LEYKIN Una vita qualunque

 

Ed. Giuntina, collana Diaspora, 2015, pp. 304, €.15,00

 

“La parola serve per unire passato e presente, ma la parola da sola non basta. Bisogna recuperare la melodia, quella melodia radicata nella tradizione della preghiera e della salmodia. La melodia è forse la parte più profonda di un essere umano perché è la lingua dell’interiorità”

 

Mitia Leykin (ma potremmo chiamarlo pure Mitia Rabin) è un signore prossimo ai novant’anni, vedovo, che vive in una residenza per anziani a Bat Yam, vicino a Tel Aviv. Nato a Kovel (oggi Ucraina), dopo drammatiche vicissitudini, nel 1961 era immigrato in Israele, dalla Polonia, con la moglie e il figlio. Quest’ultimo, di nome Yigal, nato a Leopoli, vive con la propria famiglia in Italia, dove esercita la professione di medico; tra pochi giorni raggiungerà il padre in Israele per festeggiarne il compleanno.

Mitia è un uomo tranquillo, gentile, quasi remissivo -al contrario della mai dimenticata moglie Bussia, tipo battagliero-, ha sempre ritenuto se stesso uno come tanti, che ha vissuto una vita qualsiasi, non particolarmente degna di nota.

La sua esistenza trascorre tranquilla, con un po’ di malinconia e rimpianto, tra la cura del ficus -unica pianta che ha potuto portare con sé dopo che si è trasferito da casa sua, ormai vuota, nella residenza e alla quale si rivolge amorevolmente come ad una persona- e la biblioteca, che si trova all’interno della “casa di riposo”, ricca di libri in tutte le lingue, donati dagli ospiti e dai loro parenti.

Mitia ama camminare e leggere, soprattutto in ebraico -lingua che lo aveva affascinato fin dall’adolescenza, in Polonia, allorché studiava nel rinomato liceo Tarbut, cioè “Cultura”-, ma ritiene di non aver particolari doti di scrittore. Fino a quando….

Il 12 marzo 2009 riceve una telefonata. Una voce di uomo anziano gli si rivolge dapprima in polacco, poi in yiddish, con l’accento tipico di Kovel. Si tratta di Yanek Schwartz, amico degli anni giovanili, compagno di classe di Telinka, l’amata sorella minore di Mitia, della quale questi non ha più avuto notizie dal 1942, ma che spera, in cuor suo, sia ancora viva. Un’ipotesi assurda, che però è una delle sue ragioni di vita, forse la principale.

Yanek vive in Canada ed è venuto in Israele per far visita a sua figlia, residente a Gerusalemme. Egli propone a Mitia di incontrarsi perché, afferma: “Ti devo raccontare la storia di Telinka…Ero lì….” A sentire quel nome magico Mitia prova una fortissima emozione: vorrebbe che Yanek gli raccontasse tutto, su due piedi, al telefono; ma l’altro preferisce un incontro a quattr’occhi dodici giorni dopo, a Tel Aviv.

Terminato il colloquio, per allentare la tensione, egli confida al telefono la notizia al figlio, poi, “come un automa”, estrae dal cassetto della credenza il suo album di fotografie. Un’intera vita.

S’intrattiene, in particolare, su un’immagine che lo ritrae, vestito con l’uniforme dell’esercito sovietico nel 1945 a Berlino, nelle vicinanze della Porta di Brandeburgo, appena terminato il conflitto. Si sofferma sui lineamenti del proprio volto, ritrovando in essi quelli di Telinka. “Una tenera sensazione di calore e di nostalgia mi ha pervaso, spandendosi come un’ondata in tutto il corpo”.

A seguito di quella telefonata e per prepararsi all’emozionante incontro con Yanek nasce in Mitia l’urgenza di riannodare i fili tra il passato e il presente: adesso che è ancora in piena lucidità, prima che tutto svanisca, sommerso dall’oblio e dalla confusione. “Per me e solo per me….Per mettere ordine. Per capire…”

Nei cassetti trova un grande blocco per appunti a righe. Lo appoggia sul tavolo, ne stira con le mani la prima pagina; indi sceglie con cura una biro nera e, dopo averla provata su un pezzo di carta, scrive sul quaderno la prima riga: “ Bat Yam, Israele, giovedì 12 marzo 2009”.

Ne nasce un affascinante, drammatico diario, articolato lungo le successive due settimane, che riempie ben tre quaderni. Dei quali è molto geloso: li nasconde in angoli riposti noti soli a lui, per timore che qualcuno del personale interno glieli porti via o almeno ne legga il contenuto.

A volte non scende nemmeno in sala da pranzo, tanto è concentrato nella scrittura, nel rivisitare col cuore e la memoria i luoghi che gli sono cari: la Magia che si crea in quegli istanti non deve cedere il posto alla Nostalgia di ciò che si è perduto.

Mitia ripercorre la sua intera esistenza, alternando i racconti del passato con la quotidianità.

E riscoprirà se stesso, la propria sensibilità, il proprio essere persona; e di come la sua vita non sia stata affatto banale, ma illuminata da coraggio, affetti, speranze, gioie e tragedie.

Yigal Leykin, medico anestesista, è il figlio di Mitia.

Nato a Leopoli nel 1949, a nove anni si trasferisce con i genitori dall’URSS in Polonia e da lì, tre anni dopo, in Israele. Ha compiuto gli studi universitari a Bologna, Ferrara, Tel Aviv ed esercitato la professione in diversi ospedali italiani e stranieri. Autore di un notevole numero di pubblicazioni scientifiche apparse su prestigiose riviste, è attualmente Direttore del Servizio di Anestesia, Rianimazione e Terapia del Dolore dell’Azienda Ospedaliera S. Maria degli Angeli di Pordenone.

Una vita qualunque, che l’ Editore Giuntina ci presenta, è la traduzione sotto forma di romanzo (ma, in buona sostanza, non vi è nulla di inventato) compiuta da Yigal, dell’appassionante vicenda di suo padre, un importante documento storico -oltre che toccante vicenda umana- che racconta l’epopea di tante famiglie ebraiche vissute tra Polonia, Ucraina, Russia, nella prima metà del Novecento. Comunità intere spazzate via dalla Shoah.

Mitia, l’io narrante, ci parla della sua famiglia, appartenente alla medio-alta borghesia ebraica polacca. Kovel, la città natale, vanta una storia complessa, con continui cambiamenti di sovranità nazionale. “Nell’arco della storia l’area di Kovel” spiega “è paragonabile a un pallone da calcio che viene palleggiato continuamente tra giocatori che portano i nomi di Lituania, Mongolia, Russia, Austria, Polonia, Unione Sovietica, Ucraina…”. Assai suggestiva è la ricostruzione ambientale della Comunità ebraica ivi residente: autonoma e piena di vita, vasta nel numero dei membri; dai 24.000 negli anni Trenta, fino ai quasi trentamila a inizio del decennio successivo, con l’arrivo dei profughi in fuga dall’antisemitismo nazista. C’è ancora buona armonia con i Cristiani; purtroppo però l’immarcescibile odio antiebraico cova sotto la cenere e se ne vedranno le truci espressioni di lì a poco.

Siamo di fronte ad un mondo distrutto dalla Barbarie, un prezioso universo del quale il nostro testo dà intensa testimonianza. Gli edifici ordinati e colorati, i negozi alla moda, i ristoranti, i caffè…

Rilevante è pure l’attenzione dell’Autore alla visione culturale espressa dal liceo Tarbut (“Cultura”, appunto), frequentato, come detto, da Mitia: uno dei primi tentativi, in Polonia, di creare scuole basate sulla moderna cultura ebraica. Non più solo lo studio della Torah e delle preghiere, insegnate da un rabbino, ma un vero e proprio liceo dove, da una parte, si insegnava la rinata lingua di Israele, la letteratura e la storia ebraiche e, dall’altra, l’amore per la Polonia, per la sua storia, per la sua lingua.

Conosciamo la famiglia di Mitia. Il padre Noè Rabin, uomo severo e giusto, un aitante signore proprietario di un negozio di tessuti; la mamma Tanja, donna bellissima, piena di fascino.

Figura di rilievo è il nonno materno, Naum: ricchissimo industriale originario di Berdichev, molto religioso, questi detestava cordialmente il comunismo e il sionismo, evidentemente accoppiati l’uno all’altro (ironie della storia…), ma non disdegnava affatto i libri profani; anzi è proprio questo nonno sapiente ad instillare nel nipote, da lui preferito, l’amore per la lettura.

Poi c’è Telinka, la sorellina minore, bellissima ed affettuosa, la figura intorno alla quale ruota tutta la nostra storia. Telinka, Amore, Speranza.

Quando compie diciotto anni Mitia conosce la verità sulla propria origine: in realtà non è figlio del pacato Noè Rabin, ma di un giovane rivoluzionario russo, Gavril Leykin (a sua volta di origine ebraica), conosciuto da Tanja allorché ella era stata mandata dalla famiglia a S. Pietroburgo per studiare all’Università. Tra lei e Gavril era nato un grande amore, proprio nei giorni della Rivoluzione bolscevica del novembre 1917. I familiari della ragazza si erano ovviamente opposti a questa unione, per loro inconcepibile.

L’intensa passione contrastata vedrà Gavril, qualche tempo dopo, reclamare la ragazza (sposata in segreto precedentemente) e il bambino, nato nel frattempo, ma è cacciato dalla famiglia di lei; mentre Tanja sposerà, su pressione dei suoi, un giovanotto assai più compatibile socialmente, vale a dire Noè, che vorrà bene a Mitia come se fosse figlio suo e lo alleverà insieme a Telinka, nata dal matrimonio con Tanja.

Mitia, indeciso dapprima tra due padri, sentendosi tradito dalla famiglia per il silenzio riservatogli tanto a lungo, finirà per scegliere il nome del proprio padre naturale e questo fatto -per paradosso- gli salverà la vita durante le vicissitudini della seconda guerra mondiale.

Si arruolerà nell’Armata Rossa -dove un generale di grande coraggio ed umanità sarà per lui una sorta di padre adottivo- e combatterà a Stalingrado proprio quando i nazisti massacrano i 20.000 Ebrei di Kovel.

La tragedia della guerra e dello sterminio del suo popolo non fanno però perdere a Mitia la speranza di trovare la sorella scomparsa. Tale speranza è impersonata da Lida, la domestica cristiana che per tanti anni aveva vissuto in casa Rabin, una seconda madre per Telinka.

Il romanzo è un susseguirsi di vicende drammatiche, perdersi e ritrovarsi.

Figure dolci e intense, come Telinka o Bussia, la ragazza russa, proveniente dal Donbass, di origine proletaria che diverrà moglie del protagonista. Compagna fedele, tipo pratico, sa condurre la famiglia in modo sapiente e rigoroso; dapprima in Russia, indi in Polonia e, in seguito, nello Stato di Israele, dove i Leykin si trasferiranno. Per intraprendere una nuova esistenza, con una forte speranza di avvenire. “Siamo tutti uniti da un’intensa proiezione verso il futuro. Indipendentemente dal passato….stiamo avvistando il nostro avvenire” così riflette Mitia quando la nave che li trasporta nella nuova Patria entra nel golfo di Haifa.

Purtroppo, negli anni Bussia finirà per cadere in una terribile depressione, in grado di portarla, giorno dopo giorno, ad estraniarsi dal mondo esterno, fino a morirne.

E Telinka? Il suo amatissimo…fratellone -come lei era abituata a chiamarlo- la ritroverà?

Lascio al lettore la sorpresa della scoperta, in una storia intensamente vissuta perché carica d’amore, con un finale di struggente poesia.

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