(Titolo originale: THE VISITOR; U.S.A., 2007)
Salutato dalla critica come il “primo film dell’era Obama”, accolto da un notevole successo di pubblico, la pellicola dell’attore/regista statunitense Thomas Mc Carthy ci propone una storia imperniata su un problema di scottante attualità, specie dopo i tragici eventi dell’11 settembre 2001: il rapporto tra l’esigenza imprescindibile di uno Stato di garantire la sicurezza della comunità e il diritto, altrettanto imprescindibile, delle persone, cittadini dello Stato o meno, di vivere la propria esistenza libera da soprusi e vessazioni.
Walter Vale è un sessantenne professore di Economia nel Connecticut; vedovo da alcuni anni (c’è anche un figlio, ma abita lontano, a Londra), vive nel ricordo dell’amata moglie defunta; anzi, in omaggio a lei, valente pianista, cerca invano di prendere confidenza con il difficile strumento.
Anche la sua attività di docente universitario è ormai priva di stimoli e le giornate trascorrono monotone. Un giorno, suo malgrado, deve recarsi a New York per la presentazione, in un Convegno, dell’opera scritta da una giovane collega (impedita da motivi personali), su cui egli, come accademico anziano, si è limitato ad apporre la firma. Recatosi nell’appartamento del quale, da anni, è proprietario nella Grande Mela, si accorge che l’immobile, che egli non visitava da tempo, è stato affittato, con un imbroglio, da un conoscente ad una giovane coppia di immigrati: il siriano Tarek e la senegalese Zainab. Dopo un iniziale, prevedibile, scontro, il professore, intuendo che i due giovani non hanno un posto dove andare, propone loro di restare finché non abbiano trovato una plausibile sistemazione. Grazie anche alla comune passione per la musica, nasce ben presto una simpatica amicizia tra Walter e Tarek, che comprende pure Zainab, all’inizio molto diffidente.
Tarek è un ragazzo estroverso, che si guadagna da vivere suonando per le strade una sorta di tamburo africano, lo djambé; grazie al suo entusiasmo egli persuade Walter non solo a cimentarsi con esso, ma anche a scendere per via con lui. Davanti all’austero accademico si schiude un mondo fino ad allora sconosciuto: un universo colorato fatto di cantanti e suonatori di strada, immigrati di varia provenienza, molti dei quali, come Zainab, sono abilissimi nel confezionare in maniera artigianale splendidi gioielli adoperando materiali semplici e di basso costo.
Molto bella è la scena che si svolge in un giardino pubblico, dove Tarek e i suoi amici, appoggiati ad un muretto, si esibiscono di fronte ad un gruppo di passanti incuriositi; anche Walter che, in principio, si era limitato ad osservare i giovani, dopo un po’, coinvolto, si unisce a loro e batte in modo ritmato sul tamburo, incoraggiato dall’entusiasmo.
Proprio al termine di questa giornata, mentre sta imboccando con Walter la via di casa, Tarek, per un futile motivo, è fermato dalla polizia locale, che controlla le stazioni della metropolitana, e, poiché gli agenti scoprono che è un immigrato irregolare, per di più proveniente da un Paese che ha pessimi rapporti con gli USA, viene arrestato, nonostante il professore accorra con energia in sua difesa. A nulla valgono le proteste di Walter, che si appella ai principi che egli ritiene essere alla base del moderno Stato democratico in cui è nato e vive: i rabbiosi poliziotti gli riservano le stesse maniere dure usate col giovane, che viene subito condotto in un centro di detenzione dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE). In quel luogo, che pare uscito da una novella di Kafka, Tarek può avere solo il conforto dell’amico americano; Walter si reca a visitarlo subito e cerca in tutti i modi di toglierlo dalla grave situazione. Intanto Mouna Khalil, la madre di Tarek, che risiede nel Michigan, insospettita perché il figlio, di solito molto sollecito con lei, non le dà notizie di sé da giorni, si precipita a New York. Carico di forza emotiva è l’incontro tra il preoccupato Walter e l’intensa Mouna, una donna ricca di fascino e umanità: egli non solo si sente subito attratto da lei, ma anche grazie a lei comprende quanto sia importante battersi per quei valori di democrazia e uguaglianza che, nella paradossale occasione, sembrano essere stati dimenticati dalla pubblica autorità.
Entra in scena pure un avvocato, un giovane di origine mediorientale, che tuttavia non sembra essere in grado di (o volere fino in fondo) sciogliere le maglie di un meccanicistico potere che non è in grado di distinguere tra comportamenti criminali -reale pericolo per la sicurezza dei cittadini e dello Stato- e infrazioni, di per sé rimediabili, commesse per inesperienza o paura.
Durante i colloqui con Mouna Walter viene a sapere che il marito di lei, giornalista dissidente dal regime siriano, a seguito delle gravi sofferenze patite nelle carceri di Assad, era morto poco dopo la liberazione. Madre e figlio speravano di incominciare una nuova vita negli USA., proprio il Paese che avrebbe dovuto accoglierli con simpatia e affetto. E per qualche tempo tutto era sembrato filare per il meglio, finché…..
La conclusione della vicenda è amarissima, la più ingiusta ed assurda che si possa immaginare, ben simboleggiata dalla scena finale in cui il professore, sconfitto nei suoi sforzi di far trionfare la giustizia, seduto in una stazione della metropolitana, batte con rabbia lo djambé in modo sempre più veloce, mentre si incrociano i rumorosi treni e un passante wasp lo osserva infastidito.
La pellicola è una seria denuncia dell’incapacità, da parte di chi detiene anche solo una briciola di potere, di saperlo esercitare per il bene della comunità, compresi coloro che, magari provenienti da un Paese lontano, dopo aver sopportato dure sofferenze, con fatica tentano di inserirsi all’interno di una realtà nella quale avevano posto le migliori speranze. Il contesto scelto sono i problemi posti dall’immigrazione, ma il tema è suscettibile di applicazione in realtà diverse.
Efficacissimo il modo con cui sono rappresentati gli agenti, sia al momento dell’arresto di Tarek, che all’interno del Centro di detenzione: qui un giovane poliziotto di colore, tanto corpulento quanto stupido, si aggrappa ad un fantomatico regolamento pur di non degnarsi di ascoltare le ragioni di Walter, poiché ciò che conta è che quest’ultimo stia lontano dallo “sportello”. Anzi, l’insistenza da lui manifestata, in difesa del giovane incarcerato, finisce per rendere anche il maturo connazionale, pure lui, (quasi) una persona sospetta: “Si allontani dallo sportello!”
I protagonisti sono ritratti nella loro varia umanità; i dialoghi, molto veloci, passano dal registro comico, a quello tenero, a quello drammatico.
L’attore americano Richard Jenkins dà vita con grande talento alla figura del professore, stanco di propinare agli allievi il medesimo programma da un ventennio; ma che trova una ragione di vita prima nella scoperta di questa piccola comunità “on the road”, poi nella strenua difesa di Tarek in nome di quei valori che pian piano comprende essere stati calpestati in nome di un modo (sbagliato) di intendere la sicurezza.
Hiam Abbas, interprete arabo-israeliana (è anche la protagonista dell’interessante, pur con qualche concessione alle consolidate leggende metropolitane in materia, Il giardino dei limoni di Eran Riklis) è un’autentica madre-coraggio, che sa confortare, magari solo al telefono -non potendolo incontrare di persona- il figlio amato, con sorrisi e frasi affettuose; anche se si rende conto presto che la rete dell’assurdo va stringendosi sempre di più intorno a loro. Familiarizza all’istante con la bella Zainab (Danai Giurira) con gli occhi buoni valorizzati dai capelli cortissimi, temperamento molto dolce, sotto una scorza ruvida.
Infine Haaz Sleiman è un Tarek solare e coinvolgente; commuove la scena in cui egli, meravigliato e disperato ad un tempo, quasi incredulo di fronte alle proprie parole domanda a Walter: “Ma chi mi credono……un terrorista??! Non ci sono terroristi qua dentro. I terroristi dispongono di soldi, appoggi….”
Un film importante e documentato, che fa riflettere. Da vedere. Proprio perché ci troviamo di fronte ad una democrazia alle prese con duri problemi di importante attualità. Le situazioni riscontrate negli USA le ritroviamo anche da noi, con varianti di non grande rilievo.
Nulla a che spartire con le chiassate ad effetto in stile Michael Moore o con le sbrodolature moralistiche che, invertendo causa ed effetto, pretenderebbero di spiegare il terrorismo come conseguenza diretta della povertà.