(Titolo originale Haus der Kinheit, 2000, Luchterhand, München)
Trad. Paola Buscaglione Candela, Ed. Giuntina, 2009, pp. 270
“Ma che vuol dire dal punto di vista puramente giuridico?…Di che diritto si parla? Ma Lei per che regime lavora?”
“E se un….pronipote ritornasse alle radici ebraiche possedendo null’altro che una tenace ispirazione?” “La casa è dove si ama”.
Una foto di famiglia scattata all’inizio degli anni ’20. Sui larghi gradini di casa, davanti alla porta d’ingresso, cinque adulti e tre bambini: tre generazioni. Un’immagine in bianco e nero in grado di trasformare “in un ulteriore luogo di esilio ogni nuova abitazione in cui si trasferivano”.
Anna Mitgutsch, della quale abbiamo letto nel 2008 La voce del deserto, torna quest’anno, sempre nella collana “Diaspora” della Casa Editrice Giuntina, con La casa della nostalgia, uscito in Germania nel 2000.
La vicenda, come suggerisce il titolo originale tedesco Haus der Kinheit, ruota intorno ad una villa, adagiata su un vasto prato discendente ripido fino al fiume. Siamo in una pittoresca cittadina austriaca, della quale l’Autrice ci rivela solo la lettera iniziale -H.-, dove Hermann, un agiato commerciante ebreo, colà trasferitosi dalla nativa Boemia dopo la Prima Guerra Mondiale, fa costruire una bella casa per sé e per le due figlie, Sophie e Mira, con le rispettive famiglie.
Mira, la più brillante delle due sorelle, aveva interrotto gli studi di biologia per sposare Saul Berman, medico di origine polacca. Hanno tre figli: Victor, “pignolo e prepotente”; Benjamin, vivace e ricco di fantasia, ma che ben presto sviluppa una grave forma di schizofrenia; infine Max, il protagonista del romanzo, nato nel 1923.
Grazie alla capacità del marito di intuire l’approssimarsi di tempi difficili, nel 1928 Mira emigra con lui e i figli negli USA. La famiglia si trasferisce a New York e, negli anni, cercherà invano di sottrarre al tragico destino degli Ebrei d’Europa Hermann, Sophie e Albert (marito di lei), rimasti a H. per non aver voluto abbandonare il Paese cui si sentivano tanto legati.
La vita nel Nuovo Mondo è difficile per queste persone innamorate della vecchia Europa nella quale sono cresciute; soprattutto è la moglie a soffrire la lontananza da quella terra…al di là dell’Oceano. Tra i due coniugi sorgono dissapori, sfocianti in una dolorosa separazione. Saul incontra una nuova compagna e sviluppa sentimenti sionisti, ma, contrariamente a Victor, non compirà mai l’aliah. Benjamin (Ben) precipita sempre più nella sua schizofrenia.
Max, educato -senza che ne se renda conto- dagli ambienti ricchi di contrasti, luci, ombre dove trascorre la seconda infanzia e l’adolescenza (le alte finestre con i piccoli balconi di ghisa…) al gusto dell’equilibrio e delle proporzioni, diventa da adulto un arredatore alla moda, molto ricercato.
E’ un uomo amante del bello, perennemente inquieto e alla ricerca di un ideale di perfezione. Fin da giovane incontra e frequenta molte donne, incantate dal suo fascino ironico: lo immagino con le sembianze di Marcello Mastroianni. Le sue preferenze vanno a creature complesse, enigmatiche, con una certa freddezza nel fondo dell’anima: la dura Eva, di origine viennese, che vuol diventare americana al 100%, Elizabeth, la pittrice che lo introduce nell’ambiente artistico….
Quando di una egli ritiene di conoscere a fondo la personalità, tronca il rapporto; ovviamente è contrario al matrimonio poiché esso spegne, in qualche modo, “la magia”.
Le sofferenze di Mira per non aver potuto salvare i congiunti dalla morte, l’inguaribile nostalgia di lei per la casa di famiglia, fanno nascere in Max il desiderio di risarcire in qualche modo la madre, cui è molto affezionato, dei dolori patiti. Matura, nel tempo, il desiderio di riavere la casa immortalata in quella foto, ma gli impegni frenetici nel periodo della piena attività glielo impediscono. Giunto alla maturità, durante gli anni ’70, ritorna a H. Per la verità, vi si era recato, una prima volta, a fine conflitto, come militare dell’esercito USA, ma non era stato un incontro felice: estranei ostili occupavano le stanze che, tanti anni prima, avevano riecheggiato delle voci sue e dei congiunti. Per riprendere possesso della villa egli affronta pastoie burocratiche incredibili, trovandosi in situazioni spesso assurde, ma soprattutto deve intraprendere un difficile percorso di riconciliazione con un luogo, una Patria di origine, che aveva respinto lui e la sua famiglia; è impegnato cioè in un tentativo di “ripristinare una temporalità che si è spezzata”.
Così afferma, in un’intervista di circa un anno fa, Anna Lissa a proposito delle tematiche, svolte dagli scrittori israeliani, sul rapporto tra esistenza diasporica e vita intrapresa nel nuovo Stato di Israele. Il motivo ritorna, con varianti di scarso rilievo, anche nel nostro contesto.
La desiderata riconciliazione tuttavia non avviene poiché a H. la vita ebraica, dopo il periodo nazista, è stata rimossa e la piccola Comunità ivi ricostituita è per lo più composta da persone di passaggio o da anziani chiusi nei loro ricordi. L’ambiente esterno, poi, in un centro periferico (diverso, immagino, è il caso di una grande città), è un impasto di diffidenza e rimozione, su cui fa spesso capolino un mai scomparso antisemitismo.
Perfino la casa, la casa della nostalgia di Mira, ritornata dopo varie peripezie nella disponibilità di Max, è a lui estranea, nonostante gli sforzi profusi, nella ristrutturazione e nell’arredamento, per far rivivere l’epoca felice.
Mentre percepisce l’inesorabile trascorrere del tempo -anzi, in parte per questo motivo- il protagonista si applica ad un altro impegnativo compito. Studia e poi scrive la tragica storia degli Ebrei vissuti in quei luoghi: una storia costellata di discriminazioni, torture, accuse infamanti (a cominciare dall’infanticidio, rituale o meno), stragi, confische di merci e proprietà, pur vivendo ebrei e gentili a poca distanza gli uni dagli altri. Una vita sempre all’insegna della provvisorietà, anche quando ciò non appariva ad un primo sguardo. “Vorrei”, spiega “scrivere la storia cancellata di H., quella su cui sorvola la storia ufficiale, tanto che quella mancanza non viene neppure notata”. Scrive perché le generazioni future sappiano che in quel luogo ci sono sempre stati Ebrei e che ciò non venga dimenticato. Nei suoi studi è aiutato da un giovane bibliotecario, non ebreo, Thomas, il quale ritiene molto importante che tale storia divenga patrimonio comune, complice il nascente interesse per gli Ebrei e l’Ebraismo, pur comprendendo la diffidenza verso il mondo esterno dei più anziani membri della Comunità.
Caro amico di Max diviene Arthur Spitzer, presidente di fatto della stessa Comunità. Egli si rivela un prezioso aiuto per Max in primo luogo perché esperto in problemi di Rueckstellungsverfahren, vale a dire i procedimenti giudiziari istituiti nel dopoguerra per la restituzione ai proprietari ebrei dei beni espropriati dai nazisti. Diversi studiosi si sono occupati di tali questioni e sono stati scritti volumi ricchi non solo di interessanti, pur complesse, problematiche giuridiche, ma anche di storie e vicende umane di alto profilo. Per quanto concerne le opere d’arte in senso stretto, a cominciare dai quadri, ricordiamo, tra tutti, un libro, uscito all’inizio di quest’anno in Germania, che è un vero e proprio viaggio attraverso il mondo del mecenatismo e collezionismo ebraico in Europa all’inizio del Novecento. Il testo, curato da Melissa Mueller e Monika Tatzkow, editore Elisabeth Sandmann, Muenchen, si intitola Verlorene Bilder-Verlorene Leben. Juedische Sammler und was aus ihren Kunstwerken wurde ("Quadri persi-Vite perdute. Collezionisti ebrei e cosa ne è stato dei loro capolavori"). Ne dà conto, in un ampio articolo, Andrea Affaticati su il Foglio Quotidiano dell’11 luglio scorso.
Pure illustri giuristi italiani hanno trattato queste tematiche, forse incoraggiati da esperienze vissute in prima persona. Ad esempio il Prof. Walter Bigiavi, il quale riuscì a beffare la "Belva nazista" grazie anche all’aiuto dei Colleghi dell’Università di Padova, ma i cui anziani genitori furono catturati e deportati ad Auschwitz per essere uccisi all’arrivo. Dell’indimenticato giuscommercialista dell’Ateneo bolognese rammentiamo: Confisca di depositi bancari intestati ad ebrei, in Giurisprudenza italiana, 1946, I, 1, disp. 8 e Annullamento di alienazioni immobiliari compiute da ebrei discriminati, in Giurisprudenza italiana, 1947, I, 2, disp. 8.
Ma torniamo alla nostra storia. Arthur Spitzer è certo consapevole che il passato non potrà mai essere cancellato, ma resta ugualmente a H. come testimone della presenza ebraica, dopo la morte dell’amata moglie Flora e il trasferimento del fratello in Israele. Dolente figura di alto profilo morale, quest’uomo è il Custode dell’Eredità. Molto profonde le pagine in cui egli, poco prima di morire, racconta ad una giovane studentessa -interessata alle vicende degli espropri delle case di proprietà degli ebrei durante il nazismo- la vita della cittadina in quegli anni, in particolare durante il tremendo 1938. La ragazza, Margarethe, gli confessa subito con imbarazzo di provenire da una famiglia di nazisti e ciò dà un colore ancora più significativo all’episodio.
Max raccoglie in parte l’eredità di Spitzer, affinché, come si legge nella Torah, “La quarta generazione possieda la Terra”. Conosce Helene, figlia di lui e di una donna cattolica (sposata in seconde nozze); una ragazza di 18 anni che gli porta, racchiusa in una cartella, la documentazione, raccolta negli anni dallo stesso Arthur e dalla prima moglie, sulla propria famiglia, frutto di ricerche storiche e di viaggi nei luoghi della tragedia ebraica del XX secolo. Max ne trae spunto per avvicinare questa figlia alla memoria del padre, cercando in primo luogo di farle capire il dramma della “doppia vita” di lui, impegnato a risparmiare alla ragazza e a sua madre il dolore che egli aveva sofferto.
La rivincita sul passato, il riannodare i fili della memoria, è limitato a singoli episodi, come l’incontro con Helene, alla quale fa riscoprire il valore della figura paterna, ma non è possibile riempire il vuoto lasciato dall’assenza di coloro che si sono intesi dimenticare.
Quando, in circostanze non chiare, muore Nadja, forse l’unica donna che egli, sia pure a suo modo, abbia amato, Max, rimasto solo dopo la scomparsa di queste due persone care, decide di rientrare per sempre a New York. Nadja era l’aspirante pittrice, divenuta su consiglio di lui, abile fotografa. E’una donna tormentata, impegnata nel recupero di un’identità ebraica che le era stata confiscata in tempi lontani: torna dunque a più riprese la tematica sviluppata in La voce del deserto.
Ha deciso: a New York terminerà i suoi studi, in quella città, essa sì, percepita come sua, dove si chiama “Max” e non “signor Berman”, come a H.
Ha deciso: a New York terminerà i suoi studi, in quella città, essa sì, percepita come sua, dove si chiama “Max” e non “signor Berman”, come a H.
Il romanzo è avvincente, pur intriso di profonda malinconia; i personaggi sono seguiti con partecipazione a amore. Bellissimo ed evocativo l’alternarsi delle stagioni nella cittadina austriaca di provincia e nella metropoli americana. Impagabili le immagini di New York con la neve, come nelle nostre città non si vede più.