TO BE OR NOT TO BE

                               (Titolo originale To be or not to be, U.S.A., 1942; Genere commedia)

 

“ ‘Ma Hitler non è vegetariano?’   ‘Sì, ma a volte interrompe la dieta per inghiottire intere nazioni!’ ”

“ ‘E’ la prima volta che incontro un’attrice….’   ‘E io è la prima volta che incontro  un uomo capace di sganciare tre tonnellate di dinamite in due minuti!’  ”

“??????? Prima Hess, poi ora ‘questo’…..????”

 

          Ridere per vivere e per vincere, combattendo le eterne persecuzioni con l’arma del sorriso affrontando le avversità con una frase, un motto di spirito. Ecco l’umorismo ebraico, la battuta, il Witz, nato direttamente dalla tradizione ashkenazita.

         “Una risposta creativa” sostiene il Prof. David Meghnagi perché, prosegue “ fornisce una via d’uscita e catartica, prende in giro e gira intorno”.

         Lo incontri nei modesti villaggi dell’Est Europa, ma anche in luminose città,  Nord America compreso.

         Giustamente la Giornata Europea della Cultura Ebraica 2012 è stata dedicata a questo tema.

         Oggi, in un clima pesante dove sembra che lo spirito, l’ironia e lo sberleffo debbano essere banditi addirittura in prevenzione, nel timore di offendere “qualcuno”, ritenuto a priori autorevole ed intoccabile, vai a vedere come mai, è benemerita l’iniziativa del Museo Ebraico di Bologna di dedicare una sezione delle proprie attività a Cinema e Umorismo ebraico, insistendo sul fatto che il “saper ridere” pure di sé e della propria condizione -anzi soprattutto di questo- è una caratteristica del mondo ebraico sviluppatasi nel corso dei secoli, a diverse latitudini e con caratteristiche varie di luogo in luogo.

      Apre la serie To be or not to be (titolo italiano: Vogliamo vivere! Non male, pur retorico), film girato nel lontano 1942, tratto dalla commedia del drammaturgo ungherese Melchior Lengyel Noch ist Polen nicht verloren (il significato è all’incirca questo: la Polonia c’è ancora) e diretto da uno dei maggiori geni del cinema, Ernst Lubitsch.

     Due parole sul personaggio.

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    Ernst Lubitsch (nato a Berlino nel 1892, morto a Los Angeles nel 1947) è stato regista, attore, sceneggiatore e produttore cinematografico tedesco, naturalizzato statunitense, famoso per aver contribuito, anche in virtù del suo caratteristico “tocco” (espressione inventata dal collega, altrettanto celebre, Samuel Wilder, cioè Billy Wilder), a caratterizzare un’epoca della cinematografia americana; e non solo. Un vero Maestro per intere generazioni.

    Nato a Berlino da padre bielorusso e madre tedesca, entrambi ebrei ashkenaziti, per qualche tempo cura la contabilità nell’atelier del padre sarto, ma ben presto nasce in lui la vocazione per il palcoscenico. Debutta, poco meno che ventenne, con la compagnia del Deutscher Theater, diretta dal mitico Max Reinhardt, ed entra in contatto con un ambiente quanto mai stimolante: vi appartengono infatti -in quella sorta di triangolo magico che brilla negli anni della Repubblica di Weimar, costituito da Berlino, Monaco, Vienna- figure come Bertolt Brecht, George Grosz, Kurt Weil, Karl Kraus e molti altri. Si dedica poi al cinema: dopo aver interpretato diversi film, passa alla regia, prediligendo drammi in costume, ma soprattutto commedie leggere. Il notevole successo riscosso da alcune pellicole fa sì che Hollywood si accorga di lui: Mary Pickford, la celebre attrice e produttrice, molto potente nella “Mecca del cinema”, lo chiama (1921) per Rosita, accolto bene da pubblico e critica. Si stabilisce negli U.S.A. Nel sonoro poi trova il cinema più adatto al suo gusto per la battuta maliziosa e raffinata e la situazione ai limiti dell’assurdo. Ecco quindi il “tocco alla Lubitsch”, quella sintesi armoniosa tra umorismo e sottile erotismo (mai scadente nel volgare).

     Dirige le più celebrate stars dell’epoca: da Marlene Dietrich, a Greta Garbo, a Miriam Hopkins a Carole Lombard. Tanti i film, come Mancia competente (1932), La vedova allegra (1934) o l’insolito, divertentissimo e romantico Ninotchka (1939), una satira del bolscevismo, il cui lancio pubblicitario è: Garbo laughs!, cioè (Greta) Garbo ride. In effetti, oltre che sorridere e ridere,  la mitica attrice svedese riesce ad esprimere in pieno la propria femminilità, rimasta, a mio parere, nascosta nelle precedenti, più famose, interpretazioni.

   Diverse le candidature all’Oscar, ma, somma ingiustizia, Lubitsch ne vince solo uno, alla carriera, nel 1947; poco prima della morte, avvenuta quell’anno.

  Vogliamo vivere! -edizione restaurata di recente, passata quasi a volo d’uccello nelle nostre sale nel 2013, ma ritengo reperibile nei negozi specializzati- è la storia di un gruppo teatrale assai conosciuto nella Polonia di fine Anni Trenta.

     Il suo repertorio è piuttosto vasto, da Shakespeare al cabaret. Responsabile è Josef Tura, coadiuvato dalla bionda e bella moglie Maria, prima attrice, e da una serie di eccentrici personaggi.

     La scena di apertura del film ci mostra Adolf Hitler a passeggio per le strade di Varsavia, poco prima dell’invasione del 1939. Tutti sono stupefatti e impauriti, tranne una bambina che, avvicinatasi al dittatore, con matita e quaderno, gli chiede sorridente: “Mi fa un autografo, Signor Bronski?”

   Pericolo scongiurato: si tratta infatti di un attore della compagnia di Tura, perfetto, a detta dei colleghi, nell’imitazione del Führer.

   Nel programma c’è la rappresentazione di una commedia ironica dal titolo Gestapo; ma la censura preventiva interviene vietandola per non irritare il potente vicino -niente di nuovo sotto il sole, ma, in quel caso, le motivazioni sono serie….- e così la compagnia ripiega su Amleto.

   Subito dopo, siamo in teatro, comprendiamo il significato del titolo originale del film.

   Maria, corteggiata a suon di mazzi di fiori da un fascinoso ufficiale dell’aeronautica polacca, il tenente Stanislav Sobinski, sempre presente tra il pubblico, dà appuntamento in camerino al suo spasimante escogitando un insolito stratagemma. Per recarsi da lei egli dovrà lasciare il proprio posto in teatro non appena il marito inizierà a declamare il celebre monologo di Amleto, Essere o non Essere.

   E’ quello un momento molto delicato per un attore, esige massima concentrazione; e dunque ciò è garanzia per gli spasimanti di essere lasciati in pace. Ma l’emozionato pilota, poiché è seduto proprio al centro della platea, costringe l’intera fila di spettatori ad alzarsi, distraendo tutti da quanto avviene sul palcoscenico  e suscitando la fredda ira di Josef.

   Non c’è tempo per i crucci personali: i carri armati tedeschi invadono la Polonia.

   Altra scena.

   A Londra c’è una riunione di aviatori della divisione polacca inquadrata nella Royal Air Force. E’ presente l’uomo ritenuto da tutti il capo della Resistenza polacca, il Prof. Siletsky. Gli eroici piloti desiderano dare notizie ai familiari ed amici rimasti in Patria; e così forniscono al Professore nomi ed indirizzi. Di lui ci si può fidare come di un buon papà.

   Anche il tenente Sobinski avanza una richiesta: prega Siletsky di far avere una lettera alla Sig.ra Maria Tura. Poiché l’interlocutore fa le mostre di non conoscerla -com’è possibile? Lei è un’interprete notissima in tutta la Polonia!!!!-, l’ufficiale si insospettisce: qualcosa non torna.

    Che Siletsky sia una spia tedesca? Riferisce la cosa ai superiori, i quali, preoccupati a loro volta, lo rimandano subito a Varsavia perché fermi il pericolo.

    Da qui parte una vicenda serratissima, fatta di colpi di scena, equivoci, corse allo spasimo, travestimenti; finzione e realtà s’intersecano tra loro e si assomigliano al punto che è difficile distinguere l’una dall’altra, nei dialoghi e nelle situazioni.

    Il dramma della Polonia occupata dalla truppe di Hitler s’intreccia col triangolo amoroso tra Maria, Josef e il tenente. Con Josef che, in più di una circostanza, corre gravissimi rischi e si espone più degli altri.  Vuol dare prova di coraggio, per amor di Patria, ma soprattutto di….Maria.

   Chi scrive ritiene che il confronto tra i due rivali sia senza storia: per quanto meno giovane e bello, il marito è assai più carismatico dell’insipido spasimante, come del resto sovente accade nella vita quotidiana.

    Gl’interpreti sono tutti perfettamente calati nella parte. Solo un accenno ai due “Tura”.

    Josef è il versatile Jack Benny, nome d’arte di Benjamin Kubelsky (1894 / 1974).

  Attore di rivista, suonatore di violino, è stato interprete di numerose commedie e musical hollywoodiani a partire dagli anni Trenta; nonché, più tardi, di programmi radiofonici e televisivi di grande successo.

  E’ noto che quando Lubitsch gli propose di partecipare al suo film, egli accettò senza nemmeno chiedere informazioni sul soggetto. “ Noi comici abbiamo sempre fatto film bruttini, girati da mestieranti. Se uno come Lubitsch ti interpella, tu accetti a scatola chiusa, punto”.

  Maria ha le fattezze di Carole Lombard, una delle dive più note all’epoca. Negli anni Trenta fu la regina della cosiddetta screwball comedy (espressione attinta dal gergo del baseball: palla girata a vite, a effetto): un genere cinematografico che partiva da una brillante vicenda amorosa e la impreziosiva con rocambolesche avventure dai risvolti comici. La grande lezione del muto era ancora ben fresca.

   Carole era non solo molto bella, ma pure spiritosa, versatile perché capace di essere con notevole disinvoltura, magari nel medesimo film, la classica svampita, la donna fatale, la patriota valorosa. Quest’ultimo ruolo, nel mondo reale, le costò la vita.

  A seguito dell’attacco giapponese di Pearl Harbour del dicembre 1941, anche gli U.S.A. entrarono nel conflitto. To be or not to be era quasi terminato e lei approfittò di una pausa nelle riprese per intraprendere un giro propagandistico nel natio Stato dell’Indiana al fine di vendere obbligazioni di guerra. Dopo qualche giorno, ansiosa di raggiungere il marito, il celebre divo Clark Gable, decise di far ritorno a casa in aereo. Il 16 gennaio 1942 il velivolo si schiantò non lontano da Las Vegas. L’attrice, poco più che trentenne, morì sul colpo, insieme a  tutti i passeggeri, per lo più militari americani.

   Clark, innamoratissimo della moglie, si precipitò sul luogo della sciagura, montagnoso e impervio, partecipando alle ricerche del corpo. La scomparsa di lei fu un dolore immenso per l’attore, tanto che egli lasciò, come disposizione, di esserle un giorno sepolto accanto. Il che in effetti avvenne, circa un ventennio dopo.

   La pellicola fu terminata utilizzando una controfigura.

    Il film ebbe, a suo tempo, notevole successo, anche se alcuni ritennero di cattivo gusto che si scherzasse su temi così tragici. La guerra era al culmine, si sapeva delle deportazioni, ma ancora confuse erano le notizie in merito alle uccisioni col gas.

    E poi: 1942, l’anno della conferenza di Wannsee.

   Film coraggioso per quell’epoca (oggi temo di difficile realizzazione, dato l’imperante e vile politicamente corretto che spadroneggia  a tutto campo), poiché la Germania pareva invincibile. Anche tenuto conto della potenza militare statunitense, le sorti del conflitto erano ancora assai incerte.

 Ma il nostro Lubitsch aveva dalla sua armi preziose: lo spirito corrosivo ed elegante, l’entusiasmo di vivere tipicamente ebraici. Una gioiosa scintilla di divino.

 Un trailer del film