con interessi professionali diversi (ingegneria, ceramica, impresa) un corso di lingua nipponica presso un Ateneo britannico, seguito da un soggiorno di un anno a Tokio. Negli obiettivi della fondazione, la conoscenza della lingua avrebbe contribuito ad inaugurare una nuova epoca di rapporti tra Giappone e Gran Bretagna.
A Tokio il giovane ritrova il prozio Ignace (Iggie) Ephrussi, colà residente da tempo, fratello della nonna paterna Elisabeth, il quale gli fa “conoscere” la sua collezione di 264 netsuke.
Che cosa sono? Si tratta di minuscole sculture giapponesi, la cui origine viene fatta risalire per lo più al XV° secolo, delle dimensioni di una scatola di fiammiferi, in avorio o legno, talora decorate con ambra, raffiguranti animali, piante, figure umane, divinità. Esse sono forate da due buchi attraverso per i quali passava un cordoncino in seta ed erano destinate a fissare alla cintura del kimono la scatoletta delle medicine o per il tabacco.
Come si sa i kimono giapponesi sono privi di tasche; così gli oggetti che le persone si portavano appresso erano collocati in piccoli contenitori detti  inro, attaccati ad una cintura di seta tramite una corda e, per evitare che i contenitori scivolassero via, all’estremità della corda veniva attaccato una sorta di bottone, appunto il netsuke (da ne -legna- e suke -bottone-).
La storia di questi piccoli oggetti è strettamente legata a quella della famiglia d’origine dell’Autore: gli Ephrussi, Ebrei originari di Odessa; in origine commercianti di cereali, poi ricchi banchieri conosciuti in tutta Europa, proprietari di palazzi e ville sparsi per il Continente.
In occasione degl’incontri con Iggie Edmund entra in un universo fino ad allora a lui poco conosciuto. La vita nella Vienna fin du siècle e primi decenni del Novecento nel fastoso Palazzo di famiglia sulla Ringstraße -ora sede di Casinos Austria, la società che riunisce i casinò austriaci-, non lontano da Berggasse, dove risiedevano Sigmund Freud e Theodor Herzl. Ho un vivo ricordo di quell’angolo di città, poiché, nell’estate 2002, in occasione della visita alla Casa / Studio (ora Museo) del fondatore della Psicanalisi, rimasi colpita da questa maestosa residenza, posta quasi a guardia del grande viale, il Ring, che circonda la città vecchia.
La Parigi degli artisti nel medesimo periodo, dove figura di spicco è Charles Ephrussi, mecenate, critico d’arte  (dirige la Rivista la Gazette des Beaux-Arts) e amico di illustri pittori, quali Renoir, Degas, o di scrittori come Proust, al quale ispirerà il personaggio di Swann. Sarà proprio Charles, il primo proprietario della collezione di 264 netsuke, a donarla nel 1899 al cugino “viennese” Viktor in occasione delle nozze di quest’ultimo con l’affascinante Emmy Schey von Koromla (sono i bisnonni di Edmund).
Le tragiche vicende della prima metà del Novecento, come il trionfale ingresso a Vienna di Adolf Hitler nel marzo 1938, le persecuzioni, i saccheggi e i furti nelle case degli Ebrei.
Complici una certa fortuna e soprattutto per merito di una coraggiosa persona non imparentata con la famiglia, che Edmund si rammarica di non aver potuto incontrare, le statuette sfuggono alle mani rapaci dei razziatori. Chi avrà la fortuna, oltre che la costanza, di leggere il libro (vi invito a leggerlo, senza accontentarvi della mia, sia pur ampia, recensione), scoprirà chi ha salvato i netsuke.
Sopravvissuti alle vicende belliche, essi ritornano al loro Paese di origine: accompagnano infatti Iggie quando questi, conclusa la Seconda Guerra Mondiale, decide di trasferirsi in Giappone, dove eserciterà l’attività originaria di famiglia (dapprima commercio di cereali, indi credito). Egli muore nel 1994, dopo aver lasciato in eredità la sua preziosa collezione al caro pronipote, il nostro Autore. Questi è affascinato dal modo di raccontare dello zio: non sistematico, con quel suo “saltare di palo in frasca”. Edmund già conosce nomi e luoghi ma, grazie alla narrazione suggestiva dell’interlocutore, le vicende familiari assumono  per lui un sapore nuovo. Riflette, con una certa saggezza: “…forse avrei dovuto sedermi accanto a Iggie con un taccuino e registrare quello che mi diceva della Vienna prima della Grande Guerra. Ma non lo feci mai. Mi sarebbe sembrato un atteggiamento formale e scortese, oltre che opportunista…..il bello della ripetizione è che leviga le cose, e i racconti di Iggie somigliavano ai sassi di fiume”.
Perché nasce questo libro
Le statuette esercitano su Edmund un irresistibile fascino, specie dopo che esse sono divenute sua proprietà: con calma prende in mano queste “piccole, spietate esplosioni di esattezza”, com’egli le chiama, le soppesa, ne rivive la storia, i misteriosi percorsi. Ciascuna, al contatto, sembra riprender vita e mentre ripensa agl’incontri con lo zio, le cui narrazioni gli consentono di conoscere le tappe principali del loro viaggio, nasce in lui l’esigenza di scoprire nel profondo “quale rapporto ha legato [ad esempio] questo oggetto in legno ai luoghi che ha attraversato…Voglio entrare in ogni stanza in cui questo oggetto ha vissuto, scoprire quali quadri erano appesi alle pareti…Voglio sapere di quali vicende è stato testimone”.
Il titolo originale dell’opera è, non a caso, La lepre con gli occhi d’ambra. Un’eredità nascosta; assai più esatto e suggestivo, mi si permetta di esprimere questa opinione, rispetto a quello adottato nell’edizione italiana.
L’A. compie un affascinante viaggio attraverso il tempo e lo spazio che lo porterà, autentico flaneur, a Parigi, Vienna, Kövecses (Cecoslovacchia), Tokio (dove si reca più volte anche dopo la morte del prozio). Infine Odessa. Qui iniziò l’avventura della famiglia -originaria di Berdychiv, uno shtetl dell’Ucraina del nord-: in questa città, certo legata alla persecuzione contro gli Ebrei, ma pure piena di artisti e scrittori, intraprendente, ironica e poliglotta. Luogo ideale dal quale partire, non prima di aver mutato il proprio nome, per dar libero sfogo a “quello spirito di avventura che ti spinge a vagabondare sulle tracce di Dürer o di un libro antico [Charles], ad inseguire un’amante [Stefan] o l’ennesimo buon affare [il “patriarca Haim, divenuto Joachim, indi Charles Joachim; o i suoi congiunti e discendenti, dediti alle attività di famiglia]. E’ qui che gli Efrussi divennero gli Ephrussi di Odessa”.
De Waal ripercorre dunque non solo la storia dei netsuke, passati di mano in mano, da una città all’altra, ma anche quella della sua eccezionale famiglia d’origine. Visita luoghi, incontra persone, fa rivivere istanti lontani, compulsa cataloghi, interpella studiosi di diverse discipline, entra in contatto costante, puntuale, ma anche affettuoso, con oggetti e ricordi di casa.
Un Diario di Viaggio che è pure, come capita quando lo si vive con autenticità, un Viaggio dentro Se Stessi, il proprio Passato e Presente. E Futuro se pensi ai tuoi figli.
Ne è nato un racconto avvincente, un’opera incantevole che ha catturato mente e cuore di un pubblico sempre più numeroso, non a caso insignita di due prestigiosi Premi letterari, il Costa Biography e il New Writer of the Year al Galaxi Book Award.
Dato l’argomento del volume mi sono permessa di arricchire la recensione con immagini di alcuni ritratti di importanti pittori citati nel testo,  con una fotografia del Palazzo Ephrussi di Vienna e altro.
 
Viaggi e Incontri
Specie nei ritratti, a cominciare da quelli degli antenati, la prosa di Edmund è incisiva, ma lieve, quasi tattile, come si addice ad un eccellente ceramista, attento all’estetica, all’ambientazione degli oggetti, visti come creature vive.
Un personaggio di rilievo è zio Ignace, per tutti Iggie. Lasciata l’Austria a causa del pericolo nazista e divenuto in seguito cittadino USA, partecipa allo sbarco in Normandia del giugno 1944.
Uomo d’affari sì, ma in grado di apprezzare il bello della vita, è elegante, raffinato, pieno di umanità -non puoi non amarla, una persona così-, immune da qualsivoglia nostalgia polverosa.
Infatti, dopo il secondo conflitto mondiale, si stabilisce in Giappone (il lettore scoprirà il motivo di tale scelta), dove vive sereno a Tokio col fedele compagno di vita  / figlio adottivo Jiro, esecutore delle sue ultime volontà, e non desidera certo ritornare a Vienna, dove si era recato una sola volta nel 1973. “….E tutti quei marmi e quelle dorature nella casa buia. L’hai vista, la nostra vecchia casa sulla Ringstraße?” chiede una volta ad Edmund con un misto di dolore e ironia.
Tappa imprescindibile della nostra ”spedizione” è Parigi.
Qui, in Rue de Monceau n. 81, c’è l’Hotel EPHRUSSI (ora sede di un istituto di previdenza privato). Costruito nel 1871 non solo come residenza privata, ma anche come sede parigina di una famiglia illustre; era il corrispettivo nella capitale francese del palazzo sul Ring: entrambi costruiti nel 1871, entrambi in zone nuove della città, di recente urbanizzazione.
Qui stavano tre fratelli: Jules; Ignace; Charles. C’era anche una sorella, morta ventenne di parto, Betty. Tutti erano nati a Odessa, figli di Léon Ephrussi e di Mina Landau (ramo “parigino”). Léon era figlio del “capostipite” Charles Joachim e della prima moglie Bella.
Nel 1826 era nato Léon; nel 1829 il fratello germano Ignace, che darà vita al ramo “viennese”. Il capostipite si era risposato a 70 anni a Odessa e aveva avuto altri figli.
Niente paura, cari lettori, in apertura del libro c’è l’albero genealogico della famiglia ad evitare inutili sforzi mnemonici.
Il capostipite, l’Abramo come lo chiama Edmund, aveva imbastito una campagna di espansione verso l’Europa da Odessa, come i Rothschild da Francoforte. Molto attivo e pratico, trattava direttamente coi sensali, trasportava con i carretti lungo strade faticose e sconnesse il suo frumento dalle terre nere dell’Ucraina al porto di Odessa. Da piccolo commerciante di cereali, arrivò a dominare il mercato. Nel 1860 gli Ephrussi sono i maggiori distributori mondiali di frumento: essi finanziano grandi progetti infrastrutturali (ponti sul Danubio; reti ferroviarie, porti, canali artificiali….) e si trasformano in società finanziaria internazionale e dunque in banchieri.
Nel 1857 i figli maggiori di Charles Joachim sono spediti da Odessa con le famiglie a Vienna; Ignace, poi, resta a gestire gli affari di famiglia da Vienna (vi morirà nel 1899); mentre Léon, come detto, dà vita al “ramo parigino”.
L’Hotel risale al 1871 poco dopo la sconfitta di Sédan. Va qui ricordato il ruolo giocato nello sviluppo di Parigi -a far tempo dalla metà del XIX secolo- dalle grandi famiglie ebraiche, residenti in Rue de Monceau, o nelle vicinanze, ed originarie di luoghi diversi: i Péreire del Portogallo; i Cernuschi (che nel 1870 sostennero anche la Comune) dell’Italia; i Cattaui dell’Egitto.
C’erano poi i Camondo, originari di Costantinopoli e Venezia, legati pure al nostro Risorgimento: essi infatti erano stati i banchieri che avevano sovvenzionato Vittorio  Emanuele II per la nostra Seconda Guerra di Indipendenza.
La vita di quest’ultima famiglia è particolarmente segnata dalla tragedia. L’ultima dei Camondo, Béatrice sarà uccisa ad Auschwitz con i due figli e il marito, il compositore Léon Reinach. Un fratello di lei, cui è intitolato un notevole Museo d’arte posto nella casa di Parigi, Nissim, pilota, era caduto da valoroso in un’azione di guerra nel 1917.
Vedremo a breve come sono legati tra loro Ephrussi e Camondo.
Nato nel 1849 ad Odessa (come gli altri congiunti), Charles Ephrussi, attore di rilievo nella nostra storia, si stabilisce ventunenne a Parigi, dopo l’interludio viennese. Al contrario di fratelli e cugini, egli si dedica alla sua grande passione: l’arte. Uomo raffinatissimo e colto, appassionato di Dürer (sui disegni del quale scriverà un libro); collezionista di vaglia, viaggia, conosce, sperimenta, matura. La sua vita affascina Edmund, il quale pian piano lascia cadere l’iniziale diffidenza nei suoi confronti. Charles diviene un personaggio pubblico, brilla nei “salotti”; suscita ovviamente invidie, acuite dal fatto che è ebreo: l’antisemitismo, più o meno strisciante, talora emerge. Edmond Goncourt, ad esempio, romanziere, memorialista, collezionista, stigmatizza come gli ambienti della buona società siano “ormai infestati di ebrei e ebree”.
E’ questa un’epoca di grande entusiasmo per tutto ciò che è orientale e, in particolare, giapponese. Il fascino sottile e la fine sensualità degli oggetti provenienti dal Paese del Sol Levante ben si sposano con la relazione che Charles instaura con l’affascinante Louise Cahen d’Anvers, nata Morpurgo (1845/1926), moglie di un banchiere ebreo e madre di cinque figli, bionda e significativa. Insieme si appassionano ai ninnoli orientali (recandosi nel negozio di un mercante di arte giapponese, certo Philippe Sichel) e frequentano teatri e salotti, dove incontrano il bel mondo e l’élite culturale dell’epoca: ad esempio Marcel Proust, che pare si sia ispirato a Charles per il personaggio di Swann. Charles, insignito della Legion d’Onore, è personaggio influente: ad esempio collabora con lui il giovane poeta Jules Laforgue, al quale egli procurerà un impiego a Berlino come lettore di francese per l’Imperatrice Augusta (!). La coppia, il cui legame era di pubblico dominio, condivide la passione per la musica di Wagner -ironia dell’esistenza!- e per i pittori impressionisti. A proposito di questi ultimi, ad esempio, Pierre August Renoir ritrae (1879/’80) la figlia di Louise, Irène, di otto anni, in un’opera indimenticabile

                 ora alla Collezione Bührle di Zurigo. Chi è Irène? E’ la madre di Béatrice Camondo.
E, a proposito della famiglia Cahen d’Anvers, il celebre pittore dipinge, poco dopo, una splendida opera (ora a S. Paolo del Brasile), raffigurante altre due figliolette di Louise, Alice ed Elisabeth, soprannominata “Il rosa e l’azzurro”, dal colore degli abiti delle piccole. Alice (rosa) morirà quasi novantenne negli anni ’60 del Novecento, mentre Elisabeth (azzurro) verrà uccisa, a 69 anni, ad Auschwitz, come la nipote Béatrice (Camondo).
Gioia sublime dell’arte e abisso del crimine.
Lo stesso Charles, divenuto amico del pittore, è immortalato, sia pure sullo sfondo e quasi di spalle (è il signore barbuto con cilindro), nell’indimenticabile “La colazione dei canottieri” (alla Phillips Collection di Washington), dove l’artista si è divertito a riprodurre molte persone a lui note.
               Nel negozio di Sichel Charles acquista, in blocco, 264 netsuke, poiché si è infatuato di queste originali statuette, raffiguranti animali diversi (dai polipi alle tigri, passando per lepri e scimmie), nudi di donna, bambini, uomini, frutti (cachi, castagne). La preziosa collezione è sistemata a dovere in una vetrina di legno nero e lucido come lacca.
La vita quotidiana -con le sue emozioni- in Oriente ha una sorta di corrispettivo francese nell’Impressionismo. Del resto anche gli artisti che seguono tale tendenza sono, a loro volta, convinti collezionisti di stampe giapponesi (come lo stesso Renoir, Manet, Degas).
Purtroppo l’antisemitismo si riaffaccia prepotente in Francia a fine secolo, complici vicende drammatiche, quali, ad esempio, il fallimento di una banca cattolica (la Union Générale), che aveva forti legami con la Chiesa. I sentimenti di odio, mai sopiti, si riaccendono: basta un rovescio economico e, in automatico, si trova a chi dar la colpa; l’invidia nei confronti degli Ebrei ricchi si esprime senza vergogna: addirittura rinveniamo sentimenti antisemiti in persone come Rénoir, che pure conoscevano bene Charles. Era merce quotidiana, come ben sappiamo, a fine ‘800, il trito copione che ancora oggi viene recitato nel consenso e nell’indifferenza di troppi -e proprio in Francia si esprime mettendo addirittura il catenaccio alla parola Shoah, per meglio educare al negazionismo, o comunque all’indifferenza, le nuove generazioni, mentre si ama discettare sul valore del ricordo-.
De Waal ci rende con orrore partecipi di questo clima disgustoso nel quale, tra l’altro, da parte di un “inviperito storico dell’arte”, viene messa in dubbio perfino la capacità di Charles Ephrussi “lui che è soltanto un…levantino…di comprendere il grande artista tedesco”, cioè Albrecht Dürer.
Per farla breve, si prepara il terreno al celebre caso Dreyfus (1894/1902).
In quegli anni duri il gusto di Charles cambia: l’entusiasmo per i netsuke scema ed egli rivolge le sue attenzioni al cosiddetto “Stile Impero”, quasi a rivendicare, come ebreo, la propria… “francesità”, in questo clima ostile sempre più marcato.
Quando Edmund de Waal parla di antisemitismo e delle vicende tragiche che ne conseguono, il suo “passo” narrativo cambia, lo stile lieve muta e diviene drammaticamente partecipe.
Scrive, ad esempio, accostando Charles al proustiano Swann: “Sono dandy e insieme cavalieri della Legion d’Onore. Attraversano il giapponismo per approdare infine al nuovo gusto per lo stile Impero. Entrambi sono dreyfusisti che scoprono come la propria vita…..possa all’improvviso andare in pezzi soltanto per il fatto di essere ebrei”.
Il viaggio sulle tracce dei netsuke porta l’Autore -e noi lettori- a Vienna dove risiede l’altro ramo della famiglia [1].E’ un’ottima occasione per parlarci della capitale dell’Impero nella seconda metà dell’800, delle sue profonde trasformazioni urbanistiche, ideate dall’architetto danese Theofilus Hansen, a cominciare dal Ring, il grande viale esterno al centro storico, inaugurato nel 1865. Questa civiltà “imperial- regia”, in tedesco kaiserlich-königlich (“kakania”, come la chiama con sarcasmo Musil), che ama gli aspetti scenografici, pur vedendosi ormai chiari i segni del tramonto; una civiltà di cui Palazzo Ephrussi, anch’esso progettato da Hansen (come altre rilevanti edifici pubblici e privati) e datato 1871, come l’Hotel parigino, è parte integrante. A quel periodo sono dedicate pagine godibilissime, a cominciare dal capitolo intitolato “Zionstrasse”, incentrato sul trisavolo Ignace, navigatissimo e sanguigno uomo d’affari.
Autentico personaggio del libro è Il Palais, teatro di tante vicende nella crudeltà della storia.
Questa “solida casa, intarsiata e…stuccata e dipinta…..in realtà leggera come un attrezzo di scena consisteva in una serie di spazi nascosti dietro una facciata” così scrive Edmund in una delle sue visite. Un’immagine poetica che si può applicare anche al presente libro: denso, complesso, ma, nello stesso tempo, lieve. Vi si nota la vocazione dell’A. per il gusto del bello, senza indugiare in compiacimenti fuor di luogo.
                 Altra figura di rilievo è il terzogenito di Ignace, Viktor, il bisnonno dello scrittore.
Viktor è un bibliofilo, un uomo di studio, frequenta i caffè della capitale cari agli intellettuali, come il Griensteidl, tuttora in essere, luogo d’incontro del gruppo letterario “Giovane Vienna”. Per sua sfortuna, è costretto a dedicarsi agli affari di famiglia, dopo le disavventure sentimentali del fratello maggiore Stefan, scappato con l’amante russa del padre (!). Sposa, nel 1899, ma l’unione non sarà felice, Emmy Schey von Koromla, donna affascinante e leggera, con uno stuolo di parenti, per così dire, originali, a cominciare dal giovane Arthur Schnitzler, medico e scrittore, ben conosciuto da Sigmund Freud….. A Emmy e Viktor, come sappiamo, vengono donati da parte del cugino Charles i netsuke, quale regalo di nozze.
Coinvolgente è la ricerca dell’A. su dove questi preziosi oggetti siano stati messi (ben collocati nella loro vetrina), una volta raggiunta Vienna.  Essi perdono, via via, il rapporto con il Paese dove sono stati creati per assumere la dimensione intima di simbolo del legame tra i ragazzi Ephrussi e il loro vivere quotidiano: l’odore del sigaro paterno in biblioteca, la fragranza della mamma; o, dopo una lunga pattinata, il profumo della cioccolata calda che talora la stessa Emmy preparava loro secondo un magico rituale.
L’ascesa delle grandi famiglie ebraiche in città porta -va da sé- l’intramontabile invidia per questi “Giudei” che contano, ben diversi da quei correligionari (saliti da 8.000 nel 1863 a 145.000 nel 1899) residenti nel degradato quartiere di Leopoldstadt, dove vivono i “veri” Ebrei, gli unici concepibili per la maggioranza della popolazione e cioè: poveri, intabarrati nei loro caffetani, con i sacchi delle mercanzie sempre portati appresso, alla mercé di tutti, oggetto di scherno e disprezzo da parte delle persone “rispettabili”.
Un antisemitismo diffuso, ma quasi impalpabile, sottile ma avvolgente come una tela di ragno, barriere invisibili. Edmund si domanda se gl’interessati fossero consapevoli di tutto ciò. Va da sé che mai pensarono -gli Ephrussi e le persone del medesimo ceto sociale- all’ipotesi sionista, tanto che Herzl non ha di loro un’opinione positiva (li definisce speculatori, poiché si erano rifiutati di aiutarlo nei suoi progetti politici).
Nel 1897 diviene Sindaco della città Karl Lüger, molto popolare anche grazie al suo studiato, deciso antisemitismo [2] .
Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale vede gli Ebrei battersi con coraggio, al fine di dimostrare il proprio essere cittadini dell’Impero a tutti gli effetti. Ma il conflitto spazza via il vecchio Mondo, nel quale, pur con le contraddizioni, gli squilibri e le ingiustizie, essi, all’interno dell’Impero austro-ungarico, avevano un ruolo.
Edmund de Waal ci descrive con notevole capacità espressiva lo stato di incertezza, miseria e anarchia che accompagna la caduta dell’Impero (“…..si diceva che le guardie del palazzo [imperiale, la Hofburg] avessero scoperto l’accesso alle cantine e si stessero scolando…le scorte di vino dell’imperatore…”), accompagnato dall’immancabile riaffiorare dell’antisemitismo, specie a seguito degl’insuccessi bellici e dopo la morte del Kaiser Franz Josef (21 novembre 1916).
All’inizio, tutto sembra continuare come prima, a casa Ephrussi, ma, in realtà, tutto sta cambiando velocemente e in modo irreversibile.
In Russia “scoppia” la Rivoluzione, in febbraio e in ottobre / novembre 1917, e il potere viene assunto dai bolscevichi.
Il Trattato di pace -imposto- di Saint Germain en Laye del 1919 sancisce lo smembramento dell’impero e la proclamazione dell’indipendenza dei vari Stati. Vienna ha 2 milioni di abitanti ed è la capitale non più di un Impero di 52 milioni di sudditi, ma di una nazione di 6 milioni di cittadini (qualcuno la definisce Wasserkopf, testa idrocefalica, su un corpo rachitico). Uomini senza scrupoli vi si aggirano, e subito numerosi sono coloro che vedono tra essi molti Ebrei…….Sappiamo come l’antisemitismo si nutra anche delle sconfitte (non solo dell’invidia nei tempi buoni). Questa situazione viene denunciata da scrittori come Hugo Bettauer -nel suo romanzo, datato 1922, Una città senza Ebrei-, ucciso da un nazista tre anni dopo[3]. Gli Ebrei vengono cacciati da Associazioni private come, ad esempio, il Club Alpino austro/tedesco (ciò lo provano sulla loro pelle i giovani Ephrussi).
Leggiamo, con riferimento a quel periodo: “Non parlare di antisemitismo era possibile; impossibile era non sentirne parlare”. Anche la famiglia, ricchissima in un tempo che pare remoto, deve affrontare gravi problemi, pure sul piano economico. E in quella consapevolezza della decadenza, del crollo di un mondo perduto per sempre, l’esistenza si colora di nostalgia e gli oggetti con lei. Pare non esserci futuro.
Ma la vita deve continuare, sia pure a prezzo di sacrifici. Elisabeth, la figlia maggiore di Emmy e Viktor, sposa l’olandese (e protestante) Hendrik de Waal, incauto negli affari, ma da lei amatissimo; si stabilisce con lui a Parigi, indi a Soprabolzano, in Italia, e poi ad Ascona (non torna comunque a Vienna). La bellissima Gisela, la secondogenita, diviene moglie di un certo Bauer (appartenente ad una famiglia di banchieri di origine spagnola) e prende casa a Madrid. Iggie, il più grande dei maschi, dovrebbe seguire la vocazione familiare di banchiere, ma non ne è tagliato e intanto si gode la vita; va dapprima a Parigi, dove si dedica alla moda (disegna abiti), poi negli USA; mentre Rudolf, l’ultimo, è troppo giovane per andarsene, cresce in casa, unico tra i figli, e si appassiona di musica.
Nel frattempo il nazismo guadagna terreno: si preparano tempi cupi. Il Cancelliere in carica, Engelbert Dollfuss, amico di Benito Mussolini, è in grave difficoltà: le SS austriache tentano un colpo di Stato nel luglio 1934 assassinandolo; il suo posto è preso da Kurt von Schuschnigg. La tenaglia si stringe sempre di più sugli Ebrei. Il referendum promosso, per il 13 marzo 1938, al fine di sancire l’indipendenza dell’Austria dal Reich viene annichilito, poiché le forti minacce dalla Germania, con movimento di truppe al confine due giorni prima (l’11 marzo), inducono il Cancelliere a dimettersi, “per non versare sangue tedesco”. Ora il Capo del governo, nel silenzio di Francia, Gran Bretagna e Italia, è Arthur Seyss Inquart (processato e condannato a morte a Norimberga), uomo di fiducia di Adolf Hitler.
                 La foto è significativa. Sulla destra si riconosce l’immancabile Reinhard Heydrich.
Mentre le folle inneggiano ai Nazisti, l’odio antisemita si sfoga indisturbato; alcuni amici degli Ephrussi fuggono; persone contrarie al nuovo corso salgono sui treni in partenza, ma uomini in divisa accorrono alla stazione e ne tirano giù parecchie. E’ ormai certo: Hitler sarà a Vienna, nella “sua”  Austria, di lì ad un paio di giorni per essere acclamato dalle masse giubilanti. La stessa notte i nuovi padroni fanno irruzione nel Palais.
La prosa di Edmund si fa asciutta mentre scandisce ciò che accade in un arco di tempo incredibilmente breve: i pugni alla porta, il suono insistente del campanello, l’incursione di una decina di uomini con indosso un’uniforme, la fascia con la svastica….le risate volgari di chi rovista nell’armadio di Emmy, tra abiti ed oggetti personali di lei….Gli Ephrussi strattonati e spinti contro il muro, mentre quegli energumeni mandano in pezzi le porcellane, sollevano lo scrittoio di Viktor (regalo di nozze dei cugini francesi) e lo gettano oltre la ringhiera del balcone, mandandolo a sfracellarsi nel cortile…..e, va da sé, c’è chi arraffa con foga candelabri d’argento e suppellettili preziose. Il tutto nell’odio antisemita più sfrenato, congiunto alla volontà di violare l’intimo delle persone, di cancellarle, non prima di averne stravolto l’intimità più profonda.
Se ci si pensa bene, al di là dei numeri (pure ingenti), è questo il nocciolo della Shoah: distruggere la tua umanità, il tuo essere, la tua essenza, il tuo Nome, al quale la cultura ebraica -in primo luogo- annette tanta importanza.
E torneranno i barbari, i nuovi padroni…torneranno per completare l’opera.
In breve l’Austria, in primo luogo quella ebraica, è irrimediabilmente sfregiata.
“E’ il sinistro smantellamento di una collezione, di una casa di una famiglia.….il 12 agosto 1938 la Ephrussi &. C. viene depennata dal registro delle imprese”.
In tale disperata situazione, alcuni mesi  dopo, avviene il suicidio con il sonnifero di Emmy, nella tenuta di Kövecses. “Rifletto sul suicidio di Emmy” scrive il suo bisnipote Edmund  “e immagino che questa donna bellissima, spiritosa e burbera insieme….non volesse vivere nel Reich…”
Grazie allo spirito di iniziativa e al coraggio di Elisabeth, Viktor riesce ad espatriare in Gran Bretagna, dove morirà nel 1945. I suoi due figli maschi (Ignace e Rudolf), emigrati negli USA, ottengono la cittadinanza americana per potersi arruolare.
Il secondo dopoguerra. Coloro che sono sopravvissuti; coloro che, più numerosi, sono stati uccisi, gli incredibili intrecci. Notevole la capacità di farci rivivere questa immensa tragedia attraverso le cose, i ricordi, il pianto che sgorga spontaneo di fronte all’immagine di ciò che è stato perduto, come capita, ricorda Edmund, ad Enea allorché vede, su un muro, una raffigurazione della guerra di Troia e scoppia in lacrime.
Solo un membro della famiglia ha la forza di ritornare, poco dopo il termine del conflitto, nei luoghi che tanta importanza avevano avuto nella sua vita passata. Si tratta di Elisabeth, morta novantenne in Gran Bretagna una ventina di anni fa, avvocato e poetessa -era appassionata di Rainer Maria Rilke, con il quale intrattenne una corrispondenza-. Dopo una sorta di “toccata e fuga” a Vienna per “scoprire chi e che cosa è rimasto”, ella scrive un romanzo, di 261 pagine dattiloscritte, mai pubblicato. Crudo, inquietante. Nella vicenda l’Autrice compare nelle vesti di un immaginario professore ebreo, Kuno Adler, il quale, terminato il conflitto, torna nella nativa capitale austriaca dagli USA, dove era stato costretto ad emigrare a seguito dell’Anschluss. Un romanzo di incontri, di alberi che non ci sono più, di dolore, come la situazione drammatica in cui si trovarono gli Ebrei austriaci ritornati, magari per un breve periodo, in Patria. Il professore viene invitato dai connazionali non ebrei a spiegare i motivi del suo ritorno, a giustificarsi, in qualche modo -anzitutto di essere ancora vivo, aggiungo-. Gli viene chiesto, più o meno apertamente: “Sei tornato per farci sentire in colpa?” e poi: “Possibile che la tua guerra sia stata peggiore della nostra?”. Vengono in mente, per un verso, le recenti dichiarazioni del Premio Nobel per la Letteratura 1999, Günter Grass (con l’equiparazione tra la tragedia vissuta dagli Ebrei con la Shoah e il dramma dei militari tedeschi durante e dopo il conflitto) e, per altro verso, l’orrore riservato, ad esempio, in una località polacca, Kielce, ad una cinquantina di Ebrei, superstiti del Genocidio e desiderosi solo di tornare alle proprie case, assassinati nell’estate 1946 dai concittadini fattisi forti di un assurdo pretesto [4] .
Elisabeth è, insieme al salvatore delle statuette, una delle figure chiave della nostra opera.
Grazie a queste persone e a Iggie i 264 gioielli tornano, sia pure temporaneamente, nella terra in cui nacquero.
 
Conclusione
Oggi, come sappiamo, i netsuke si trovano a casa de Waal, in uno stabile di epoca edoardiana, affacciato sui platani di una amena via di Londra.
E i tre giovanissimi figli di Edmund e Susan (Sue) -Benjamin (Ben), Matthew e Anna -, cui l’opera è dedicata, possono scoprire e toccare la loro magia, come fecero, cento anni prima, i giovani Ephrussi.
Un paio di riflessioni finali.
Forse la figura più intrigante è proprio  l’Autore.
In lui ti colpiscono non solo la piena identificazione con la Tragedia, sempre problematica per chi non è ebreo di nascita, ma pure la gioia artigiana per il lavoro ben fatto, l’intelligente precisione, il suo incantarsi per il “particolare” che non perde certo di vista il “tutto”. Comprendi ciò quando lo vedi accarezzare quei piccoli oggetti con viva partecipazione. La sua identificazione totale alle vicende della famiglia, che si riassume nella frase “Le eredità non sono mai banali. Che cosa viene ricordato e cosa dimenticato, nel passaggio?” Il passaggio da una generazione all’altra, con il ritorno all’origine seguendo un moto ellittico, a spirale, che parte da lontano.
Talora Edmund si sofferma su certi silenzi dei familiari, su zone recondite il cui accesso è perfino a lui interdetto, su quel “non avvicinatevi. Sono cose personali”. Questi congiunti, che avevano vissuto esperienze tremende e che desiderano raccontare a chi amano, a volte tacciono. E annota: “Ricordo l’impaccio, le esitazioni nel parlare di Iggie ormai vecchio….esitazioni che si trasformavano in silenzi….che segnavano i luoghi della perdita”. Ciò significa che non si deve abusare della memoria, questa parola ormai trita, divenuta in breve volgere di tempo un automatico lasciapassare per celebrare riti vuoti e dar vita a mistificazioni o peggio: per farla divenire Memoria è necessario rispettare le zone buie di ciò che “non può essere rivelato”. Condivido peraltro il pensiero di de Waal secondo il quale apparteniamo alla generazione cui è proibito lasciar perdere o “bruciare le cose”, come il nostro Autore scrive. Un nodo difficile da sciogliere, ma possiamo -con umiltà- provarci.
E infine LA DOMANDA: Edmund, figlio di un sacerdote della Chiesa anglicana, (già cappellano dell’Università di Nottingham, dove pure sono nati lo stesso Edmund e il fratello minore Thomas) e nipote, per parte di madre, di un parroco, come vive le proprie radici ebraiche, in apparenza -solo in apparenza!-   remote?
Questo libro ne è l’eloquente risposta.


[1] Un testo ben documentato e di agevole lettura sulle città rilevanti per la cultura ebraica tra Otto e Novecento è Riccardo CALIMANI, Capitali europee dell’Ebraismo tra Ottocento e Novecento, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, 1998, pp. 216.
[2] A tale proposito v. l’illuminante saggio di Cinzia LEONE, Antisemitismo nella Vienna fin du siècle. La figura del Sindaco Karl Lueger , Giuntina, Firenze, 2010, pp. 166 (commento in questo sito Febbraio 2010).
[3] Hugo BETTAUER, Una città senza ebrei, Donzelli Editore S.r.l., Roma, 2000, pp. 128. Il sottotitolo dell’opera è Un romanzo di dopodomani. Ivi sono descritte, in modo profetico e sarcastico, le conseguenze della cacciata degli Ebrei dall’Austria: una situazione di miseria morale e materiale domina in breve il Paese. Se, deposta la comoda lente del pregiudizio, si analizzano altri contesti, anche lontani nello spazio e/o più vicini nel tempo, salta agli occhi quanto stupida, oltre che criminale, sia un’impostazione politica all’insegna dello judenrein.
[4] Per i problemi, anche di carattere giuridico, nati nel dopoguerra in merito alla restituzione dei beni ai legittimi proprietari ebrei, v. pure il mio commento a Anna MITGUTSCH, La casa della nostalgia, Giuntina, 2009, pp. 270 (in Agosto 2009).