(Titolo originale Saul Fati, Ungheria, 2015; Genere: Drammatico)
“…un Rabbino…….”
Autunno 1944. Saul Ausländer -cognome emblematico: significa straniero- è un ebreo ungherese prigioniero in un campo di sterminio, di cui non ci è rivelato il nome, ma possiamo immaginare dalla vicenda che si tratti di Auschwitz-Birkenau. Nella storia si parla infatti di un evento storicamente accadutovi. Il 7 ottobre 1944 un gruppo di deportati uccise 3 SS e fece saltare un forno crematorio. Gli Ebrei imbracciarono con coraggio le armi -altro che “pecore al macello”, come dicono le”vulgate”…-, ma furono purtroppo sopraffatti .
Saul viene reclutato tra i Sonderkommando, gli speciali gruppi di deportati obbligati a collaborare con le autorità naziste: il loro principale compito era di rimuovere i cadaveri dalle camere a gas, dopo aver con cura tolto dai ganci gli abiti che le vittime avevano lasciato prima di entrare nelle…docce, provvedere alla cremazione dei corpi e alla successiva dispersione delle ceneri.
Essi furono presenti, oltre che ad Auschwitz: a Sobibor, Treblinka, Majdanek e Belžec; si trattava erano per lo più di giovani ebrei scelti all’arrivo per la robusta costituzione, adatti per il terribile lavoro che avrebbero svolto.
Ad Auschwitz furono impiegati fino a circa un migliaio di uomini. Essi vivevano in appositi settori dei campi (erano soprannominati i custodi dei segreti, Geheimnisträger), ricevevano maggiori quantità di cibo, migliori vestiti; e pure bevande alcooliche per sopportare l’orrendo compito a cui erano destinati. Ciclicamente venivano sostituiti da altri deportati per essere, a loro volta, uccisi; ciò anche perché doveva restare segreto ciò che essi facevano.
Ma un giorno il gruppo, cui Saul appartiene, decide di ribellarsi prima che venga stilata la lista dei nuovi arrivati, condannando così loro, definitivamente, a morte.
L’attenzione dell’uomo è però attirata da qualcosa cui, ad un primo istante, non crede. Nel radunare i cadaveri per la cremazione, si accorge che, tra loro, un ragazzino è ancora vivo, pur respirando a fatica.
Saul è stupefatto, vorrebbe fare qualcosa….non sa nemmeno cosa, ad un primo istante; subito sopraggiunge un medico nazista che sopprime il moribondo, probabilmente con un’iniezione letale o per soffocamento -la scena si svolge sullo sfondo e si fatica a comprenderla-.
Il piccolo allora diviene, nel cuore dell’uomo, SUO FIGLIO, il figlio tanto amato cui assicurare degna sepoltura: in terra, come richiede la legge ebraica -la quale, tra l’altro, non ammette la cremazione-, avvolto in un lenzuolo e con la presenza di un rabbino che reciti il Kaddish per la sua anima.
Salvare quel corpo dalle mani dei dottori -uno dei quali però, un prigioniero come lui, riesce a comprendere le sue motivazioni, l’unico nel campo-, trovare, tra i tanti deportati, un rabbino e realizzare il fine che si è imposto divengono ragione di vita per lui, al punto da fargli trascurare l’aiuto ai compagni nel loro piano di ribellione e fuga (come detto, sono i membri di un Sonderkommando gli autori dell’episodio, svoltosi nell’autunno 1944, cui accennavo sopra).
E’ coinvolto nei suoi pensieri al punto di ignorare le urla continue intorno, gli ordini a squarciagola delle SS, le grida dei kapos, i latrati dei cani, il puzzo di morte, la cenere che copre tutto.
Un sacchetto contenente polvere esplosiva utile per la rivolta, che una ragazza gli affida di nascosto, viene perduto da Saul strada facendo, con grande rabbia dei compagni, i quali gli rammentano con durezza che non ha nessun figlio. Invano. Rinvenire la persona che reciterà la preghiera secondo le regole religiose, seppellire la giovanissima vittima è, per Saul, l’estremo tentativo di preservare la propria umanità, nonostante tutto, nonostante l’incomprensione, divenuta via via l’ostilità aperta, degli altri prigionieri, che lo percepiscono come straniero, di nome e di fatto. Paternità probabilmente inventata, ma pure speranza di vita che lo farà andare con coraggio incontro al proprio destino.
Ungherese, 38 anni, studi a Parigi, László Nemes esordisce nella regia con Il figlio di Saul, una pellicola che ha entusiasmato pubblico e critica. Già vincitore del Grand Prix speciale della Giuria al Festival di Cannes e del Golden Globe come migliore film straniero, è ora in corsa per l’Oscar.
E’ un omaggio del giovane autore alla propria famiglia, una parte della quale è stata uccisa ad Auschwitz.
Spiega: “La macchina da presa segue ossessivamente, di spalle o con i primi piani, il mio protagonista. Ho drasticamente ristretto l’orizzonte, non volevo la totalità, anche se la scena corale in cui i condannati si avviano nudi verso la morte è stata definita una bolgia dantesca. Volevo solo la prospettiva umana”.
L’interprete principale non è un attore professionista, bensì un poeta e scrittore ungherese che vive a New York, Géza Röhrig. Nato a Budapest nel 1967, a quattro anni è rimasto orfano e ha vissuto in orfanotrofio (dove ha conosciuto molti gitani coi quali è in rimasto in amicizia. Anzi, attualmente, sta scrivendo un romanzo su di loro) fino a undici per poi essere adottato da una famiglia ebrea. Ha vissuto dapprima a Gerusalemme, poi in Polonia dove, per qualche tempo, ha lavorato come attore in TV. Si è diplomato all’Accademia di Teatro e Cinema di Budapest e ora vive con moglie e figli a New York dove insegna e scrive. Confessa, in un’intervista: “[I momenti difficili] sono stati prima e dopo le riprese. Prima di iniziare a girare, ho passato qualche mese da solo a New York a leggere tutto il possibile sui Sonderkommando e sulla gente che ne faceva parte. Volevo sapere tutto di loro…Erano storie durissime e, anche se erano lontanissime dalla mia vita, erano di una potenza assoluta. La notte avevo degli incubi che i hanno fatto interrogare su molte cose: sull’umanità, su Dio, sull’amore. [Dopo le riprese è stato difficile] tornare alla mia vita. In qualche modo continuava a sembrarmi più reale Auschwitz , dove tutto era estremo ma lineare, essenziale. Dovevi concentrarti solo sulla sopravvivenza. Non avevano importanza i soldi, le conoscenze, l’aspetto che avevi. C’era qualcosa di molto potente in quel posto, al di là dell’orrore di quello che è successo. Tornare in questo mondo è stato complicato”.
Volto scavato, ad un primo sguardo sembrerebbe inespressivo, ma è carico di tutto il dolore del mondo. E’ inquadrato in modo chiaro in parte di faccia, per lo più di spalle, dal basso -la tecnica mi ha ricordato quella adottata da Spielberg in Salvate il soldato Ryan, prima mezz’ora-, mostrandoci in modo quasi ossessivo la sua schiena portante una grande X dipinta in rosso, per segnalarne il pericolo di fuga. Impegnato a realizzare quel pietoso desiderio, Saul parla pochissimo, circondato da una realtà assurda, realtà visibile dallo spettatore in modo sfocato per sottolinearne il carattere demoniaco. A volte il lasciar immaginare è assai più efficace di una realistica rappresentazione.
Film difficile, quasi privo di trama per espressa scelta, dominato dall’immane sforzo del protagonista di salvare il proprio “essere uomo”, da vedere due volte -se possibile- per apprezzarlo appieno, ha pure il merito, non secondario, di attirare l’attenzione su una “categoria” di deportati, i Sonderkommando, circondati per troppo tempo da un alone di sospetto, ritenuti non degni della pietà dovuta alle altre vittime.
Testimonianza imprescindibile a questo proposito è il racconto di Shlomo Venezia (ebreo italiano, nato a Salonicco nel 1923, morto a Roma nel 2012), che fu membro del Sonderkommando nel Crematorio II di Birkenau. Nel suo libro, Sonderkommando Auschwitz (Rizzoli, 2007), tradotto in ben 23 lingue, egli scrive: “ Tutto mi riporta al campo. Qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto……Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio”.
László Nemes, in un’intervista rilasciata a Cannes, esprime la speranza che la sua opera sia utile per provocare “una discussione in Ungheria attorno alle zone oscure del passato. I traumi dell’Olocausto sono ancora qui, accanto a noi.” Sarà opportuno rammentarlo, in questi giorni di celebrazione della Giornata della Memoria e di contemporanei “ponti d’oro”, in tutti i sensi, a chi, con espressa dichiarazione più volte ribadita, è intenzionato a realizzare un’altra Shoah.
Annotazione finale del 29 febbraio 2016: “Film fenomeno capace di raccontare l’indicibile”, così la Stampa racconta il film di Laszlo Nemes, vincitore del premio Oscar 2016 come miglior film straniero.
EVVIVA!!!!