(Titolo originale Haità po pa’am mishpachà)
Trad. Shulim Vogelmann, Ed. Giuntina, Gennaio 2009 pp. 136
“….Mia madre non ha mai raccontato” aggiunsi. [Nili] cercò con lo sguardo il dottore…e gli sussurrò: ‘..abbiamo un caso di seconda generazione’ “
Quando, in occasione del Festival della Letteratura Israeliana (Sotto la Stella di Davide) svoltosi a Bologna nel luglio scorso, l’abbiamo incontrata, Lizzie Doron -scrittrice per caso, come lei stessa ha confessato- ci ha condotto per mano nel mondo emozionante e tragico del suo Perché non sei venuta prima della guerra? dove lei, voce narrante, racconta l’esperienza di sua madre Helena.
Helena, cresciuta nel milieu austroungarico, lettrice di Heine, ha vissuto l’indicibile tragedia della Shoah, è sopravvissuta, è approdata in Israele. E’ giunta dal Paese “di là”, quello che non si nomina, al Paese “di qua”, quello della rinascita. Ma può rinascere chi è….sopravvissuto? Ella ci prova; vive l’esistenza quotidiana secondo regole tutte sue, al di fuori di condizionamenti esterni e senza scendere a patti con la comune realtà. Tutta la vita fa i conti con quel sentimento, contro il quale pure sua figlia confessa di aver combattuto (creandosi una propria identità, una biografia diversa, come lei afferma, a prescindere da quella materna), che è la “vergogna” di chi è uscito dall’inferno: la vergogna che, per ironia della vita, non colpisce i carnefici, bensì le vittime. Tuttavia è solo dopo la sua morte che la figlia, maturando e ripensando agli anni trascorsi insieme, loro due sole (il padre era morto prematuramente di TBC), ne comprende la grandezza, la capacità di averla, sia pure alla sua maniera, amata profondamente ed educata a valori forti e positivi. Helena non le ha mai parlato in modo diretto della Shoah, né della sua vita “prima”; e ciò ha creato in Lizzie uno iato doloroso, un vuoto che cerca di colmare attraverso la scrittura. Questa nuova testimonianza è un libretto, come il precedente, lungo poco più di 100 pagine, scritto in un linguaggio semplicissimo, familiare -immagino la gioia di Shulim Vogelmann nel far sua la storia, pagina dopo pagina-, ma denso di significati, di presenze vive, di ironia e di tanto altro.
Forse l’intenso lirismo della prima testimonianza non è raggiunto poiché, in qualche modo, Helena (figura degna di un autore della Grecia classica) non è qui la protagonista assoluta; ma vale ugualmente la pena di seguire la figlia nel suo percorso.
Nell’autunno 1990, dopo la celebrazione del funerale della madre (“morta per la seconda volta”), Lizzie torna nella casa di lei, vuota da circa un anno. Ella onora la settimana di lutto secondo la tradizione ebraica, la shivà, soggiornando in quel luogo tutto il tempo per scoprire e riordinare oggetti, fogli, lettere, libri alla ricerca di Helena, figura in qualche modo per lei ancora misteriosa, per consentire a coloro che l’avevano conosciuta ed amata di renderle omaggio e, nello stesso tempo, passo imprescindibile, di salutare lei, la figlia, per riannodare il legame tra le generazioni e far tornare di nuovo in vita un universo di persone che, giunte da lontano con un carico di sofferenze indicibili, erano riuscite a dar vita ad una nuova creazione, nel Paese che li aveva accolti, Israele. Entriamo nel mondo dell’infanzia e della prima giovinezza della scrittrice, che, per lei, è stato (ed è) famiglia e patria. “Un luogo così familiare e talmente estraneo…..nella fiacchezza si ricreò per una seconda volta un mondo antico scomparso”.
Davanti ai nostri occhi si materializzano figure -in primo piano Sonia, la grassa, e Genia, la minuta; due specialiste della shivà, delle yentes, o impiccione, ma ricche di calore umano-, uscite dai quadri di Chagall, intagliate nel sarcasmo e nella tragedia, che arricchiscono l’ebraico quotidiano con frasi ed espressioni in yiddish, la lingua della Shoah.
E la Shoah è sempre presente, sbuca quando meno te lo aspetti, emerge nelle immagini di chi l’ha vissuta non in modo diretto, ma in una sorta di visione capovolta. “I bambini debbono andare a letto presto per crescere” afferma uno dei personaggi, cercando di essere, alla sua maniera, divertente “e i genitori debbono andare a letto presto per dimenticare”.
Ma sappiamo che dimenticare è impossibile. “Ossigeno! Aiuto, ossigeno!” grida Helena in ospedale; ma non è l’ossigeno per respirare che ella invoca nei suoi incubi. Le sofferenze patite fanno sì che i componenti della “famiglia”, che hanno per lo più in orrore i risarcimenti offerti dai tedeschi a Israele dopo la guerra, vadano elaborando nei confronti dei loro figli, la Seconda Generazione, un sentimento di protezione a volte perfino ossessivo.
“Non lascerò mai che mio figlio muoia”: è un motivo che emerge spesso nel libro. Siamo riusciti a vincere su chi ci voleva sterminare tutti, questa è la riflessione, perché “qua” abbiamo messo al mondo i nostri figli, ma se questi muoiono -ed è con la guerra di Yom Kippur del 1973 che s’incrocia la vita dei coetanei dell’Autrice-, ecco che finiremo per perdere anche la partita nel Paese “di là”.
Ecco, basterebbero queste riflessioni sul comune sentire del popolo di Israele in merito alla Shoah per rendere questo libro degno di lettura e attenzione.
E’ riportato un testo, sotto forma di giustificazione scolastica per la mancata partecipazione della piccola Lizzie ad una gita di classe alla tomba dell’eroe sionista Yosef Trumpeldor, che giustamente Chaiele, coetanea della scrittrice, definisce il testamento di Helena; testo che bene esprime, al di là di alcune espressioni paradossali, il comune sentire del popolo di Israele nei confronti della guerra, e del rapporto di questa, la guerra, con la vita e la morte. Merita di essere letto con attenzione, soprattutto da parte di coloro che, da sempre, esprimono giudizi unilaterali nei confronti di tale Paese senza preoccuparsi di conoscerne né la vera storia, né l’anima profonda. Amore per la Vita, fiducia nel Futuro, nonostante la tragedia: questo è il legame profondo, sia pur sofferto e spesso contraddittorio, tra Madre e Figlia. Come quando la prima compatisce come “poveracce senza futuro” due amiche, anch’esse “sopravvissute” proprio perché “…..non hanno una bambina come te”. E la seconda prova un’intensa emozione, a quelle parole. “Si chiama felicità, pensai allora quando avevo sei anni, e mi riempì di gioia”.