(Titolo originario: Etz Limon / Lemon Tree; Israele/ Germania/Francia, 2008; Genere: Drammatico)
“Ci deve essere una soluzione!” “Tremila anni [….] e nessuno l’ha trovata. Che vuoi da me???” “E’ ora che qualcuno la trovi!”
Eran Riklis, regista israeliano, autore di Zohar e La sposa siriana, ci propone un’opera cinematografica che, presentata in anteprima al Festival di Berlino 2008 e nella sezione Fuori concorso all’ultimo Festival di Torino, ha riscosso un notevole consenso di pubblico e critica.
La vicenda narrata in Il giardino di limoni si può riassumere con facilità.
Salma Zidane è una vedova palestinese di circa quarantacinque anni che abita da sola in un villaggio della Cisgiordania, a cavallo della c.d. “Linea Verde”. L’amato marito è deceduto dieci anni prima per cardiopatia; dei tre figli, le ragazze sono sposate con prole e vivono in centri vicini, ma separate da lei a causa della difficile situazione in quei luoghi; mentre il maschio è emigrato negli USA e si guadagna da vivere come cuoco. L’unica consolazione e mezzo di sostentamento per la donna è uno stupendo giardino di limoni che ella ha ereditato da suo padre. Il giardino esprime il legame con la famiglia d’origine, con la terra da cui Salma proviene: non potrebbe mai separarsene, nonostante il figlio, durante le periodiche telefonate, la preghi di raggiungerlo in quel mondo ricco di opportunità, nel quale lei “si sentirebbe come una regina”.
Un giorno il Ministro della Difesa israeliano, Israel Navon, si trasferisce con la consorte proprio nella casa di fronte alla sua. Vengono innalzate torrette di sorveglianza e posizionato un nutrito gruppo di guardie del corpo, ma i servizi segreti non sono affatto tranquilli: quel frutteto potrebbe costituire un ottimo rifugio e base di partenza per un terrorista pronto a compiere un attentato ai danni del Ministro. Dunque dal momento che “…il giardino di limoni rappresenta una minaccia reale e immediata per la casa del Ministro e per lo Stato di Israele” se ne dispone il totale sradicamento. Salma si ribella con forza a tale ordine, che ritiene sia ingiusto che assurdo, visto che, in tanti decenni, il podere non ha rappresentato un pericolo per nessuno. Ella corre -non senza essersi coperta il capo con un ampio foulard prima di uscire di casa!- dai maggiorenti della sua comunità in cerca di aiuto: il principale di essi, dopo averle lanciato un avvertimento, per nulla larvato, di non accettare risarcimenti di sorta ”dagli Ebrei”, la indirizza ad un giovane ed ambizioso avvocato, Ziad Daud. Questi prende a cuore il problema, sia perché è attratto da Salma, donna ancora affascinante, sia soprattutto perché intuisce nella storia un’occasione per mettersi in luce di fronte agli esponenti politici locali.
Dopo che il Tribunale, annesso all’amministrazione militare israeliana, ha dato loro torto, legale e cliente decidono di adire la Corte Suprema di Gerusalemme. Grazie all’abilità di Ziad, ben introdotto negli ambienti che contano dell’Autorità Palestinese, l’ ”affaire Giardino di limoni” diventa prima un caso nazionale -ne parlano a lungo gli organi di informazione, mettendo in palese imbarazzo il Ministro Navon-, poi varca i confini di Israele, al punto che perfino il figlio di Salma, stupefatto, assiste dal luogo di lavoro ad una trasmissione televisiva in cui si parla della vicenda che vede come protagonista la madre. Inutile dire che, da quel momento, il prestigio del giovane cresce alla grande presso i suoi datori di lavoro, i quali, fino ad un istante prima, lo squadravano dall’alto in basso.
C’è qualcuno che guarda a Salma con particolare partecipazione e simpatia: si tratta di Mira, la moglie del Ministro. Ella è una donna inquieta nell’animo, alla quale la posizione di potere di cui gode presso le amiche non porta serenità; il marito è troppo preso dagli impegni politici, dalla propria immagine pubblica di inflessibile custode della sicurezza del Paese (oltre che dalle grazie di una seducente soldatessa che gli ronza sempre attorno e non lo lascia un attimo).
Mira vede nella vicina palestinese, che lotta per difendere la sua ragione di vita, una persona autentica, sincera. Le due donne non si parlano mai, ma, tra loro, pian piano si crea una silenziosa, all’inizio inconscia, solidarietà, fatta di sguardi che s’incrociano di lontano. Una comunanza di pensieri e di sentimenti che non ha bisogno di parole per esprimersi; a volte ostacolata, come quando l’israeliana, penetrata di nascosto nel giardino di limoni, viene indotta ad allontanarsene dagli uomini della sicurezza. Fino alla scena più toccante del film, il giorno del processo davanti alla Corte Suprema: un attimo, una scintilla di arte pura, Mira e Salma una di fronte all’altra, occhi negli occhi, che si stringono la mano.
La pellicola va vista per lo studio psicologico dei diversi caratteri, ben tratteggiati ed espressi in maniera efficace, a cominciare dalle protagoniste: le attrici Hiam Abbas e Rona Lipaz Michael sono superbe nelle rispettive parti.
Commuove la figura dell’anziano contadino palestinese, che vuol bene a Salma come ad una figlia e racconta con semplici parole ai giudici che gli alberi sono come le persone: vanno curati, amati, altrimenti, giorno dopo giorno, muoiono, dopo che i loro frutti sono caduti.
E difatti i limoni, poiché il giardino è stato recintato e viene impedito alla legittima proprietaria di accedervi per le cure necessarie, cominciano inesorabilmente a staccarsi dai rami per rotolare malinconici sul terreno.
La saggezza antica di un popolo il cui dramma è di essere guidato da una leadership estremista che non gli dà speranze, che gl’instilla odio quotidiano nei confronti del vicino, da sempre considerato nemico; vicino dal quale pretenderebbe il rispetto, mentre, in compenso, ne irride i sentimenti più intimi: ultimo esempio di questi giorni, per lo più strumentalmente ignorato dai nostri organi di informazione, la messa in scena ripugnante, ad opera di Hamas, con una comparsa nella parte di un piagnucolante Gilad Shalit.
Il regista ha ben rappresentato -che se ne sia reso conto o meno, poco importa- il contrasto tra il dolore di Salma, e delle persone comuni come lei, e la cinica strumentalizzazione di esso da parte di chi detiene il potere nel mondo palestinese: l’avvocato, in primo luogo, che lascerà sola la donna al termine del processo, dopo averne ricavato per sé un certo lustro d’immagine; o quel capoclan, preoccupato in modo ossessivo per l’onore della vedova, che guarda la fotografia del figlio di lei con occhio famelico, mentre stigmatizza che sia andato in America. Non si fatica ad immaginare che già lo sogni con una bella cintura di esplosivo legata alla vita.
Simpatico è il soldatino Itamar, messo a guardia sulla torretta di sorveglianza, che passa le sue giornate ad ascoltare trasmissioni radio con quiz; tra lui e Salma scocca un’istantanea scintilla di simpatia, subito repressa dagli ottusi superiori del ragazzo.
L’urtante sicumera del Ministro Navon ben esprime il cinismo e l’ipocrisia del politico di professione, che finge di non vedere l’ansia di giustizia della moglie.
Alla fine egli si troverà solo, in una casa vuota.
La conclusione, con l’inquadratura del muro che divide le due proprietà, anzi del Muro per antonomasia, sta a significare l’incapacità di andare oltre, di vedere che cosa c’è “al di là”, pur nell’estrema difficoltà di ciò. Purtroppo la disinformazione, la leggenda nera per così dire, che è stata creata intorno a quest’opera di difesa dal terrorismo -che ha salvato tante vite umane-, in muratura per una percentuale irrisoria della sua lunghezza -ma è la parte in muratura che viene ossessivamente inquadrata dai mass media !-, contribuisce a rendere il messaggio conformista e un po’ falso. Almeno a giudizio di chi scrive.
Molto più densa di significato è la scena successiva. La protagonista si aggira sola, nel suo frutteto, i cui alberi sono stati potati in modo drastico e ricordano un paziente sottoposto ad una cura severissima che, con un po’ di buonsenso, si sarebbe potuta modulare.
Ma, di lontano, s’intravvede una speranza di guarigione; di nuova crescita degli alberi.