(Reggio nell’Emilia   25 ottobre 2008: Incontro con Abraham B. Yehoshua)

 
Incontrare di persona Abraham B. Yehoshua è sempre un’esperienza coinvolgente.
Abbigliamento un po’ casual di chi non bada all’eleganza, statura media, volto dagli inconfondibili lineamenti sefarditi, capelli grigi scompigliati e due mani fatte apposta per essere mosse di continuo al fine di dare maggior vigore ed efficacia alle argomentazioni che porge in un inglese chiarissimo, senza sbavature, lo scrittore ha intrattenuto per poco più di un’ora il pubblico che ha gremito il moderno Teatro Cavallerizza, ai margini del centro storico cittadino .
La presenza dell’autore israeliano ha illustrato il quarto Festival dell’Architettura -in programma dal 18 ottobre al 9 novembre a Modena, Reggio Emilia, Parma, ricco di conferenze, seminari, dibattiti, mostre, proiezioni, incentrate sul tema Architettura e paesaggio- con due iniziative.
La prima, svoltasi a Parma, è la rappresentazione dell’opera teatrale Una notte di maggio (1968), una storia che si svolge in una sola notte, quella del 23 maggio 1967 (alla vigilia della c.d. “Guerra dei Sei giorni”), tra le sette di sera e le sei del mattino, all’interno di un appartamento a Gerusalemme, dove si ritrovano i membri della famiglia Sarid.
La seconda è stato l’incontro di ieri a Reggio Emilia.
A dir la verità, l’argomento della conferenza, così come indicato sulla brochure del Festival e come anticipato da interviste, rilasciate dallo stesso scrittore e apparse nei giorni scorsi sui principali quotidiani, avrebbe dovuto essere: Storie di città: la mia Gerusalemme.
Sappiamo bene quanto A.B.Yehoshua sia legato alla sua città natale. Lì ha trascorso la sua giovinezza, si è sposato, ha comperato, come ricorda, il primo appartamento; conosce molto bene la storia e ogni angolo della capitale di Israele, grazie anche agli studi del padre, professore di orientalistica, autore di numerosi volumi sulle tradizioni dei sefarditi gerosolimitani e sui rapporti tra ebrei e arabi. Nonostante viva da molti anni nella laica Haifa, Gerusalemme è una città in cui egli ritorna sempre, anche nel proprio percorso di scrittore: l’ultimo esempio è la vicenda narrata in Fuoco amico.
Una bella chiacchierata su Gerusalemme, le sue infinite problematiche, le implicazioni politiche e religiose, il conflitto israelo-palestinese, ecc., ecc. Questo tutti si aspettavano, ieri pomeriggio, me compresa.
Invece no. Da grande personaggio quale egli è, ha voluto riservarci il coup de théâtre, suonare una musica nuova: il rapporto tra Letteratura e Architettura.
“La parte iniziale di un racconto o di un romanzo [ novel ] è per me la più difficile; sono quelle prime dieci / quindici pagine lo scoglio più arduo, perché esse definiscono l’opera e dunque esigono più tempo e fatica”. Così egli ha esordito, seduto al tavolo insieme all’Assessore Paolo Gandolfi, con le luci della sala appositamente concentrate su di lui.
Ognuno ha il suo stile, è ovvio, il suo metodo di lavoro; ma, per quanto lo riguarda, a volte gli capita di fermarsi anche sei mesi a riflettere sulla struttura di un’opera.
Penso, cancello, mi fermo, rifletto, riscrivo….Mi sento come un architetto impegnato nel progetto di un edificio”. Queste difficoltà sono ancora più forti, spiega, in un drammaturgo. Il romanziere può, diciamo, alleggerire la tensione, mentre ragiona sul dipanarsi della vicenda, con vari accorgimenti (le descrizioni, per esempio), ma un drammaturgo non ha questa valvola di sfogo. Arthur Miller, egli ricorda, a volte teneva fermi i suoi lavori per lungo tempo, perché riteneva di non aver posato, nella costruzione in divenire, i mattoni giusti e, in particolare, era l’ultimo mattone a preoccuparlo.
Perché, certo, è possibile che il “finale” di una storia, già programmato fin dall’inizio, debba essere cambiato, in quanto non sostenuto da sufficienti motivazioni. Ad esempio, racconta, il protagonista del suo Ritorno dall’India, l’io narrante del romanzo, è un giovane medico, che, innamorato di una donna assai più anziana, avrebbe dovuto, alla fine, suicidarsi. Sembrava un’idea stupenda quella di un suicidio maschile: si sarebbe finalmente spezzato il collaudato, ma prevedibile, filone ottocentesco dei suicidi femminili (le varie Anna Karenina, Madame Bovary, ecc.); e invece il personaggio, confessa ridendo, “lottava strenuamente contro di me che volevo riservargli tale fine”. In conclusione, “ho dovuto convenire che non c’erano le basi sufficienti per giustificare quel suicidio. Non disponevo di ferro e cemento nella misura adatta” ha precisato con un sorriso ironico; e dunque il giovane medico non arriva all’estremo gesto.
I termini che Yehoshua ha usato di preferenza, durante l’incontro, sono stati “(to) build” (costruire) “building” (costruzione); parole collegabili al greco poieo (faccio), da cui deriva il nostro “Poeta”. Magie circolari.
La trama è l’aspetto essenziale di un romanzo, la sua struttura cioè; in questo egli non concorda affatto con coloro che ne sottovalutano l’importanza. Se pensiamo ad una cattedrale, riprende il confronto Letteratura / Architettura, ciò che la rende imponente, significativa è la sua struttura, la sua… trama (“plot” in inglese); lo stesso vale per un romanzo o un racconto.
Lo stesso Aristotele, prosegue, ci insegna che un buon spettacolo consta di tre fasi: iniziale, centrale e finale. La parte centrale vede lo svilupparsi della trama, che, nel momento finale, deve contenere, per dar vita ad un’opera di pregio, una sorta di “necessaria sorpresa”, lo scrittore ha ripetuto più volte questa espressione, compiendo eloquenti gesti con le braccia.
Un esempio: il finale de il Malato immaginario di Molière, quando il protagonista, Arpagone, fintosi morto per saggiare la fedeltà dei familiari, comprende che l’unica ad amarlo, tra costoro, è proprio la figlia, per la quale aveva progettato il matrimonio con un medico, da lei detestato, ma che avrebbe potuto, in ogni istante, occuparsi delle false malattie di lui. Egli impara la lezione e decide di smetterla con la propria deleteria ipocondria e di mandare a monte i vecchi programmi, portatori solo di infelicità.
Una riflessione finale ricca di humour per questo impareggiabile incontro: l’opera dell’architetto, anche se modesta, è destinata, almeno per un certo periodo di tempo, a rimanere in piedi; se un romanzo è mediocre, finisce dimenticato nell’angolo polveroso di una biblioteca.