Ed. Einaudi, Collana I coralli, Ottobre 2008, pp. 263

 
Abba, non sto scherzando e non fare quella faccia, perché so che la stai già facendo. Non è che nonno Moise ….ti assomiglia: sei tu”.
 
I libri sono come le persone. Anzi sono essi stessi persone; all’apparenza fatti di carta, ma, in realtà, sono di carne, vita, pianto e riso. A volte capita di incontrarne uno, che subito senti amico, come se ci avessi giocato insieme da sempre. Lo cominci, ti ci trovi bene insieme, percorri un po’ di strada con lui…gli confidi segreti che nessuno conosce. Tuttavia può accadere che lo lasci perdere per qualche tempo poiché gravosi impegni premono. Il richiamo però è troppo forte e allora, prima o poi l’amico lo vai a ricercare; o meglio è lui che ritrova te.
 Mi ha sempre commosso l’immagine di D-o Padre/Madre della tradizione ebraico-cristiana che, nel capitolo 15 del Genesi, versetto 5, conduce all’aperto Abram, figlio dubbioso, e gli si rivolge “Guarda in cielo e conta le stelle, se puoi”; attende un attimo affinché questo figlio ammiri la volta celeste; ma anche Lui indugia un po’, quasi incredulo, davanti a tanta meraviglia. Poi conclude, lo immagino trepidante: “Tale sarà la tua discendenza”.
Elena Loewenthal, studiosa e docente di ebraistica, autrice di saggi e romanzi, non ha bisogno di presentazioni. Ha voluto intitolare il suo ultimo romanzo con la frase-invito del Signore ad Abram per invitare, a sua volta, i lettori all’incontro con una storia nella quale utilizzando, per un verso, dati, nomi e luoghi tratti dal passato vero, ella ha sviluppato una vicenda ”come se non fosse successo quello che è successo”.
Poiché, ella scrive, “la Shoah non sta dentro, sta fuori dalla nostra storia. E’silenzio di morte, invece che vita e parole”.
Elena ha narrato la Storia non senza i morti, ma, in qualche modo, insieme con loro; ha messo cioè la vita al centro, dove la morte ha cancellato ogni cosa.
Per un altro verso, poi, è ricorsa alla finzione letteraria di piegare altri dati ed eventi alla narrazione (“la realtà alla fantasia”) e ha dato così corpo ad una saga familiare, simbolo di tante famiglie ebraiche, svanite nel nulla delle camere a gas e dei forni crematori.
Quella grande umanità senza la quale siamo tutti più poveri.
Ne è nato un romanzo di grande originalità, di profonda tenerezza e suggestione.
Per non privare il lettore della gioia della scoperta, non racconterò gli avvenimenti principali; mi limiterò a seguire i primi passi del protagonista: Moise Levi, detto Moisìn, poi, nel prosieguo del tempo, divenuto nonno Moise.
Moise Levi è un giovane ebreo di ventitre anni -“con una faccia più giovane di lui, appena un’ombra di baffi sopra il labbro superiore”- che, una mattina di fine estate 1872, proprio a ridosso delle Grandi Feste, lascia la natìa Fossano, portando con sé solo un carretto di stracci. E’ diretto a Torino, vuol far fortuna, poiché consapevole di avere un notevole fiuto per gli affari; e infatti, negli anni, darà vita ad una fiorente azienda di commercio nel capo tessile. Avrà sei figli, un ragguardevole numero di nipoti e bisnipoti sparsi per il mondo (alla fine del libro è meritoriamente inserito l’albero genealogico!) e due mogli: Ines, la silenziosa ricamatrice, indi, morta costei, Cesira, nata non ebrea, di umili origini e buona volontà, assai più giovane del marito, ma che lo ama profondamente, accolta dalle figlie di lui con, prevedibili, alterni sentimenti.
Terminata la Prima Guerra Mondiale e dopo il “brutto spettacolo” della marcia su Roma, nel 1924 a Mussolini, detto “Mussolino”, capita qualcosa grazie al quale la vita della famiglia Levi può proseguire tranquilla nella sua normalità, con le gioie e i problemi quotidiani. Il tono e lo stile dell’Autrice sono carichi di ironia e suggestione, come quando, per contrappasso, carica il 1938, l’annus horribilis delle Leggi Razziali, di eventi positivi, come il termine del Mandato britannico sulla Palestina e la nascita dello Stato di Israele -evento cui dedica emozionanti immagini-; nonché l’abdicazione (non in favore dell’allampanato erede, ma…della Repubblica) del piccolo re Vittorio Emanuele III, poco amato da Moise.
Di proposito non è fatto cenno delle tragiche vicende che sconvolsero in seguito l’Europa, anche se, qua è là, qualcosa, chi scrive, le lascia intuire, immaginare, ricorrendo a toni sarcastici; come quando Maya, giovane membro del ramo israeliano della famiglia (grazie alla figlia minore di primo letto di Moise, Ida, trasferitasi ben presto nella Terra Promessa), giunta a Torino per ritrovare le radici di casa, in una telefonata al padre esclama: “….Ci sono più ebrei qui che a Ramat Gan, a momenti! Me l’avrà detto mille volte, nonna Chavatzelet, che in Italia ci sono talmente tanti ebrei che non li si conta più!”
Questo, in estrema sintesi, il significato del romanzo, il suo messaggio: essere tanti di più, di quanti l’orrore ha ghermito.
Infine Torino, luogo natale della scrittrice, è anch’essa interprete della storia, non si accontenta di fare da sfondo: la città che “sapeva di qualcosa” la “gigantessa addormentata con miriadi di minuscolo esseri che le camminavano addosso…” Cambia con il trascorrere dei tempi e delle generazioni.
Elena Loewenthal segue i suoi personaggi, istante dopo istante, con affetto, facendoli parlare in un giudeo-piemontese limpido e carico di simpatia: Ròbe ‘d l’aut olam! (dell’altro mondo!) è un’espressione colorita tra le tante.

Narrata quasi sottovoce, è una storia di casa che senti subito tua, a ragione apprezzata da pubblico e critica: il romanzo infatti è uno dei 5 finalisti del Premio Campiello, giunto quest’anno alla  XLVII edizione.

Etichetta: