(Titolo originale Ze Ha-Yeled Shelanu, Hakibutz Hameuchad, 2008)
Trad. dall’ebraico di Aline Cendon e Alon Altaras, Ed. Atmosphere, collana Biblioteca dell’acqua, Maggio 2014, pp. 132, € 14,00 (ebook € 6,99)
“E arrivò. Era un ricordo nascosto all’ombra di un sogno che allunga una mano consolatoria nella notte dopo una giornata confusa”
“Non sempre possiamo riparare ciò che si è guastato quand’eravamo giovani”
“Questo bambino non è solo figlio tuo, è figlio nostro….”
Una storia complicata e semplice al tempo stesso, una vicenda che si svolge in un breve arco di tempo, in grado di tenerti inchiodata al testo non consentendoti di chiudere il libro finché non sei giunta alla fine.
Non ho l’abitudine di leggere “d’un fiato”, neppure i “gialli”; anzi, ad essere sincera, non apprezzo troppo chi lo fa o dice di farlo; ma Nostro figlio è stato per me un’eccezione.
Prima l’ho “divorato”, poi l’ho abbandonato per alcuni giorni, infine l’ho ripreso per meditarlo e coglierne sfumature e paradossi.
L’Autore è Alon Altaras, nato a Tel Aviv-Jaffa nel 1960. Poeta e romanziere, è traduttore di letteratura italiana in ebraico: Pasolini, Montale, Camilleri, Baricco, Leopardi, Merini, De Luca e molti altri sono conosciuti in Israele per suo merito. Si occupa di letteratura e cultura italiana e israeliana ed insegna attualmente all’Università di Pisa. Nel 2001 ha vinto, in Patria, il Premio del Primo Ministro per la Letteratura; grazie alla sua attività ha ricevuto in Italia, nel 2003, il Premio Nazionale per la Traduzione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, mentre nel 2006 è stato insignito dal Presidente Giorgio Napolitano del titolo di Cavaliere della Repubblica Italiana a motivo del contributo dato alla conoscenza della letteratura italiana in Israele.
Nella nostra lingua sono stati pubblicati, oltre al presente, altri due romanzi: Il vestito nero di Odelia (2005) e La vendetta di Maricika (2006). E’ sposato con Aline Cendon: la coppia ha due figli, Yonathan (8 anni) e Yael (6). Vive tra Venezia e Tel Aviv, città da lui molto amate.
Conobbi Alon nel 2008 durante il Salone Internazionale del Libro di Torino, una tre giorni davvero interessante, con Israele Paese ospite; e annesse, immancabili, stupide polemiche alla vigilia, tuttavia morte pressoché a inizio evento. [1]
L’approccio venne facilitato non solo dalla sua cordialità, ma pure dal fatto che il padre di Aline è un illustre giurista, amico di mio marito e mio, personaggio ricco di passioni autentiche.
L’incontro con lo scrittore fu davvero piacevole per la capacità di lui ad intrattenere il pubblico sull’interessante intreccio tra le culture e letterature dei due Paesi, sulle reciproche influenze, sull’impossibilità di tradurre in ebraico testi italiani dialettali e sulla polarizzazione, operata in Italia, della letteratura israeliana sui temi della Shoah e del conflitto israelo palestinese; con conseguenti, negativi stereotipi; anche se l’ultima generazione di Autori sembra allontanarsi da simile limitativa tendenza; come accade in questo romanzo.
Di Nostro figlio, edito da Atmosphere libri, non racconterò in specifico la vicenda per non guastare nel lettore il piacere della scoperta, limitandomi a delineare i caratteri dei protagonisti e ad alcune riflessioni sorte in me via via.
Itai Zer, 40 anni, impiegato a Tel Aviv presso il Centro Programmi Scolastici di Carattere Scientifico (scrive materiale didattico per le scuole), viene rintracciato da certo Avi Razi, suo diretto superiore vent’anni addietro, durante il servizio militare.
A detta di Avi, Itai è in debito verso di lui per una certa vicenda, scabrosa, accaduta allorché quest’ultimo era soldato semplice -e Avi ufficiale- presso la base dell’aviazione di Hazor (a sud di Ashdod).
In quel periodo Itai, personalità fragile -durante l’adolescenza aveva perfino sofferto di crisi epilettiche-, si era innamorato di Neta Barkai, affascinante impiegata militare (per lei aveva scritto poesie), figura rimossa in seguito dalla sua vita, specie dopo il matrimonio con Yael e la nascita della piccola Tami. Pure Avi si era sposato, ma la moglie Ayalà, così egli racconta, si era ben presto legata ad un altro e lo aveva abbandonato portando con sé il loro figlioletto di appena un anno, Noam.
Ora, dodici anni dopo, Noam si appresta a celebrare il Bar Mitzvah e suo padre, con il quale non ha mai avuto rapporti, è intenzionato a…..
Per soprammercato Avi intende coinvolgere Itai nel suo progetto.
Dopo tanto tempo i due uomini si incontrano di persona. Emergono in Itai lontani ricordi, in primo luogo quello di Neta, in fondo mai dimenticata: il rimpianto -quel “rapimento del cuore” che allora lo aveva catturato- riaffiora con forza.
Avi non fa a meno di ricordare con una certa insistenza a Itai che fu proprio lui a tirarlo fuori d’impaccio a suo tempo, evitandogli il carcere militare. Il secondo acconsente a seguirlo del suo programma, a patto che Avi lo aiuti a rintracciare Neta; tuttavia vuol vederci più chiaro nella vita di quell’interlocutore sbucato dal nulla, cui non tiene per niente a dare la qualifica di amico.
Distratto da una vita apparentemente monotona e senza scosse, Itai finisce per essere coinvolto sempre più nell’esistenza complicata di Avi ed affrontare con lui le tre donne del romanzo: Neta, Yael, Ayalà. Esse non si conoscono, né s’incontrano mai, ma tessono in prima persona la variegata trama; pur nella diversità dei caratteri e delle esperienze, sono sensibili, fragili talvolta, ma, nello stesso tempo, forti, determinate e conducono loro il gioco. Specie Ayalà che, con la sua trasparenza, conquista Itai, il quale, dopo averle parlato direttamente, si sente più dalla parte di lei che da quella dell’ex marito.
Itai e Avi sono i tipici spettatori degli eventi che si trovano a vivere, ma ciò in fondo non li rende sereni e soddisfatti della loro esistenza; pensano magari a soluzioni estreme ed assurde, che poi non arrivano a mettere in pratica.
Avi colleziona riviste femminili per entrare nella psiche della moglie, ma non riesce a raggiungere la forza di lei, forza della quale prende coscienza in ritardo; addirittura mente sulle modalità dell’abbandono di Ayalà per svegliare l’attenzione e la solidarietà di Itai. Quest’ultimo è confuso, indeciso, sembra incapace di intraprendere una precisa strada con convinzione.
C’è tuttavia un terzo personaggio maschile adulto in controtendenza rispetto agli altri due: si tratta di Leo, il fabbricante di giocattoli, l’uomo nel quale Ayalà trova quel calore umano, quella sensibilità che mancano nel marito. Forse, in assoluto, è la figura più affascinante di tutto il romanzo, pur in apparenza secondaria; è lui il vero uomo forte. Parla Ayalà: “ Noam è molto legato a lui…hanno la stessa camminata. Alcuni giorni fa li ho visto giocare insieme a pallacanestro, tirano esattamente nello stesso modo”.
Lo stile del romanzo è scorrevole, coinvolgente, ricco di sfumature, con “ieri” e “oggi” che si alternano, ed evocativi squarci d’ambiente, come l’accenno agli “agrumeti rischiarati dall’intensa luce del mattino” o quella passeggiata di Itai, immagino un richiamo di sapore autobiografico di Alon, verso la riva del fiume Yarkon a Tel Aviv: “Mi tornarono in mente le lunghe camminate con mio nonno fino alla foce. Precedendomi a passi piccoli e pazienti, ogni tanto tirava fuori una mela o una banana dalla sua borsa, per darmi forza nella lunga camminata”.
Una storia di tradimenti, delusioni, parentesi mai chiuse; al di là della vicenda in sé (universale) tutto il racconto ha uno spiccato spirito israeliano, sia nell’ironia sottile, che non risparmia l’ambiente militare, sia nel crudo realismo.
Infine confesso che mi ha molto intrigato il fatto che l’opera, scritta in ebraico, sia stata tradotta in italiano dall’Autore e da sua moglie, sintesi perfetta.
Alon e Aline, due nomi quasi identici.
[1] V. mio commento su questo sito: La bellezza ci ha salvato? Speciale Salone del Libro di Torino 2008 (Maggio 2008).