La città che non vuole invecchiare

Ed. Traveller Feltrinelli, Maggio 2009, pp. 153
 
“Ed è anche diventata…..una città multiforme, ricca di….contraddizioni. Però resta…quello che era sin dall’inizio: un luogo che fosse il contrario della Diaspora. Che sbattesse la porta in faccia a un passato millenario”….. “Mi manca il pane di Tel Aviv, quando sono lontana”.
 
Un’importante città festeggia il primo secolo di vita, anche se vanta -e forse vorrebbe nascondere, a volte- millenni di storia dietro di sé. Omaggio davvero unico le rende la nostra Elena Loewenthal, della quale è uscita, nelle scorse settimane, questa da non definirsi Guida turistica, bensì traduzione scritta di un viaggio, il suo, cominciato diverso tempo fa, ma, come ogni viaggio dell’anima (e del corpo) che si rispetti, non ancora terminato. Anzi lei stessa invita il lettore ad un confronto, per così dire, sul campo, poiché “chiunque ci vada accompagnato da queste pagine troverà in Tel Aviv tanto di nuovo che a me è sfuggito. Che ho trascurato, ignorato, sbagliato…”
Questo prezioso dono è giunto alcune settimane dopo il ritorno da un viaggio da me compiuto in Israele, con Tel Aviv come prima tappa.
Fuor di discussione che, la prossima volta, l’agile volumetto di Elena sarà un compagno inseparabile.
Mi ha appassionato in primo luogo il metodo seguito dall’Autrice nel suo percorso: proprio perché non ci troviamo di fronte ad un asettico vademecum, esso si snoda secondo un pittoresco -ma solo apparente!- disordine. In realtà segue una trama costituita da intrecci già ben visibili prima ancora che l’aereo tocchi terra.

A zonzo per le vie percorrendo e ripercorrendo, con infinita pazienza, la piccola e la grande storia, coincidente con le vicende di Israele; facendo affiorare ricordi personali carichi di tenerezza (come il Libraio Robinson, commerciante di cose usate, non solo libri; ed è incredibile, scrive, quanto sia prezioso tutto ciò che, antico, ti capita di trovare in una città moderna), ella intraprende il cammino; indi si ferma, riflette. Poi prosegue; perlustra mentre si lascia guidare dagli odori (e ritrova quegli stessi profumi ogni volta perché ”la memoria ha bisogno di punti fermi per tener viva la nostalgia”); ad ogni nuovo appuntamento aggiunge un tassello; ha in pieno l’umiltà di chi è consapevole d’aver ancora tanto da imparare.
Lezione di vita anche per il turista per così dire colto.
Un città tutta ebraica dove si parli ebraico, una sfida dopo circa duemila anni; era il sogno di Eliezer Ben Yehudah -nato in Lituania nel 1858 col cognome di Perelman- salito in Terra Promessa nel 1881, fondatore dell’Accademia della Lingua ebraica. Mi piace pensare a lui come al Principe della Favola che, con un bacio, sveglia la Bella Addormentata, cioè la Lingua dei Padri prigioniera da secoli nella torre dorata della fede, per portarla alla vita di ogni giorno, ai profumi, ai sentimenti, ai dolori quotidiani. Una lingua che ogni giorno cambia un poco mescolandosi con altri idiomi, come scherza il telaviviano Etgar Keret: “Per salutarci, sul boulevard, diciamo tov yalla bye, bene-andiamo-ciao, mescolando ebraico-arabo-inglese”. Una lingua vecchia/nuova, come Tel Aviv, a cominciare dal suo nome, reminiscenza biblico-herzeliana: Tel -Collina (stratificata)- e Aviv -Primavera-: Altneuland. Senza dimenticare la tradizione, non certo però così presente come a Gerusalemme, ma soprattutto con lo slancio proteso verso il futuro: una città che ha….paura di invecchiare, come sostiene a ragione Elena; e per questo è tutta un cantiere, con gru dovunque. Anche a me ricorda tanto Berlino.
 
Il viaggio parte dalla celeberrima fotografia scattata da Avraham Soskin il fatidico 11 aprile 1909. Sulle dune di sabbia….null’altro esisteva allora in quel luogo ……..sulle dune di sabbia, o meglio lungo il canalone tra due dune, c’è un folto gruppo di persone, non mancano i bambini: esse stanno per lo più in piedi, alcune sedute, ma quasi tutte vengono ritratte di spalle, rivolte verso un uomo in cappello e pantaloni bianchi, ritto davanti a loro, poco lontano. Le fisionomie si distinguono bene: signore in gonna lunga e scialle, uomini con bombetta e braccia dietro la schiena. Gruppetti immersi in discussioni, una madre col figlioletto in braccio, bambini incuriositi….qualcuno sdraiato sull’arenile, simile a certe figurine del presepe, si gode la scena; c’è un cane bianco e nero sulla destra…mentre un paio di figure, sul lato sinistro, avanzano di corsa: per questo la loro immagine è sfuocata. L’aria e lo spazio tutt’intorno hanno un che di indefinibile, quasi rarefatto, come accade talora nelle località marine. Pare che il segretario del comitato organizzatore, una sorta di consiglio comunale ante litteram (forse l’uomo verso il quale tutti guardano) ad un certo punto, puntando il bastone da passeggio nelle diverse direzioni, profetizzasse: “Qui ci sarà un parco pubblico; lì un teatro; e laggiù il municipio”. E tutti videro che era cosa buona.
 
Quell’attimo immortalato (nondimeno con una discretamente lunga storia dietro di sé), la cosiddetta “Lotteria delle Conchiglie”, è il fiat dato alla nuova creatura. Tiriamo a sorte: a ogni conchiglia bianca col nome del gruppo familiare è abbinata dal caso, personificato emblematicamente in due bambini (un maschio e una femmina), la conchiglia grigia col numero di ciascun lotto di terreno nei quali è stato suddiviso l’appezzamento, acquistato qualche tempo prima da proprietari beduini. E così avanti, oltre sessanta volte. L’estrazione a sorte. Elena Loewenthal nota come il tema ricorra spesso nelle vicende del popolo ebraico: la festa di Purim, parola che significa appunto “Sorti”, o il sorteggio che stabiliva l’ordine di suicidio cui si sarebbe sottoposto ciascuno degli assediati senza speranza di Masada.
Nel caso nostro, la sorte è al servizio del Nuovo e della Vita. Si progettava una città-giardino sul modello britannico; è andato crescendo nel tempo qualcosa di totalmente nuovo ed originale. E quasi stravagante, specie nel rapporto con la tradizione. Qui, tanto per fare un esempio, c’è una grande istituzione chiamata Beth Hatefutsoth, cioè Casa della Diaspora, o meglio delle Diaspore. Uno dei numerosi paradossi ebraici; ma forse il paradosso è la cifra principale di interpretazione di ciò che viviamo e ci circonda.
L’incontro di Elena con la città avviene attraverso la “Materia”, cioè la Sabbia -l’elemento fondante, considerato quasi una seconda pelle dagli abitanti-; il Mare, l’Acqua -col loro valore ambivalente di salvezza/minaccia- e il Cielo -inteso in senso rigorosamente laico: quanti profughi dall’Europa nemica ha accolto Tel Aviv! E quanti grattacieli sono sorti negli anni e ora svettano verso l’alto-.
Ma avviene anche tramite i “Sensi”: Vedere, Sentire, Ascoltare. Confrontarsi con i momenti tragici: Loewenthal quasi nemmeno accenna al terrorismo islamista (e sì che Tel Aviv ne è stata duramente colpita), ma si ferma commossa a Piazza Rabin. Ritrova le pagine degli Autori tradotti e vissuti, incontra i personaggi che hanno costruito la città -Meir Diezengoff, il primo Sindaco, o Nahum Gutman, scrittore per l’infanzia e disegnatore, cui è dedicato un notevole Museo- e narra aneddoti tanto divertenti, quanto poco conosciuti: andateli a cercare tra le pagine perché meritano.
Immagina la vita attorno al primo chiosco, simile ad una pagoda, ripescato da una vecchia foto degli anni ’10 del Novecento.
 

 
Alla fine vi sono due meritori elenchi: uno degli Autori evocati; l’altro dei luoghi incontrati (in ordine di entrata in scena), con indirizzi, numeri telefonici e utili indicazioni.
Ella passeggia, come feci io, per le viuzze del primo quartiere interamente ebraico, costruito nel 1887, Neve Tsedek (“Oasi di Giustizia”), ora risorto a nuova vita, dopo un lungo periodo di decadenza. Costruzioni basse, chiare di luce e ben tenute (con prezzi consequenziali); bei ristorantini, locali di tendenza, con artisti, poeti, un turismo di qualità.
Sì, a Neve Tsedek e alla sua quiete desideri ritornare; anche perché non c’è nulla di più affascinante del vedere gli alti edifici ultramoderni, in vetro e forme ardite, impegnati a sovrastare questo ambiente tradizionale, quasi ad accarezzarlo e proteggerlo.
Precisa identità, ma strabiliante melting pot, anche nel cibo. Intriganti le riflessioni sul cibo e il modo di rapportarsi ad esso degli abitanti, più disinvolto che altrove; in Israele e all’estero.
Tel Aviv infatti è la capitale gourmet del Paese (non la sede del Governo o del Parlamento, come purtroppo si ostinano a ripetere fino alla nausea i nostri organi di -dis- informazione!), con la incredibile varietà di proposte gastronomiche e di soluzioni, poiché vi si mangia, beati loro, ad ogni ora del giorno, “con la tovaglia” o “senza la tovaglia” poco importa.
E può perfino capitare che, in uno “chiccoso” ristorante in zona porto, gruppetti di gatti del circondario si avvicinino ai tavoli degli avventori per godersi il fresco e guadagnarsi qualche boccone (con inevitabili carezze….).
Una domanda: conoscete il cioccolato israeliano?
 
P.S. – Una cara amica veronese, Lucia, mi ha inviato su Tel Aviv alcune brevi riflessioni, degne della penna di Yaakov Shabtai. Le riporto qua perché meritano una citazione:
“Per quel che riguarda Tel Aviv, l’anno scorso in febbraio sono stata in Israele con mia figlia e due nipoti già adulte e abituate agli alloggi spartani. Quindi la prima sera siamo andate a dormire nell’ostello Old Giaffa, molto raccomandato dalle guide. A prescindere dall’interno, curiosissimo, una vecchia abitazione turca, con mobili degli anni ‘Venti/Trenta, eravamo a pochi passi dal centro restaurato di Yafo. La mattina dopo abbiamo scoperto che ci trovavamo nel cuore del Mercato delle pulci, un incredibile insieme di negozietti che vendevano di Tutto, ma soprattutto mobili: belli, di uno stile sconosciuto per noi. Il trasporto era fatto anche con carro e cavallo!  Dalla terrazza alta del nostro Old Giaffa vedevamo questo mare di casette sulle quali spesso sventolavano bandiere di Israele. Ed eravamo anche a due passi dal campanile con orologio che segna il passaggio in Tel Aviv vera e propria. Sullo sfondo i grattacieli Azrieli! E che dire del lungomare dove il sabato mattina si ballano danze israeliane e vi partecipano liberamente giovani e vecchi, donne e uomini. Un modo straordinario di vivere lo Shabbat!  Che città!”.
Etichetta: