(Titolo originale Chassut; Am Oved, Tel Aviv, 1977)
Trad. Dalia Padoa (revisione di Giovanna Luce), Ed. Giuntina, 2008, pp. 341
“….non aveva un soldo in tasca né un mestiere. Quando gli dissero che Israele era l’unico Stato disposto ad accoglierlo, pensò che lo prendessero in giro, che fosse un trucco per eliminarlo. Qui ha trovato una casa, un lavoro e perfino la libertà di inveire contro tutto ciò che vuole….” “Israele gli ha dato rifugio….”
Dopo Una tromba nello uadi (2006) e Victoria (2007) l’Editore Giuntina pubblica, nella prestigiosa collana “ISRAELIANA”, il terzo romanzo di Sami Michael tradotto in italiano: Rifugio.
L’Autore, il cui nome all’anagrafe è Salah Menashe, è uno dei maggiori scrittori di Israele: il suo aspetto caratteristico è di essere una figura di confine, un uomo che riassume in sé l’esperienza ebraica e l’esperienza araba, in una sintesi di vissuti diversi, caratterizzata da un altissimo sentire, ben lontana dal facile, appiattente multiculturalismo. E ciò vale al di là del fatto che puoi anche non essere d’accordo sulle sue posizioni, spesso scomode, magari, pur comprensibili dal punto di vista umano, non condivisibili sul piano storico -in merito al sionismo, per esempio; ma non è questo il momento per trattare tale tema-.
Poche, ma indispensabili, parole sulla sua vita; essa stessa un romanzo, meritevole di molte pagine. Nato a Bagdad nel 1926 da famiglia ebraica, da giovane studente è membro attivo di un gruppo clandestino comunista che lotta contro l’oppressivo (e filonazista) regime iracheno; nel 1947 inizia gli studi di Ingegneria presso l’Università americana di Bagdad, ma l’anno dopo è costretto a fuggire in Iran poiché su di lui pende un mandato di arresto. Nel 1949, per evitare l’estradizione, emigra in Israele. Per qualche tempo collabora, come opinionista, a giornali di lingua araba del partito comunista israeliano, dal quale esce nel 1955. Lavora oltre vent’anni come idrologo, amministrando le risorse idriche al confine con la Siria; si laurea in Idrologia, Psicologia e Letteratura araba all’Università di Haifa.
Con grande volontà, senza averlo studiato in precedenza, egli impara alla perfezione l’ebraico e, nel 1974, pubblica il suo primo romanzo, dal titolo emblematico Gli uomini sono uguali, ma alcuni lo sono di più.
A proposito della lingua afferma: “Non mi ricordo bene quando è stato, ma so che ho iniziato a scrivere in ebraico solo quando ho iniziato a sognare in ebraico”. Un ebraico che ha radici lontane, nell’antichissima, autoctona, Keillah irachena. La locale comunità ebraica conservava nel suo dialetto le radici della lingua araba: “Parlavamo un arabo del tempo degli Abbasidi, mescolato con l’ebraico e con una forte influenza del persiano”. Una lingua suggestiva, molto ricca, che ha influenzato la sua prosa in ebraico. Le numerose opere (11 romanzi, 3 saggi storico-politici, 3 lavori teatrali) intendono essere, in modo immediato o come speranza sia pure lontana, un invito alla convivenza e all’arricchimento reciproco e vedono in primo piano i complessi intrecci tra le diversità cultural-religiose: ebrei e musulmani, musulmani e cristiani, comunisti e nazionalisti…..ma vi sono anche uomini e donne (la peggiore specie di razzismo, secondo l’Autore, è quello rivolto dall’uomo contro la donna), giovani e anziani, abitanti originari e nuovi immigrati.
Per l’attività di scrittore e per l’impegno in favore della pace, della giustizia e i diritti umani ha ricevuto numerosi premi, in Patria e all’estero, ed è stato insignito della laurea ad honorem dalle Università di Gerusalemme, Haifa e Negev. E’ inoltre candidato al Premio Nobel per la Letteratura.
Rifugio è stato scritto nel 1977 e narra una vicenda ambientata a Haifa -tranne alcune pagine nella prima parte- all’epoca della Guerra dello Yom Kippur (autunno 1973); la guerra ammantata di un alone tragico, perché successiva alla trionfante vittoria del Giugno 1967 e scoppiata per così dire alle spalle di una Nazione che si sentiva forte e sicura di sé. Questi sentimenti esprimeva, in un breve scambio di battute avuto anni fa, un giurista israeliano, nato in Italia e formatosi nella mia città, che l’ha combattuta, perdendovi molti amici.
In una Haifa, lontana dal fronte, ma nella quale si respira l’atmosfera di guerra e in cui tutti si sentono un tutt’uno: “Sotto l’ala della morte erano tornati ad essere un solo corpo….Andavano in fretta, ma nessuno brontolava…sapevano che non c’erano autobus perché stavano portando i loro figli e mariti al fronte…”; in questa città l’attenzione dello scrittore è posta su un gruppo di militanti del partito comunista israeliano, ebrei ed arabi. Il romanzo è giocato sull’intreccio delle vite e dei ricordi di ciascuno, sulla contrapposizione delle esperienze e delle storie, contrasto che rende difficile, anche se speriamo non impossibile, una vera comunicazione, una pace autentica, a prescindere dalle vicende politiche e militari che fanno da sfondo.
Sami Michael sa penetrare con la sua caratteristica capacità di introspezione psicologica nell’animo di ciascuno, a cominciare dai personaggi femminili; ci appassionano i suoi ritratti di donna, come ad esempio, nei romanzi che già conosciamo, Huda o Victoria.
Facciamo la conoscenza di una prima coppia di coniugi, entrambi ebrei: Marduch e Shula.
L’A. presta -in parte- la propria drammatica esperienza politica e di vita alla figura di Marduch, nel racconto delle sue sofferenze psicologiche e fisiche nel Paese d’origine, l’Iraq. Vi è il racconto delle torture, della prigionia (a soli 16 anni), della successiva espulsione in Israele, l’unico luogo in grado di accoglierlo, anche perché i suoi correligionari iracheni, sparuti e terrorizzati, si erano dimostrati ben poco solidali con lui : “Capisci? Non che avessi niente contro Israele. Ma per me quella era un’altra espulsione, un altro esilio, un altro ordine arbitrario che decideva il mio destino…”. Affronta, solo, le difficoltà nel nuovo Paese, a cominciare da quelle linguistiche: non conosce l’ebraico e le ragazze si prendono gioco di lui. Nota con disagio che i compagni (comunisti) ebrei non fanno che denigrare il Paese. Allora, per contrapposizione, si rivolge ai compagni arabi. Nella città di Haifa, dove va a vivere, prova un senso di familiarità; fa amicizia con Fuad, arabo cristiano, e con Fatchi, arabo musulmano, per tutti il Poeta.
Marduch vive la contraddizione di essere, al contempo, Ebreo e Comunista. La moglie, Shula, quando allo scoppio della guerra, il marito si arruola, è in preda al timore che venga ucciso -ovviamente proprio da un arabo- e riflette sul travaglio di lui “I due arabi [Fuad e Fatchi] amavano in lui il comunista, ma odiavano l’ebreo e pretendevano che egli odiasse l’ebreo che era in lui; Marduch era diventato comunista in quanto ebreo, laggiù in Iraq, così come Fuad era diventato comunista, in quanto arabo, in Israele. Da Fuad ci si aspettava che fosse fiero di essere arabo, mentre da Marduch si pretendeva che negasse la sua ebraicità, ma lui si era rifiutato”.
Marduch è una persona solitaria, quel volto duro e segnato che “esprimeva l’intima sicurezza di un uomo che…da quando è venuto al mondo ha imparato a venire patti con la solitudine”.
Solitudine di cui è responsabile, almeno in una certa misura, Shula.
Donna dal temperamento sensibile, a volte contraddittorio (..”quando arrossiva era capace di dire cose tremende…”), ma incapace di vivere fino in fondo i propri sentimenti e di far valere le proprie ragioni, salvo poi tormentarsi, è ancora innamorata di Rami Goldshmid, il suo primo amore, ora tenente colonnello nell’esercito, che ella identifica con Israele (non riusciranno ad annientare Israele, pensa un giorno tra sé e sé, distruggerlo significherebbe distruggere Rami). L’amore era cresciuto in segreto, osteggiato dalla madre di lei, Tova, dura militante di partito; dei due, era lui il ribelle, lei la ragazza obbediente; e Rami se ne rendeva conto. Alla fine ella aveva rinunciato al suo sogno (“..sono stata vigliacca e stupida…”), ma l’uno non dimentica l’altra. “Amava Marduch come una moglie può amare il marito dopo 11 anni, ma il suo ventre reclamava Rami”.
Di grande profondità e suggestione sono le pagine in cui viene raccontato, in occasione del matrimonio tra Shula e Marduch, il comportamento di lei e di Rami, invitato alla festa.
Marduch e Shula hanno un bambino handicappato, Idò,e, come spesso capita, essitemono di avere un altro figlio con gli stessi problemi. Idò è un ragazzo sensibile, che soffre perché a scuola è maltrattato; solo il padre, cui è legatissimo, riesce a calmarlo quando è agitato. Il padre e la musica.
Anche Marduch ha un intenso rapporto con suo figlio; anzi è convinto che le tremende torture patite in Iraq siano la causa dell’handicap di Idò.
L’altra coppia di coniugi che incontriamo è costituita da Shoshana (ebrea) e Fuad (arabo, come sappiamo).
Fuad è bello e impetuoso, con uno speciale carisma che cattura uomini e donne; tra lui e Marduch nasce una solida amicizia. A seguito del suo matrimonio con un arabo, Shoshana era stata bandita dalla famiglia d’origine; ma ella ha una carattere forte e un temperamento ironico, che la induce, un bel giorno, a telefonare, di punto in bianco, al kibbutz dove risiede la sua famiglia e a parlare in tono scherzoso, dopo tanto tempo, con lo stupefatto fratello Avi. Shoshana vede sempre il lato comico della vita, dà giudizi taglienti sul prossimo e non risparmia frecciatine all’amica Shula. Solidarizza col marito riservandogli gesti affettuosi, quando, allo scoppio della guerra, egli si sente, per strada, guardato dai passanti con ostilità.
Anche Shoshana -come Shula, del resto, ma Shula, bella e romantica, ha sempre subìto l’ambiente politico in cui è cresciuta, non l’ha mai sentito davvero parte di sé- è combattuta nel proprio intimo: avendo sposato -lei ebrea- un arabo, quale cammino scegliere? Le difficoltà sorgono sia quando ella intraprende una strada, sia allorché imbocca quella opposta: è respinta sia dagli Ebrei che dagli Arabi con conseguenze sui rapporti con i tre figli, che cercano ognuno la propria identità, senza peraltro che i genitori si immischino più di tanto. I ragazzi, come scrive l’A., si trovano a camminare sul terreno tortuoso che separa i due popoli, con rilevanti, conseguenti problemi, sia in famiglia che fuori, descritti con grande vivacità d’accenti.
Allo scoppio delle ostilità, dopo che Marduch si è arruolato, giunge in casa di Shula Fatchi, il Poeta musulmano. A giudizio dei dirigenti del Partito, questi rischia, nel clima di guerra, l’arresto; e allora Fatchi cerca e trova “Rifugio” in casa di un’Ebrea.
All’inizio Shula è perplessa, poi acconsente, poiché lo stesso Marduch, che nella sua vita è stato perseguitato (in Iraq), considera sacro il concetto di “Rifugio”.
Dei diversi personaggi della vicenda forse, almeno a mio parere, Fatchi è quello più convenzionale, il meno vivo e palpitante. Egli, imbevuto dell’eterna retorica vittimistica, ma retto dall’illusoria convinzione che lo Stato ebraico sia agli sgoccioli, pare non credere affatto alla convivenza tra Arabi ed Ebrei (“o noi o loro”) e immagina, al sicuro in casa di Shula, di uccidere, liquidare, massacrare (“il soldato israeliano”), anche se poi ammette che in Israele nessuno è educato ad amare la guerra. Vede se stesso come il portavoce degli arabi israeliani: la sua poesia li riscatterà dalle umiliazioni e dal buio post 1948 e li porterà alla vittoria finale. L’Autore tratta con sarcasmo il Poeta quando, attraverso un personaggio secondario, il vicino di casa di Shula, il pensionato Tuvia -inframmettente, ma arguto ed orgoglioso del proprio essere ebreo-, evidenzia l’ignoranza di Fatchi in materia militare e ne rimprovera, durante vivaci scontri verbali, l’inazione, come del resto non manca di fare lo stesso Fuad.
Tra Shula e il Poeta si crea, all’inizio loro malgrado, una certa intimità. Fatchi è giovane e bello, fidanzato con una ragazza araba di stampo tradizionale (ma non disdegna gli occasionali favori della spregiudicata ebrea Dafna); ma si scopre poco a poco innamorato di Shula, pur sentendosi in qualche modo oggetto di un gioco malizioso da parte di lei che, se, per un verso, gli aveva offerto un Rifugio, per altro verso lo respinge.
La loro storia non ha avvenire. Questa donna incoerente e per questo così affascinante, in attesa quotidiana di un marito che continua a non dare notizie di sé, non vuole abbandonare la casa di lui, a maggior ragione ora, nel momento in cui il pericolo sembra incombere sugli ebrei di Israele.
Dopo una parte iniziale ben descritta ma, a mio gusto, non particolarmente coinvolgente, il romanzo prende corpo e si intensifica soprattutto quando entrano in scena i personaggi femminili principali, Shoshana e Shula; o altre figure secondarie, come la madre di Shoshana e quella di Fuad: le due consuocere -l’una ebrea e l’altra araba- che familiarizzano e spettegolano, nel loro primo incontro, ai danni di quest’ultimo.
La parola chiave o tema principale del romanzo è: RIFUGIO.
Rifugio come luogo di riparo, ma anche occasione per iniziare una vita nuova.
Un giovane arabo, all’inizio della vicenda, cerca un “Rifugio” dalle angherie del boss del campo profughi. Israele è, come sappiamo, “Rifugio” per Marduch. Fatchi trova Rifugio nella casa di Shula; ma in lei, all’inizio, non cerca un vero Rifugio, bensì la rappresentante di un popolo, secondo il suo schema mentale, colpevole. Tuttavia ci penseranno i sentimenti a mescolar le carte.
Rifugio è anche una barca abbandonata, trovata sulla spiaggia, dove Shula e Rami ragazzini entrano, in un gioco sensuale che lei richiama alla mente mentre pensa all’amore indimenticato.
Il linguaggio di Sami Michael è sensuale, ricco di accenti profumati (“…sai quante sfumature ci sono nel tuo corpo? Nero, grigio, bianco, rosa….”).Vi sono pagine di altissima drammaticità, come quelle in cui Shula si reca dalla famiglia di Rami dopo che, da un accenno della propria madre, intuisce che l’uomo è morto. Non si dimenticano la solitudine e la disperazione di Rami, riportate dalla testimonianza su di lui del fratello minore Ron, anch’egli sul campo di battaglia nel Golan.
Come stupenda è la riflessione di Marduch, riportata dal ricordo della moglie, sulla sua ribellione allo stato di ebreo come individuo perseguitato ed umiliato da tutti, che ora ha il coraggio di dire basta.
A proposito di questa e altre tematiche, è importante tener presente che i libri di Sami Michael, che definisce se stesso “patriota israeliano” (ha svolto il servizio militare e ha fatto parte della riserva dell’esercito fino a cinquant’anni) vadano a ruba nei Paesi arabi, dove sono venduti al mercato clandestino.
Il romanzo, che merita di essere conosciuto ed apprezzato da un vasto pubblico, non è un consolatorio inno alla pace e alla convivenza, ma un’analisi onesta e sofferta sulle differenze e i molteplici aspetti di una realtà complessa nella quale le vicissitudini individuali vanno ben oltre le vicende storiche più ampie.