(Titolo originale Tarnegol kapparot, 1983, Am Oved, Tel Aviv)
Trad. Shulim Vogelmann, Ed. Giuntina, Firenze, Collana Israeliana, Aprile 2015, pp. 248, €. 15
“ ‘Dobbiamo invertire la piramide’ ripeté con decisione ‘Quale piramide?’ chiesi ‘La piramide del popolo ebraico: convertirlo in un popolo di lavoratori agricoli’ ”
“ ‘Anch’io ho abbandonato il mio vecchio mondo’ ”
In un’epoca, come l’attuale, caratterizzata da ondate migratorie senza precedenti, di fronte alle quali le classi politiche europee faticano ad elaborare soluzioni davvero efficaci -almeno per il medio periodo-, con conseguenti questioni relative al dramma dello sradicamento dalla propria cultura d’origine da parte delle popolazioni immigrate, assume sapore particolarmente significativo (pur nell’evidente totale diversità dei contesti) E’ questa la terra promessa?, romanzo uscito in Israele nel 1983 col titolo di Tarnegol kapparot, alla lettera: Gallo espiatorio. Il termine rimanda ad un antico rituale in uso presso alcune comunità ebraiche ortodosse orientali. Il giorno prima dello Yom Kippur i peccati di una persona sono trasferiti simbolicamente su un volatile (gallo o gallina), che, ucciso, viene roteato tre volte sulla testa, recitando nel contempo una breve formula; indi l’animale è mangiato dai fedeli o distribuito ai poveri.
L’opera è divenuta sia un classico della letteratura israeliana, tanto che la lettura ne è consigliata dal locale sistema scolastico, sia, nel prosieguo, una fortunata serie televisiva.
Ora viene proposta ai lettori italiani dall’ Editore Giuntina con la traduzione di Shulim Vogelmann.
L’Autore è Eli Amir. Nato a Bagdad nel 1937, ha compiuto l’aliyah con la famiglia nel 1950, come altri centomila ebrei iracheni, cacciati, come altri Ebrei mediorientali, a seguito della fondazione dello Stato Ebraico, dalle terre nelle quali essi risiedevano da tempo immemorabile. In quegli anni infatti ne giunsero in Terra Promessa oltre 130.000, ospitati nelle cosiddette ma’abarot (campi di transito, il numero totale fu di 125), i quali andarono ad aggiungersi agli altri 90.000 profughi già presenti. Le condizioni di vita non erano certamente delle più facili: gli ospiti, sistemati in tende, dovevano, per fare un esempio banale, condividere i servizi igienici a loro disposizione, numericamente insufficienti rispetto all’alto numero dei nuovi arrivati.
Amir ha poi vissuto nel kibbutz MishmarHaEmek e, in seguito, ha compiuto gli studi presso l’Università di Gerusalemme, laureandosi in Storia del Medio Oriente e Letteratura ebraica. E’ stato consulente del Primo Ministro per gli Affari arabi e inviato negli Stati Uniti dal Ministero dell’assorbimento degli Immigrati, nonché, a partire dal 1984, direttore generale del Dipartimento dell’Immigrazione giovanile presso l’Agenzia Ebraica. E’ conosciuto per il suo impegno nelle problematiche dei nuovi immigrati, per la giustizia e l’uguaglianza dei cittadini arabi d’Israele e per l’attività svolta nell’ambito delle relazioni tra Israeliani e Palestinesi. Vincitore di prestigiosi premi letterari e laureato ad honorem presso l’Università di Tel Aviv, ha pubblicato, oltre al presente, quattro romanzi di successo, tra i quali Jamine, tradotto in italiano e uscito con Einaudi nel 2008.
Caratteristica preziosa di Amir -che condivide con altri Autori, come Sami Michael, qui più volte recensito[1]- è di essere una figura di confine, una persona che riassume in sé l’esperienza ebraica e l’esperienza araba, in una sintesi di vissuti diversi, caratterizzata da altissimo sentire, ben lontana dal fuorviante ed appiattente multiculturalismo.
Protagonista -con chiari riferimenti autobiografici – e voce narrante del romanzo è Nuri, un ragazzo nato a Bagdad da una famiglia della media borghesia; infatti il padre, nel Paese d’origine, svolgeva la professione di avvocato. L’adolescente viene mandato dai genitori -che vivono, insieme a tanti altri connazionali, all’interno di una ma’abara, non certo capace di garantire un futuro- in kibbutz, la ben nota fattoria collettiva, autentica ossatura dello Stato Ebraico. Ciò allo scopo di fare di lui un vero israeliano.
Il kibbutz, l’esperimento sociale “più audace e affascinante del ventesimo secolo” (così Shimon Peres nell’illuminante prefazione) si trovava allora nel suo periodo d’oro: la ragion d’essere era la costituzione di un nuovo ebreo, creatore di una nuova cultura, una sorta di pioniere, agricoltore ed intellettuale al tempo stesso. Pensiamo a certe significative immagini fotografiche, un po’ “seppiate”: giovani assorti nello studio dopo una giornata passata all’aperto nei campi.
Poiché Nuri proviene da un ambiente mediorientale -la sua lingua materna è l’arabo-, religioso, tradizionalista, nel quale la famiglia, o meglio il clan, riveste importanza fondamentale, l’impatto con un mondo del tutto opposto, laico, nel quale, tanto per cominciare, uomini e donne vivono in una condizione del tutto paritaria, è sconvolgente. La sorpresa della vita comunitaria con ferree regole; la “pulizia scintillante”; i rapporti informali tra le persone, coniugati con un duro lavoro fin dalle prime ore del mattino. Alcune situazioni, poi, appaiono misteriose al protagonista: i bambini, dove sono finiti? Come mai non stanno coi genitori?
Doloroso e fatale lo scontro. Tra i “veterani di Israele”, giunti magari solo pochi anni prima, per lo più da Paesi dell’est Europa, mentre il loro passato di dolore e morte è ancora fresco, e i nuovi arrivati, trattati con sufficienza dai primi. “Locali” contro “Arabucci”, questi sono gli appellativi che i due gruppi si scambiano.
Il romanzo racconta la storia della maturazione di Nuri, dello sforzo fisico, ma soprattutto psicologico, per acquisire la nuova identità. Il nostro ragazzo lotta fin dal primo giorno sottoponendosi ad immani fatiche, talvolta non apprezzate dai responsabili del kibbutz (Kiryat-Oranim, così si chiama), né comprese da certi compagni, iracheni come lui, i quali hanno gli occhi fissi su un passato mitico che non tornerà più e non accettano di voltar pagina, pur rendendosi inconsciamente conto che un’alternativa a Eretz Yisrael non può esserci; men che mai essa può consistere nella miseria morale e materiale di una ma’abara. Perché, tra l’altro, la ma’abarà non ha nulla a che spartire con i gloriosi, bei tempi di Bagdad, tramontati per sempre!
La prosa dell’Autore, semplice e suggestiva al tempo stesso, ti fa conoscere, e riconoscere, questo nuovo Paese appena nato, seppure antichissimo.
“ Man mano che le case si diradavano, i pini si moltiplicavano. Giovani e verdi….la calma e il mistero di un bosco” oppure “C’era una calma pomeridiana nell’aria…come in risposta a un segnala prestabilito, corremmo tutti verso un albero di susino accanto alle case su cui ci buttammo come uno sciame d’api”.
Ma non mancano i quadretti, intrisi di nostalgia, del vecchio mondo lasciato da poco. Come il ritratto, evocato da un canto, di zio Naim, figura mitica nell’infanzia di Nuri. “Era molto bello, sempre sorridente, da far sciogliere i cuori con le sue labbra da canaglia, elegante nel vestire, una sciarpa di seta avvolta con noncurante eleganza intorno al collo lungo”.
Diversi personaggi popolano la storia. Vediamone alcuni. Ma il lettore ne scoprirà tanti altri, man mano che procede nella narrazione.
Yishai. Uomo socievole, con la battuta pronta, ai (numerosi) momenti di crisi nel gruppo dei nuovi arrivati, reagisce con la calma tipica di uno “degli anziani di Bagdad”. Non lesina una pacca affettuosa sulla spalla di chiunque incontri; ma, nei rari momenti di stanchezza, il sorriso dei suoi occhi è velato da profonda malinconia. Tutta la sua famiglia è stata uccisa nella Shoah, tranne una zia che ogni tanto gli fa visita.
Dolek. Il vero pioniere sionista. “Studiavo chimica a Varsavia. Ho abbandonato gli studi per emigrare in Israele”, dove è divenuto un esperto in…letame. “Se ci sarà abbondanza di letame, i saranno buoni frutti e verdure” afferma con logica ferrea. Anche Dolek ha una storia personale tragica alle spalle.
Più vicina e cordiale, pure lei severa a volte, una sorta di consigliera e sorella maggiore, è l’affascinante Sonia, moglie di un importante ufficiale dell’esercito. Comprende molto bene le difficoltà di adattamento di Nuri poiché anche lei le ha vissute, pur all’interno di una storia differente: “I nostri figli sono diversi da noi”, ammette ad un certo punto; cioè, essi sì sono autentici sabra, nati nella nuova Patria.
Come significativi sono i ritratti dei compagni, iracheni, che non intendono perdere tradizioni e cultura di nascita: vogliono imporci la “loro” (leggi Mozart o Beethoven) Musica, protesta qualcuno, e disprezzano le melodie orientali (il che è vero solo in parte….)! O invece chi, come Laila, figlia del chazan (cantore della sinagoga) Moshe Delaal, getta con entusiasmo i colorati abiti tradizionali e indossa con piacere i calzoncini in uso nel kibbutz: Nili-pantaloni è il soprannome con cui è conosciuta da tutti. Si sposerà con un giovane locale, Zvika, dopo aver portato uno scompiglio non indifferente nella famiglia d’origine.
Le difficoltà di adattamento, le incomprensioni, cui si accompagneranno le inevitabili delusioni amorose, faranno del protagonista un uomo: da Nuri a Nimrod, come lo aveva ridenominato Sonia all’inizio, verso una vita nuova. Questa è la sua strada, pur portando egli nel cuore le lacerazioni derivanti dall’insanabile contrasto tra lo “Ieri” e l’ “Oggi”. L’ultimo capitolo -dedicato emblematicamente al “gallo espiatorio”- tratta in modo poetico, ma esaustivo, del contrasto insanabile tra il mondo laico con lo sguardo in avanti di coloro che vivono in kibbutz e la realtà conservatrice (pur così pittoresca!) dell’ambiente di provenienza, il quale rifiuta tutto ciò che il nuovo Stato comporta; rifiuto, talvolta, striato di assurdo.
Un testo prezioso, schietto, spesso commovente, utile per le problematiche trattate; significativo nel raccontare i mille volti di un Popolo e di una Nazione.
[1] V. commenti a Rifugio, ottobre 2008; e a Tempesta tra le palme, ottobre 2009, su questo sito.