WOMAN in Gold

 

(Titolo originale Woman in Gold,  U.S.A., Gran Bretagna, 2015; Genere: Drammatico)

 

“Eccola qui: mia zia Adele, ritratta da Gustav Klimt……..La gente vede il capolavoro di uno dei più grandi artisti austriaci; ma io vedo soltanto mia zia, una donna che mi parlava della Bellezza e della Vita

“Se sarà resa giustizia al passato, non saremo venuti qui invano”

“….è come un film di James Bond e Lei è Sean Connery!”

Non è desiderio di un’avventura fuori del comune, approfittando degli ultimi anni (forse!) di buona salute, a spingerla di nuovo nei luoghi della sua giovinezza, dai quali, in quanto ebrea, era stata costretta a fuggire nel 1938, subito dopo l’Anschluß.

Maria Altmann è un’arzilla ottantenne di origine viennese, titolare di un negozio di abbigliamento a Los Angeles, madre di quattro figli e vedova da qualche tempo dell’amato marito Fritz.

Subito dopo la morte della sorella maggiore (siamo nel 1998), rovistando nelle carte di quest’ultima, Maria rinviene l’immagine fotografica di un quadro celebre: il ritratto di Adele Bloch Bauer, loro zia materna, eseguito a Vienna nel 1907 dall’illustre pittore Gustav Klimt.

KLIMT

Il dipinto aveva adornato a lungo le pareti della dimora di famiglia insieme ad altri capolavori fino al giorno in cui i nazisti, giunti al potere, li avevano tutti razziati.

Il fascino dell’opera in questione (Olio e oro su tela, 138 x 138 cm) risiede non solo nel volto enigmatico della signora, ma anche nello sfondo: un prato dorato e cesellato di una fitta decorazione a foglia d’oro avvolgente tutto il corpo. Gli elementi naturalistici (volto e mani) sembrano confondersi coi motivi ornamentali -quadrati, triangoli, strani occhi- di cui è composto l’abito di lei; e richiamano l’arte bizantina (Klimt conosceva di persona i mosaici ravennati), ma pure egiziana, da cui deriva l’Ugiat, occhio sacro e fonte di fluido magico.

Klimt Adele

Adele Bauer apparteneva ad una facoltosa famiglia ebraica che si occupava di finanza. Il matrimonio con Ferdinand, figlio del barone Bloch, uno dei più rilevanti produttori di zucchero al mondo, la portò all’apice della società viennese. Ella era pure persona colta e sensibile, il cui salotto ospitava tutta l’élite culturale della capitale austriaca: Freud, Mahler, Schönberg e, appunto, Gustav Klimt, massimo rappresentante della cosiddetta Secessione (Sezessionstil). Il sodalizio tra Adele e Gustav -forse pure sentimentale, poiché alcune figure femminili immortalate dal pittore la ricordano- durò circa dodici anni e fu espressione di quel contesto ricco di fermenti interdisciplinari tra fine Ottocento e inizio Novecento, rimasto unico; la “società feacia”, per dirla con Claudio Magris.

La donna muore, ancor giovane, di meningite, nel 1925; il pittore si era spento sette anni prima.

BLOCH BAUER Adele

Nel 1938, Adolf Hitler ghermisce l’Austria.

I nazisti, dopo aver rubato l’opera ai Bloch Bauer, l’avevano, per così dire, arianizzata in “Donna in oro” per nascondere che la persona ritratta era ebrea, come del resto avevano fatto con gli altri beni di Ferdinand e congiunti.

Tanti capolavori ed oggetti preziosi furono distrutti, ma altri divennero preda dei nuovi padroni, i quali se, per un verso, maledivano la cosiddetta entartete Kunst, in quanto contraria ai valori dominanti, per un altro essa esercitava su di loro un fascino irresistibile. Come tutta l’arte precedente, del resto. Pensiamo, ad esempio, all’autentica ossessione che rappresentava per Hitler il celebre Astronomo di Jan Vermeer (1668).

Per non parlare di certi monili. La collana che, nel ritratto, figura al collo di Adele e che la giovane Maria aveva indossato il giorno delle nozze con il tenore Fritz Altmann,  era finita nientemeno che alla moglie di Hermann Göring.

L’amore per la Cultura e per l’Austria avevano indotto Adele a esprimere, come ultima volontà, che il prezioso ritratto fosse lasciato, dopo la propria morte, al Museo del Belvedere in Vienna.

Per l’esattezza: dopo la morte di Ferdinand, avvenuta nel 1945 (la coppia non aveva figli).

Ma i nuovi padroni dalla croce uncinata, come sappiamo, erano stati assai più rapidi, utilizzando i consueti sistemi.

Al termine del conflitto, complici l’intricata posizione dell’Austria, occupata fino al 1955 dall’Unione Sovietica, e il fatto che nessuno si fosse presentato a reclamare il quadro, l’opera era rimasta al Museo del Belvedere, dove pure chi scrive ha potuto ammirarla nel 1983.

D’altronde, sarebbe stato inimmaginabile che colei che era denominata la “Monna Lisa austriaca” potesse venir restituita ai legittimi proprietari, per di più residenti da tempo in uno Stato estero.

Il Louvre restituirebbe all’Italia il più affascinante capolavoro di Leonardo?

Ma simili, banali, considerazioni non interessano a Maria Altmann. Il Passato, soltanto rimosso peraltro, si riaffaccia prepotente nella sua esistenza ed ella prende una sofferta decisione: ritornare in possesso del quadro quale, sia pur parziale, risarcimento per le sofferenze subite e per la vita che le era stata sottratta, insieme agli affetti più cari. Non può però muoversi da sola: anzitutto le serve una persona in grado di districarsi in quel labirinto di leggi, commi, disposizioni varie, trabocchetti giuridici. Un legale sveglio, in parole povere.

Si confida con un’amica, Frances Schönberg, nuora del grande compositore Arnold, “padre” della musica dodecafonica -anch’egli ebreo viennese (1874), combattente, come soldato semplice, nella Prima Guerra Mondiale, ma costretto, a sua volta, ad emigrare negli U.S.A., dove morirà, nel 1951-. Frances è madre di un avvocato, Randol (Randy). Questi è un giovane valente, alle prese con le difficoltà della professione, sposato e recente padre di famiglia.

Maria ha un intuito speciale: comprende subito che il più adatto per aiutarla nella realizzazione del suo disegno è proprio quel ragazzone occhialuto, dall’aria un po’ imbranata (ma è solo apparenza), sulle prime per nulla attratto dalla prospettiva di intraprendere una causa -richiedente in sé energie a tempo pieno- che chiunque, col comune buonsenso, nemmeno inizierebbe; come il suo principale di studio gli fa notare senza tanti complimenti.  E, per soprammercato, con quella signora che ascolta poco e vuol sempre fare di testa sua!

Ne segue un’avventura fuori del comune, durata circa un decennio, un complesso legal thriller legato al tema del recupero e restituzione delle opere d’arte dopo le vicende belliche. Un argomento che, da tempo, appassiona letteratura e cinema [1] .

Nel 2012 esce negli U.S.A. (Ed. Alfred Knopf, New York) “The Lady in Gold: The Extraordinary Tale of Gustav Klimt’s Masterpiece, Portrait of Adele Bloch-Bauer”, interessante saggio di Anne-Marie O’ Connor, la quale descrive molto bene non solo la storia del quadro, ma, in primo luogo,  l’ambiente in cui esso fu concepito: i fermenti culturali, i cambiamenti che due figure quali Adele Bloch Bauer e Gustav Klimt cercavano di introdurre in una società variegata, ma, per diversi aspetti, ancora conservatrice.

The Lady in Gold

E’ in questi giorni nelle nostre sale il film Woman in Gold, diretto da Simon Curtis, regista e produttore britannico.

La pellicola ci racconta non solo l’affascinante storia di un capolavoro, ma soprattutto entra nel cuore di Maria, interpretata da Dame Helen Mirren. La grande attrice inglese ne rende con estrema efficacia tutte le sfumature del carattere: tagliente ironia, rimpianto, ansia di giustizia, intenso legame con la propria famiglia.

E forte coraggio morale. A cominciare dalla decisione di ritornare a Vienna per far valere i propri diritti, accompagnata da Randol. Si stupisce di se stessa: mai avrebbe pensato di rivedere la città dalla quale aveva dovuto fuggire col coniuge, quale ebrea, e costretta a lasciare al loro destino gli adorati genitori Gustav e Therese.

Alcune doverose precisazioni. Nel 1998 l’Austria firma una Convenzione internazionale per la restituzione ai legittimi proprietari delle opere confiscate dai nazisti e istituisce apposita Commissione.

Il, sia pur temporaneo, ritorno nella città di origine fanno balzare agli occhi e al cuore della protagonista le immagini di un tempo lontano, mai peraltro dimenticato.

Quanti ricordi custodisce l’elegante palazzo, al centro di Vienna, dove, in un vasto e lussuoso appartamento, vivono Ferdinand Bloch -con la moglie Adele- e il fratello Gustav con la propria famiglia, moglie e due figlie! Due fratelli avevano sposato due sorelle e la bellissima, un po’ misteriosa, Adele è una sorta di seconda mamma per le nipoti; specie per Maria.

Il film sa alternare con precisione e sensibilità il Passato col Presente.

Hitler accolto lungo i viali di Vienna da folle osannanti…

L’umiliazione dei cittadini ebrei, costretti in ginocchio a pulire le strade con spazzole, mentre, all’intorno, la popolazione ride ed applaude.

Maria ritorna davanti alla farmacia dove era andata, tanti anni prima (Maria ventenne è la canadese Tatiana Maslany), col pretesto di acquistare un farmaco per il padre malato, convinta di sfuggire alla sorveglianza della Gestapo, che piantona la loro casa.

Il farmacista, sulle prime, pare disponibile ad aiutarla, poi, mentre la ragazza, col marito (Max Irons, figlio di Jeremy), già nascosto nel retro negozio e in attesa, cerca di scappare attraverso ripostigli e cantine, si precipita ad avvertire uno dei poliziotti (tra quelli installatisi nell’abitazione dei Bloch Bauer), il quale, non fidandosi, aveva seguito Maria. Corse disperate, terrore, rabbia….Rocambolesca fuga.

Prima ancora, il tragico addio ai genitori, disarmati e rassegnati al peggio.

Al contrario del fratello Ferdinand, vedovo di Adele, riparato ben presto in Svizzera, Papà Gustav aveva cercato fino all’ultimo di mantenere una parvenza di vita normale, nella casa di famiglia, insieme con i congiunti. Riteneva fuori di ogni logica e morale lasciare tutto ciò che aveva di più caro al mondo.

Il momento in cui egli, in occasione del suo ultimo Shabbat, prende tra le braccia l’amato (violon)cello e inizia a suonarlo, alla presenza di moglie e figlia, è tra i più toccanti del film.

Indovinatissima e densa di significato la scelta di lasciare l’originale in tedesco -con sottotitoli- nei dialoghi che emergono dai ricordi di Maria.

La Commissione per la restituzione ai legittimi proprietari delle opere confiscate dai nazisti cui accennavo sopra, implacabile, respinge il ricorso, presentato dalla Altmann e dal suo legale, con la seguente motivazione: l’opera era stata donata al Belvedere, istituzione culturale austriaca, per volontà scritta di Adele Bloch Bauer.

Inconcepibile poi sarebbe per la ricorrente adire l’Autorità giudiziaria austriaca ordinaria contro tale decisione: ciò avrebbe comportato il versamento di una somma iniziale altissima, della quale la donna non dispone; ma sarebbe stata, in definitiva, un’azione senza alcuna possibilità di successo. “Quel quadro è troppo importante per il governo austriaco” tuonano i funzionari preposti.

Ma… “Non gli consentirò di umiliarmi di nuovo” proclama lei. Mite all’apparenza, può permettersi perfino battutine ironiche sulla Torta Sacher, ma è decisa ad andare fino in fondo.

E pure Randol (interpretato con finezza psicologica dal canadese Ryan Reynolds) è coinvolto sempre di più in una vicenda in grado di insegnargli molto della vita.

Altra scena di forte impatto emotivo si svolge infatti nella Judenplatz di Vienna. Si tratta della piazza centrale del quartiere ebraico medievale, raso al suolo verso il 1420 allorché i membri della locale comunità (ebraica) vennero in parte espulsi, in parte uccisi sul rogo, la cosiddetta Gesera viennese. Al centro, dove si affacciano palazzi per lo più barocchi o ottocenteschi, sorge, in forte contrasto, il Memoriale alle vittime austriache della Shoah, opera di Rachel Whiteread (2000): un grande parallelepipedo in cemento bianco, di circa m. 10 X 3, che vidi nell’estate 2002.

L’opera rappresenta una biblioteca chiusa  in cui i libri porgono il proprio dorso verso l’interno: questo per simboleggiare tutte le storie dei 65.000 ebrei austriaci uccisi durante il regime nazista, che non è mai stato possibile raccontare. Ma l’invito di Whiteread è di aprirla, quella biblioteca! Per scardinare altri progetti di morte che si affacciano, oltre che rendere omaggio a chi non c’è più.

judenplatz

Sulle piastrelle del pavimento, tutto intorno al Memoriale, sono riportati i nomi dei luoghi in cui essi trovarono la morte. Tra questi luoghi Randol legge quello in cui perirono i suoi bisnonni, cioè i genitori di Arnold Schönberg, e recupera la propria complessa identità: egli è sì americano, ma pure, e non meno, viennese ed ebreo.

E la ricerca di Maria diventa, a pari intensità, la sua.

Grazie all’aiuto prezioso di un giornalista (giovane di famiglia, per così dire, problematica, ben reso da Daniel Brühl), i due compiono una ricerca a tappeto negli archivi viennesi: da essa emerge che i quadri di casa Bloch, compreso il ritratto di Adele, non erano di proprietà di quest’ultima, bensì del marito; e quindi la disposizione di lei sul destino dell’opera al Museo del Belvedere era priva di valore giuridico.

Per non lasciar nulla d’intentato avvocato e cliente decidono di adire le corti giudiziarie americane; ciò in base ad un “cavillo”: il Belvedere è sì un’istituzione austriaca, ma che commercializza negli USA riproduzioni di Klimt. La questione finisce, dopo qualche tempo, davanti alla Corte Suprema degli U.S.A., la quale conclude, in linea di principio, per l’ammissibilità della causa (Maria Altmann contro Austria). Posizione che contrasta con quella del governo degli USA il quale teme l’inizio di una serie di controversie internazionali senza fine.

Segue un’intensa trattativa extragiudiziaria. Randol Schönberg propone che il Belvedere si tenga pure il dipinto (insieme ad esso ve n’erano altri cinque, di Klimt), ma, in cambio, riconosca che essi erano stati sottratti con la forza e garantisca un’ingente somma al proprietario, a titolo di risarcimento.

Protesta della controparte: queste opere sono legittimamente nostre! Dichiarano gli arroganti viennesi, i quali, poco dopo, restano sorpresi di fronte alla mossa escogitata quel testardo legale statunitense: egli propone un arbitrato vincolante, da tenersi in Austria. I funzionari accettano sicuri che la controparte si stia cacciando da sola in un vicolo cieco. Ma…sorpresa!

I tre arbitri nominati decidono, all’unanimità, che i dipinti vanno assegnati agli eredi, cioè all’unica erede, la Signora Maria Altmann: forse a persuaderli è il fatto che le opere non erano state donate, quanto sottratte con la violenza. L’Austria ha sempre recitato il ruolo di vittima del  nazismo. La restituzione dei quadri -tra cui un secondo ritratto di Adele, raffigurata come una raffinata dama alto borghese, assai diverso dal primo!- avrebbe potuto ridarle, sia pure in parte, la perduta verginità.

ALTMAN Maria

Giunta negli USA, la “Donna in oro” è stata venduta, nel 2006, al magnate dei cosmetici Ronald Lauder (figlio della celeberrima Estée) per una cifra pazzesca: 137 milioni di dollari!

Con la condizione peraltro di venir permanentemente esposta al pubblico. Lauder ha quindi destinato il quadro alla Neue Galerie, un piccolo museo di arte austriaca e tedesca a New York.

Maria, che aveva devoluto il ricavato per sovvenire alle necessità dei parenti bisognosi, muore a 94 anni nel 2011.

All’Avv. Randol Schönberg spettava il 40% del valore stimato.

Il suo è oggi lo studio legale più quotato al mondo in tema di recupero delle opere d’arte rubate dai nazisti (da calcoli approssimativi pare siano oltre 100.000….).

Il lavoro non manca!

Il film, pieno di colpi di scena, ottimamente ambientato e recitato, ci racconta, come spiega in modo perspicuo il regista, che cosa si nasconda dietro l’antisemitismo. Non tanto una pura e semplice ideologia, sia pure aberrante, quanto un preciso programma di annientamento dell’Essere umano, della sua Identità, della sua Storia.

Un programma che, nella prima metà del Novecento, rischiò di essere realizzato in pieno.

Oggi, a 70 anni di distanza, l’antisemitismo nel nostro continente ha raggiunto livelli ritenuti, fino a poco tempo fa, inimmaginabili. Il tutto nella complice indifferenza della cosiddetta opinione pubblica. E’ un’Europa che “sta morendo perché è diventata moralmente incompetente” così dichiara, sul Wall Street Journal di alcuni giorni fa, Bret Stephens. E rileva come sia fuorviante affermare che gli europei non credono più in nulla. Credono in un sacco di cose, invece: nella “tolleranza, nei diritti umani, nella tutela dell’ambiente”, nonché nella pace perpetua raggiunta senza sacrificio alcuno, non sparando un colpo, aggiungo. Magari falsificando dati di fatto sotto gli occhi di tutti. Il “politicamente corretto”, veleno mortale, è in grado, da questo punto di vista, di compiere miracoli.

Ma gli europei credono, prosegue il giornalista, in modo superficiale, poiché hanno rimosso (o meglio rigettato nei fatti e pure nelle parole) ciò da cui tali convinzioni scaturiscono; cioè la tradizione ebraico/cristiana -corroborata dalla filosofia greco/romana, mi permetto di chiosare- con “tutto il suo portato in termini di libertà e capacità di costruire una società prospera”. Così osserva, in un editoriale de il Foglio (21 ottobre scorso), il Direttore, Claudio Cerasa. Il quale amaramente riflette: “Qualche malconcia infiorescenza dell’uomo europeo è rimasta, ma le radici si sono inabissate, e quando si tratta di tracciare linee di demarcazione chiare -vedi politiche per l’immigrazione- l’Europa non ha la competenza morale per decidersi”. E in questo, paradossalmente, anche le Chiese, a cominciare da quella cattolica, hanno la loro fetta di responsabilità; da precedenti esperienze pare che esse abbiano imparato pochino, anzi nulla. Ma guadagnarsi il favore di coloro che si è deciso essere la parte forte è tentazione irresistibile per le alte gerarchie. L’eroismo lasciamolo ad altri; caso mai, a tempo debito, si provvederà con cerimonie di beatificazione, sicura fonte di lucro. Non si immagina che dette cerimonie, andando di questo passo, potrebbero perfino divenire impossibili.

L’antisemitismo riemerso in Europa -vitale, incontrastato, ricco- è espressione chiara di tale incompetenza; non è causato affatto dalla pur dura e incontrastata immigrazione musulmana; quest’ultima ne è caso mai conseguenza.

A proposito di galoppante odio antiebraico e di BDS, così gratificante per tanti cosiddetti uomini di cultura dei campi più diversi (addirittura, di fatto, alcuni israeliani, cui ha finito per mancare qualsiasi dignità), spicca la posizione di Helen Mirren.

Premiata in questi giorni a Los Angeles al Festival del Cinema Israeliano, assieme allo sceneggiatore ebreo americano Aaron Sorkin, ella, nel suo discorso sul palco e durante le interviste ai media, ha rilasciato alcune dichiarazioni controcorrente e quindi  interessanti in merito allo Stato ebraico e alla sua esperienza nel Paese. Una posizione anticonformista in generale, ma pure assai coraggiosa, tenuto conto dell’opposto orientamento espresso da diversi colleghi, in specie britannici come lei.

“La grande cosa che Israele ha sono gli israeliani” ha specificato esprimendo il suo sostegno a Israele, dopo aver ricevuto un premio alla carriera durante la manifestazione. Il sito Ynet ha raccontato come Mirren, in occasione del premio, ha riassunto la sua esperienza in Israele, quando nel 1967, poco dopo la “Guerra dei Sei Giorni”, visse nel kibbutz Ha Gaon assieme al suo ragazzo ebreo, girando in autostop per il Paese, da nord al sud, Eilat e altri itinerari. “Stamattina stavo pensando a Israele e al mio splendido rapporto con questo bellissimo Paese –  ha detto l’attrice nel suo discorso. – La visita  a Israele in quei suoi primi anni è una di quelle tappe fondamentali della mia vita, ciò che mi ha resa ciò che sono e l’attrice determinata che intendo essere sempre“. Durante la cerimonia ha poi aggiunto che «parlando di Israele, i suoi punti forti sono stati il coraggio e la determinazione della gente del kibbutz, che fortunatamente ho incontrato. Amo Israele e penso che sia un grandissimo Paese. Penso a tutte le sofferenze patite dalla popolazione in passato e alle difficoltà presenti e future. Sono molto impressionata anche dall’industria cinematografica israeliana. È un Paese bellissimo, pieno di immaginazione, creatività e di coraggio con gente molto profonda [sic!] e incredibilmente determinata. Sono stata a Tel Aviv – ha continuato – una città splendida, piena di negozi e attrazioni, con un cibo buonissimo e una bella spiaggia. Amo Israele da molti punti di vista, è un posto importante nel mio cuore, ci sono stata tre volte e mi piacerebbe tornarci ancora, lo sosterrò sempre e lotterò contro il boicottaggio“.

 

Il nostro film parla di capolavori artistici, di élites alto borghesi, di tragedie (all’apparenza) lontane, ma il messaggio che trasmette è attualissimo: lottare, a costo di passare per visionari, fino all’ultimo per Se Stessi, per la Vita, per la Bellezza.

 

 

 

 

 

Una panoramica di capolavori di Klimt, accompagnata dalla musica di Beethoven cui il pittore rese omaggio con il “Fregio” che possiamo ammirare a Vienna  nel palazzo della  Sezession.

 

 

[1]  V., a tale proposito, i commenti, su questo sito, a: Anna MITGUTSCH, La casa della nostalgia, Giuntina, 2009 (Agosto 2009); Edmund DE WAAL, Un’eredità di avorio e ambra, Bollati Boringhieri, 2011 (Novembre 2011), e stesso Autore, Titolo ed Editore, versione illustrata, Dicembre 2012; nonché, per quanto concerne il cinema: George CLOONEY, Monuments Men, Febbraio 2014.