FERRARA: 25 aprile / 28 aprile 2015
“…La presenza ebraica a Ferrara si dipana lungo undici secoli di storia, una comunità le cui vicende s’intrecciano intimamente con quelle della città…”
Sesta edizione a Ferrara per la Festa del Libro Ebraico in Italia [1].
Nata nel 2010, ad opera della Fondazione MEIS (Museo nazionale dell’Ebraismo italiano e della Shoah, istituito nella città estense in base alla L. 17 aprile 2003, n. 91 -modificata dalla L. 27 dicembre 2006, n. 296- con l’intento di valorizzare l’eccezionale continuità della ultra bimillenaria presenza ebraica in Italia), essa si avvale del supporto di importanti istituzioni locali e nazionali.
Il significato della Festa è rivelato, come sappiamo, dal suo logo: una Menorah, il candelabro a sette braccia che si trovava nel Tempio di Gerusalemme fino alla distruzione di questo ad opera dei Romani nel 70 e.v., trasformato in un libro aperto dove ogni gruppo di pagine sorregge una fiammella. Si tratta di un forte momento di condivisione della cultura ebraica italiana grazie al racconto di questa minoranza che, da sempre legata tramite un rapporto indissolubile -vuoi fecondo, vuoi conflittuale e drammatico- al resto del Paese, ne continua ad animare la vita culturale, sociale, economica.
L’appuntamento ferrarese assume connotati ancora più rilevanti alla luce del crescente antisemitismo che va sfregiando l’Europa, tronfio nella certezza della propria impunità –o almeno delle variegate scusanti che incontra-.
Il programma è fittissimo, vario; davvero non è facile la scelta tra un evento e l’altro.
Dibattiti, convegni internazionali, concerti di musica -ebraica e non-, laboratori didattici per ragazzi, proiezioni cinematografiche, assaggi di cucina kasher….
Una Mostra di argomento centrale: Torah Fonte di Vita (visitabile fino al 31 dicembre prossimo). Insegnamento, Racconto, Memoria. Risposta alle nostre domande senza fine, ma pure Domanda a sua volta; spiazzante nella sua Ironia e Autoironia.
Come sempre il centro della Festa sono i Libri. Nell’inesauribile libreria a cielo aperto, consultabile dal pubblico dalle 9.30 a mezzanotte, posta sotto le volte del Chiostro di S. Paolo, ecco oltre cinquemila testi, pubblicati da circa 150 Case editrici: alcuni, freschi di stampa; altri, i classici volumi difficili da trovare, che metterebbero altrimenti nelle ambasce studiosi ed appassionati.
Il Chiostro è pure sede di numerosi e variegati incontri.
Come già feci nel 2014 darò conto solo degli eventi ai quali ho preso parte, piccola frazione di un’iniziativa in grado di richiamare ogni anno un numero sempre più numeroso di partecipanti.
Ad aprire la manifestazione, la sera del 25 aprile, alle 21:00: La Notte bianca ebraica d’Italia: E fu Sera e fu Mattina. Quest’anno essa assume un colore particolare: poiché è omaggio alla Libertà, riconquistata, giusto 70 anni or sono, dopo le persecuzioni, le deportazioni, la morte.
Ci diamo appuntamento per una passeggiata tra le vie dell’antico ghetto ebraico, fino alla sede del MEIS, in Via Piangipane.
Luogo di ritrovo: Piazzetta Schiatti dove si affaccia la Chiesa di S. Paolo. Siamo numerosi, nonostante una fastidiosa pioggerellina che scende a tratti.
La nostra giovane -e ottima- guida, Sharon Reichel, storica dell’arte, fa distribuire a ciascun intervenuto un rametto di non-ti-scordar-di-me, l’essenza i cui fiori hanno un delicato colore azzurro; un nome che è tutto un programma. “Lasciate i vostri mazzetti qua e là lungo il cammino, quale segno del vs. passaggio!” si raccomanda, mentre ci racconta -giocoforza, assai in breve- la complessa storia del quartiere ebraico, all’interno della Ferrara medievale.
La Comunità è tra le più antiche d’Italia: le sue prime notizie risalgono alla prima metà del secolo XIII. La presenza ebraica in città è attestata a far tempo dal 1227 ed è relativa ad un lascito testamentario che un “gentile” fece a certo Sabatinus Iudeus. Fin dall’inizio vi fu un’intensa attività culturale: pensiamo al rabbino Moshe ben Meir, glossatore e studioso del Talmud o al fatto che, fin dalla prima metà del ‘200, a Ferrara vi fosse un tribunale rabbinico, noto pure all’estero.
Il consolidarsi del potere degli Este (la famiglia era presente a Ferrara fin dal 1200) fu alla base del periodo di grande splendore della Comunità. Il benessere acquisito indusse diverse famiglie a trasferirsi in località della Regione, più o meno vicine, quali Cento, Finale, Lugo, Mirandola.
Da metà ‘400 agli ebrei italiani si aggiunsero correligionari provenienti dall’Europa centrale (cioè ashkenaziti), indi, a partire dal 1492, gli ebrei sefarditi cacciati dalla Spagna. Questi ultimi costituirono una sorta di aristocrazia cittadina, che diede vita ad importanti iniziative culturali, tra cui, ad esempio, la stampa della Bibbia di Ferrara (1553), volume ricco di preghiere ebraiche spagnole volgarizzate nella lingua ferrarese.
Allorché, nel 1598, il duca Alfonso II d’Este morì senza lasciare eredi, Ferrara passò sotto lo Stato Pontificio. La condizione degli Ebrei peggiorò in modo drastico, tanto che essi furono segregati -dal 1627 all’Unità d’Italia- in questo quartiere medievale, di cui Via Mazzini è la strada principale. All’imbocco della stessa,verso Piazza della Cattedrale, stava uno dei cinque cancelli di chiusura del ghetto: in alto, tra due archi, una lapide ne rammenta l’istituzione.
Il quartiere ebraico conserva in grandissima parte l’originaria struttura, nelle strade e negli edifici: Via Vignatagliata, Via Vittoria, Piazzetta Isacco Lampronti (dedicata all’illustre medico e talmudista ferrarese, 1679/1756). Molto graziosi i balconcini in ferro battuto, ad indicare la presenza degli ebrei sefarditi -reminiscenze andaluse-.
Passiamo davanti alla scuola ebraica, istituita, in Via Vignatagliata, dalla Comunità a seguito dell’espulsione dei bambini e ragazzi ebrei dalle scuole in ottemperanza alle leggi razziste del 1938: qui insegnarono lo scrittore Giorgio Bassani e sua cugina Matilde, morta alcuni anni fa, importante esponente della Resistenza romana.
In Via Mazzini 95 si trovano Sinagoga (o meglio, Sinagoghe) e sede della Comunità.
Incrociamo sulla soglia, mentre rientra dopo una giornata ricca di incontri, il Rabbino Capo, Luciano Meir Caro, e Signora. Scambio di saluti e battute spiritose: il Rav è persona amabilissima, con la quale è sempre una gioia parlare.
“Chi vi dice che stia andando a dormire?” ci apostrofa con un sorrisetto. A domani, caro Amico!
Nel 1485 un facoltoso banchiere romano, Ser Samuel Melli, aveva acquistato un vasto immobile e lo aveva donato agli Ebrei ferraresi perché ne facessero la sede delle loro istituzioni. A lato del portone d’ingresso vediamo due lapidi, portanti l’elenco delle 96 vittime delle deportazioni da Ferrara verso i campi di sterminio nel 1943-45. Ad esse si riferisce Giorgio Bassani in una delle sue Storie Ferraresi, chiamata appunto Una lapide in Via Mazzini. All’interno, gli ambienti più rilevanti sono l’ex Tempio (Scola) tedesco (Ashkenazita), devastato dai fascisti nel 1941, utilizzato per le cerimonie più solenni; la Scola italiana, usata per conferenze, e la Scola Fanese adibita alle celebrazioni del sabato.
La ricca collezione di oggetti ed arredi, costituenti il locale Museo Ebraico, già qui ospitata, è stata trasferita alle sede del MEIS dopo il terremoto della primavera 2012.
Giungiamo alla sede del MEIS, in Via Piangipane, appena fuori il centro città: apertura notturna e grande suggestione di voci, luci, simboli, mentre qualche stella fa finalmente capolino in cielo. Chi lo desidera, potrà visitare, in occasione della Festa, i cantieri del costituendo Museo: l’iniziativa, detta MEIS AT WORK, è volta a verificare “lo stato dell’arte”: un’esperienza davvero interessante.
La Mostra Torah, Fonte di Vita, della quale è curatrice la nostra Sharon (suo è pure l’istruttivo catalogo), ci presenta una selezione di oggetti di arte cerimoniale e libri costituenti la vasta collezione del locale Museo ebraico. Essa rappresenta un ulteriore, rilevante passo nel percorso di restituzione alla città -e a tutte le persone interessate- di questo importante patrimonio artistico, non visibile per circa tre anni a causa degli eventi sismici, oltre che un’occasione per approfondire la conoscenza degli aspetti inerenti la vita della Comunità ebraica, parte integrante della società ferrarese.
L’esposizione mette in rilievo il ruolo centrale, nella vita ebraica, della Torah, non solo dal punto di vista strettamente religioso, ma civile (personale e comunitario).
Le tre sale ci parlano dei vari momenti in cui la persona viene a contatto con la Torah: la Sinagoga e la Comunità, la lettura pubblica durante le preghiere; il rito pubblico e il rito privato negli oggetti che sottolineano l’importanza della Torah e delle Festività. Poiché le preghiere e lo studio -delle Scritture, in primo luogo, ma non solo- sono centrali nella vita di ogni ebreo, lo spazio dedicato al pensiero ebraico nelle sue diverse espressioni costituisce il centro della Mostra.
Sono esposti testi di notevole valore, come due volumi di Isacco Lampronti, o la pergamena di una Torah che, non essendo stata terminata secondo tutte le modalità prescritte, può essere esposta al pubblico e non conservata nel tradizionale “Tabernacolo”, cioè l’Aron haQodesh.
Ciò che ti affascina nell’Ebraismo è la continua ricerca, la capacità di affrontare tematiche, di discutere, di elaborare: una ricchezza infinita che investe la narrativa e la letteratura profana.
Una cultura che, pur minoritaria -e spesso perseguitata-, è sempre stata aperta al mondo esterno e lo ha notevolmente influenzato.
Grazie a tale ricchezza i visitatori sono invitati ad aprire i cassetti posti alla base di ogni pannello; è così possibile approfondire problemi diversi, formulare domande, proporre nuove idee.
La mattina seguente il Chiostro di S. Paolo ospita due emozionanti appuntamenti.
Il primo.
Presentato da Adam Smulevich, redattore di Pagine Ebraiche, Leonildo (Leo) Turrini -giornalista sportivo de il Resto del Carlino, la Nazione, il Giorno- ci parla della figura di Gino Bartali (1914/2000), il fuoriclasse del ciclismo, dichiarato due anni fa “Giusto tra le Nazioni” dallo Yad Vashem di Gerusalemme per aver salvato la vita (nel periodo 1943/’45) a circa 800 ebrei, con grave rischio personale.
Nel suo libro, Bartali, l’uomo che salvò l’Italia pedalando (Mondadori, 2005, ma ha avuto altre edizioni), Turrini racconta la vicenda, non solo sportiva, del grande campione: dai primi successi sulle due ruote, alle difficoltà col regime fascista (l’OVRA, la polizia segreta spiava questo cattolico praticante…sospetto), al coraggio con cui collaborò per salvare dalla deportazione diverse famiglie ebraiche, alla celebre ed incredibile vittoria al Tour de France (tappa Cannes/Briancon e conseguente conquista della “maglia gialla”), il 14 luglio 1948, giorno dell’attentato a Palmiro Togliatti, fatto che contribuì in modo decisivo a “sbollire” gli animi degl’italiani, esasperati dopo il drammatico episodio.
Una gloriosa carriera ultraventennale, che, tra l’altro, lo vide vincitore a dieci anni di distanza di due edizioni del Tour: nel 1938 e nel 1948; unico caso nella storia del ciclismo.
Bartali, in collegamento con la DELASEM (Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei), fece parte di una rete di salvataggio composta da ebrei, come il rabbino di Firenze -Nathan Cassuto, ucciso dai nazisti nel 1945, la testimonianza dei cui figli, David e Susanna, è stata determinante per il conferimento del titolo di Giusto al campione- e cattolici, guidati dal Cardinale Elia dalla Costa, già dichiarato Giusto nel 2012, arcivescovo di Firenze. Questa sorta di rete ebraico-cristiana, messa in piedi a seguito dell’occupazione tedesca della Penisola, salvò centinaia di ebrei -italiani e rifugiati dai territori in precedenza occupati dall’Italia-.
Il corridore, ben consapevole dei rischi mortali che si assumeva, agì come staffetta, nascondendo nel tubo della bicicletta documenti e carte, atti a falsificare i passaporti e consentire agli ebrei di scampare ad un tragico destino.
Trasportò il prezioso carico dalla stazione di Terontola Cortona fino ad Assisi (dove i falsi documenti venivano stampati): chilometri su chilometri percorsi sotto il naso di fascisti e tedeschi, il tutto col pretesto che si stava allenando.
Ma di ebrei ne salvò anche direttamente: tra questi il fiumano Giorgio Goldenberg che lo stesso Bartali nascose in una cantina di sua proprietà in Via del Bandino a Ponte a Ema (FI), suo paese natale.
Un esempio di indomito coraggio e di grande modestia: mai si vantò delle sua “imprese”, come del resto un altro nostro Giusto, Giorgio Perlasca.
“Il bene si fa, non si dice” era solito affermare.
Il secondo evento.
Il Premio di Cultura Ebraica PARDES, istituito dal MEIS per valorizzare e diffondere la conoscenza della cultura e tradizione ebraica in Italia ed Europa.
Com’è noto, il termine Pardes, usato dal Talmud (פרדס), nella lingua ebraica ha il significato di Frutteto; ma è pure un acronimo: le consonanti della parola stanno per peshat (che deriva dalla parola “semplice” ed ha il significato di letterale), remez, ovvero allegorico, drash, che significa omiletico e sod, esoterico. Questi termini definiscono nella tradizione i quattro livelli di interpretazione della Torah.
Quest’anno il Premio è conferito a:
Patrick Modiano, Premio alla Letteratura – Premio Nobel per la Letteratura 2014, Parigi
Samuel Modiano, Premio alla Carriera -Scrittore e testimone, Roma-Rodi;
Anna Foa, Premio alla Saggistica -Storica e scrittrice, Roma.
Marco Contini, giornalista di la Repubblica (redazione di Ferrara) traccia un ritratto dei tre premiati, ponendo in luce come essi, ciascuno dal proprio punto di vista, si siano soffermati sulla dialettica Presenza / Assenza; Sopravvivenza / Fuga; sull’eterna precarietà della vita ebraica, specie in Europa, sull’essere sempre in fuga da “qualcosa”, e come ciò abbia paradossalmente costituito per questo Popolo una ragione in più non solo per essere tenacemente legato alle proprie radici identitarie, ma per guardare sempre avanti, per cercare e trovare strade nuove.
Basti pensare, aggiungo tra me e me, a Israele. Pur costituito a seguito di una delibera ONU, ma con una storia ultrabimillenaria alle spalle -al contrario di tante realtà nate dopo la Prima Guerra Mondiale in ottemperanza ai desiderata delle potenze coloniali-, è l’unico Stato al mondo la cui legittimità è costantemente discussa ed è circondato da vicini che desiderano solo cancellarlo dalle mappe geografiche; oltre che dall’ostile indifferenza dell’Europa. Ciononostante, in barba ai boicottaggi che lo colpiscono, costosi anzitutto per chi li pratica, è all’avanguardia in tutti i campi, a cominciare da quello scientifico.
Anna Foa, docente di Storia moderna all’Università di Roma La Sapienza. Si occupa di storia della cultura nella prima età moderna, e, soprattutto, di storia degli Ebrei.
Ha scritto numerosi volumi, pure in tema di magia, streghe, convertiti e…..Giordano Bruno, affascinante protagonista del libero pensiero.
I due testi all’attenzione del pubblico e ragione dell’odierno Premio sono: Portico di Ottavia -Un casa del ghetto nel lungo inverno del ’43 (Editori Laterza, Bari, Collana I Robinson /Letture, 2013) e Andare per ghetti e giudecche (Il Mulino, Bologna, Collana Ritrovare l’Italia, 2014).
Due libri documentatissimi, scritti con la passione dello studioso autentico.
Nel primo ci troviamo in una casa medievale degradata, con largo cortile rinascimentale.
All’alba del 16 ottobre 1943 -poco prima delle cinque e trenta, nel giorno sacro di Shabbat, per rendere l’orrore ancora più grande- i nazisti, aiutati dai delatori italiani, arrestano più di trenta ebrei, tra i più poveri della Comunità, per lo più anziani, bambini, donne. E continueranno nei giorni successivi in una spietata caccia all’uomo, che porterà, nei mesi successivi, alla deportazione di 2000 persone.
Il secondo ci mostra come esplorare la geografia degl’insediamenti ebraici in Italia significhi rivivere oltre duemila anni di storia comune. Si fanno i conti o con il vuoto dovuto al definitivo sradicamento di antiche presenze ebraiche o con luoghi in cui, al contrario, esse sono rimaste pressoché immutate oppure con altre situazioni dove, dopo per lungo tempo, è stata di recente ricostituita una Comunità (un esempio per tutti, la Puglia).
Il testo ci fa conoscere le “giudecche”, cioè i quartieri aperti dove gli Ebrei si mescolavano ai Cristiani senza particolari limiti, distinte dai “ghetti”, spazi chiusi all’interno dei quali gli Ebrei stessi furono costretti a vivere, in totale separatezza, fino all’Unità d’Italia; e oltre.
Samuele (Sami) Modiano nasce nel 1930 nell’isola greca di Rodi, all’epoca provincia italiana, da famiglia ebraica. A seguito della promulgazione delle leggi razziste del 1938, viene cacciato dalla scuola: aveva otto anni e non riusciva a capire la ragione di tale provvedimento. Rodi era un luogo nel quale per tanto tempo cristiani, ebrei e musulmani avevano convissuto senza problemi. L’espulsione è la prima di una serie di gravi traversie. La madre muore precocemente, il padre perde il lavoro, diversi ebrei lasciano l’isola nella speranza di una vita migliore. La situazione precipita allorché l’Italia firma con gli Alleati l’armistizio dell’8 Settembre 1943. I tedeschi invadono l’isola e prelevano tutti gli Ebrei senza dar loro possibilità di fuga. Destinazione: Auschwitz.
Per diverse circostanze, anche casuali, egli riesce a sopravvivere, ottemperando così a quanto suo padre gli aveva chiesto: “Tieni duro, Sami! Tu ce la devi fare!” Ma quante volte invece avrebbe voluto morire….
Sami, sguardo intenso che suscita commozione profonda mormora: “Ho cercato di morire, ma…..” volge gli occhi al cielo e confessa: “Lui non mi ha voluto…”
Quante domande, quanti punti interrogativi….
Dei quasi ottocento bambini italiani di età inferiore ai 14 anni, egli è tra i 25 sopravvissuti.
Dell’intera comunità ebraica di Rodi, poi, oltre 2000 persone, rimasero solo 33 uomini e 120 donne.
Il ritorno alla vita e il trasferimento in Italia (dove non era mai stato) rappresentano per Sami un percorso assai difficile. Emigra in Congo Belga, dove esercita un’attività commerciale e si sposa, ma corre nuovi pericoli a causa della guerra civile che infuria in quel Paese e la presa del potere da parte di Mobutu. Ritorna così in Italia con la famiglia. Da allora egli trascorre l’estate a Rodi dove si occupa dell’antica sinagoga e della piccola comunità ebraica presente nell’isola; mentre durante l’inverno, in Italia, è impegnato a far conoscere ai ragazzi delle scuole la sua esperienza. Nel 2005 il suo amico Piero Terracina, conosciuto ai tempi della deportazione, lo aveva convinto ad accettare l’invito dell’allora Sindaco di Roma, Walter Veltroni, di partecipare ad un viaggio ad Auschwitz organizzato per gli studenti dei licei romani. “Ritornavo in quel luogo dopo tanto tempo….Durante il viaggio” dichiara “sentivo in me un dolore tremendo, espressione di una ferita che non si rimarginerà mai. Ma avevo con me 300 ragazzi che mi hanno aiutato con la loro commossa partecipazione. Allora ho capito che il mio compito era quello d’impegnarmi a far sì che i loro occhi non vedessero mai ciò che avevo visto io. Questo è il compito che Lui mi ha assegnato” conclude tra la commozione generale che suscita una spontanea e calda standing ovation.
Sami Modiano ha raccontato la sua drammatica esperienza nel volume autobiografico Per questo ho vissuto – La mia vita ad Auschwitz Birkenau e altri esili (Rizzoli, Milano, 2013).
“Quel giorno ho perso la mia innocenza. Quella mattina mi ero svegliato come un bambino. La notte mi addormentai come un ebreo”.
Una storia che è un intrecciarsi di addii e di partenze, nella quale emerge la forte volontà di restare ben saldo alle proprie radici, contro chiunque abbia inteso strappargliele.
Patrick Modiano (Boulogne Billancourt, 1945, romanziere e sceneggiatore) non è presente al conferimento del Premio, ritirato dal suo editore italiano.
Non si tratta di sciocco snobismo; lo scrittore è un personaggio ritroso, molto schivo, tanto che pare sia stato pure difficile convincerlo a ritirare il Nobel per la Letteratura conferitogli lo scorso anno.
Nei suoi romanzi, ambientati spesso nella Parigi occupata dai nazisti e costruiti intorno alla figura dell’esule, dello straniero, i personaggi paiono nascondersi, vivono in una zona grigia, indefinibile, all’interno della città, in perenne fuga da qualcosa che li tormenta: vuoi un’infanzia infelice, vuoi la stessa occupazione. Vuoi un’insaziabile ricerca di vita libera.
Nelle opere è spesso rievocata l’ambigua figura del padre; il quale, pur vittima dei nazisti, riuscì a sfuggire alla deportazione grazie ad amicizie con collaborazionisti.
Significativo è Dora Bruder (uscito nel 1997 con Gallimard e, in Italia, con Guanda, Milano, nel 2011 e 2014). Si tratta della storia di una quindicenne ebrea che, l’ultimo giorno del 1941, scompare da casa; a denunciarlo sono gli stessi genitori con un appello su Paris Soir. A cinquant’anni di distanza L’A. s’imbatte per caso in quella richiesta di aiuto rimasta senza esito: attratto dalla storia di una persona che non conosce, cerca di ricostruirne la vita, le motivazioni che l’hanno spinta alla fuga. Lentamente scopre la storia dei Bruder, segue i passi della ragazza in una Parigi periferica, in un’atmosfera sinistra, la stessa vissuta da Dora per otto mesi, fino a che, riapparsa e scomparsa due volte, ella verrà deportata ad Auschwitz insieme col padre, dove morirà.
Dora ha mantenuto il segreto su questa fuga: quali le motivazioni? Amore o che altro? Non lo sapremo mai. Ma è proprio grazie a questo scatto di libertà che la sua memoria vivrà sempre. Vita contro Morte, come sempre. “Ignorerò come passava le sue giornate”scrive Modiano al termine del romanzo “dove si nascondeva, in compagnia di chi si trovava durante l’inverno della sua prima fuga e nelle poche settimane di quella primavera in cui scappò di nuovo. E’ il suo segreto. Povero e prezioso segreto che i carnefici, le autorità cosiddette di occupazione…non sono riuscite a rubarle”.
MUSICA come poetica espressione di nuovi orizzonti nei rapporti ebraico/cristiani.
Il piccolo, e per questo quanto mai suggestivo, Teatro Estense è riempito dagli spettatori fino all’inverosimile.
In platea non è rimasto un posto a sedere; meglio salire in galleria: tra l’altro la visuale d’insieme è ancor più coinvolgente.
La nostra cultura occidentale musicale è intrisa di Ebraismo e Cristianesimo, ricorda il presentatore dell’evento, Vittorio Robiati Bendaud. Inutile rammentare come, ad esempio, senza la Bibbia non avremmo avuto il Nabucco di Verdi, ma gli esempi sono infiniti.
Tutta la cultura ebraica è imperniata sulla Musica, contemporaneamente ispirando e fecondando l’universo cristiano: la liturgia -pubblica e privata-, i canti sinagogali, i grandi musicisti ebrei lungo i secoli, il klezmer, e quindi il gospel, la tradizione armena, i salmi musicati da Benedetto Marcello, le supreme espressioni di Johan Sebastian Bach (musica splendida, indipendentemente dal fatto che qualcuno lo tacciò di antisemitismo).
La Musica ha un linguaggio tutto suo, ideale per avvicinare popoli e culture. Mons. Luciano Manservisi ne ricorda la splendida immediatezza, in grado di andare al di là delle parole e delle lingue e richiama l’immagine della Pentecoste (Atti degli Apostoli, cap. 2, 1-13) quando le parole di Vita sono udite e comprese dai presenti secondo la lingua e la sensibilità di ciascuno.
La Musica parla direttamente al cuore ed è quindi primo strumento di educazione per le giovani generazioni.
L’evento è costituito da un Concerto a cura dell’Orchestra e Coro giovanile “J. Turolla” dell’Istituto Comprensivo di Ariano Polesine (Rovigo). L’Orchestra è costituita da 69 musicisti, cui si aggiunge il Coro della scuola (35 ragazzi), portando la formazione a 104 elementi. Si tratta dell’ensemble più numeroso (in rapporto alle scuole ad indirizzo musicale) della Regione Veneto e tra le prime orchestre giovanili d’Italia. Si è esibita in sedi prestigiose, tra cui, nel 2012, la “Sala Verdi” del Conservatorio di Milano, un auditorium con un’acustica definita tra le migliori del mondo.
I ragazzi, coordinati da 3 direttori (con diverse competenze) e da un quarto per così dire generale, hanno eseguito bellissime composizioni della tradizione ebraica e cristiana, cantando con professionale intensità in latino, yiddish, ladino, ebraico.
I cinque brani ebraici, composti nel secolo XVIII da parte delle Comunità di Ferrara, Siena, Firenze, ricchi di ritmo, evocativi e coinvolgenti al massimo, fanno parte della cosiddetta collezione di Leo Levi. Questi (1912/1982), personalità assai complessa -sionista, comunista, vissuto tra Italia e Israele- è ricordato anche per il suo contributo come musicologo: con un piccolo registratore analogico (Nagra), negli anni ’50 e ’60 del Novecento, ha registrato, collezionato e “restaurato” la musica tradizionale delle Comunità ebraiche mediterranee -risalente spesso risalente al XVIII secolo- riuscendo anche a recuperare ciò che era stato composto da Comunità distrutte dalla Shoah.
Il frutto di questo meritorio lavoro è un nutrito corpus di circa 1000 brani, ora proprietà dell’Accademia di S. Cecilia in Roma.
Il repertorio cristiano comprende il celeberrimo Ave Verum Corpus di Wolfgang Amadeus Mozart K 618 (composto nell’anno della morte, 1791), l’Ave Maria di J. Arcadelt (1514/1557), variamente ripresa nel tempo da altri autori, e il Canone in Re, Cantata 147, ultimo movimento, di Johann Sebastian Bach (1723).
Applausi a scena aperta e numerose richieste di bis.
Una commovente armonia di suoni, voci, sentimenti, grazie ad una compagnia di ragazzi preparatissimi ed appassionati. Un assaggio di Paradiso.
[1] V. Mio commento in questo sito (maggio 2014) sulla quinta edizione della Festa.