(Titolo originale turco, Baba ve Piç; trad. Il
Padre e la Bastarda; Titolo inglese The Bastard of Istanbul)
Trad. Laura Prandino Rizzoli, Maggio 2007, pp. 388
“Non maledire ciò che viene dal cielo, inclusa la pioggia…..non rifiutare quello che il cielo ti manda. Lo sanno tutti. Inclusa Zeliha”.
Zeliha è una giovane istanbulita di circa vent’anni, che corre concitata e imprecante per le vie della sua città, diretta verso un drammatico appuntamento, al quale è già in ritardo. Siamo nella seconda metà degli anni ’80 del Novecento.
Inizia così l’ultimo romanzo di Elif Şafak, finalmente uscito in Italia, La Bastarda di Istanbul. Nata a Strasburgo nel 1971, turca di origine e di cittadinanza, Elif Şafak ha passato, per motivi familiari, la sua prima giovinezza in diversi luoghi, come la Spagna e la Giordania, prima di ritornare in Turchia. Ora fa la pendolare tra Istanbul, dove vive col marito Eyup, caporedattore del quotidiano economico Referens, e gli USA, Università di Tucson, Arizona, in cui insegna storia mediorientale. Un’autrice a cavallo tra due mondi, che riesce tuttavia a conciliare in una mirabile fusione. Ha pubblicato racconti in turco, francese e inglese. Amica del Nobel Orhan Pamuk (che l’ha definita la migliore scrittrice turca dell’ultimo decennio) e del giornalista di origine armena Hrant Dink, “fiero delle sue origini armene, fiero di sentirsi profondamente turco”, così lei lo ricorda, e proprio per aver attuato -nella vita quotidiana e nel lavoro- questa sintesi, ucciso, nel gennaio scorso, dagli ultranazionalisti turchi (vicini allo stesso gruppo, i Lupi grigi, che, nel 1981, attentò alla vita di Giovanni Paolo II), Elif, tra l’edizione turca e quella inglese del suo ultimo romanzo, nel 2006, ha subìto, nel proprio Paese, un processo per “avere denigrato l’identità nazionale turca” in base all’art. 301 del Codice penale. Una disposizione difesa strenuamente da un gruppo di avvocati ultranazionalisti (capeggiati da Kemal Kerincsiz), malvista anche dall’Unione Europea, che ha chiesto più volte, finora senza successo, al governo di modificarla, o almeno di attenuarla, perché ritenuta un serio ostacolo alla libertà di pensiero e di parola.
Il caso di Elif Şafak aveva attirato l’attenzione dei media per molteplici motivi. Non solo si trattava di una scrittrice e studiosa molto nota, che rischiava da sei mesi a tre anni di prigione solo per aver scritto un romanzo, ma ella era anche incinta e ha passato gran parte della gravidanza con l’angoscia del processo incombente. La sua ultima opera parla senza infingimenti di quel buco nero di rimozione nella storia della Turchia che è il genocidio degli Armeni e questo è bastato a farla finire davanti a una Corte penale. La mobilitazione di istituzioni, università, persone di cultura, a cominciare da Pamuk, insieme al prevedibile timore delle Autorità di allontanare ancor di più per la Turchia la data di ingresso in Europa, ha fatto sì il processo, pur celebratosi, si sia concluso con l’assoluzione.
Era indispensabile delineare una, sia pur sintetica, biografia di Elif Şafak perché, come ogni autentico scrittore -non importa scomodare Gustave Flaubert e la sua Madame Bovary per comprenderlo-, infonde nella sua opera frammenti del proprio essere, della propria anima, vi lascia tracce delle persone che ama.
Per cominciare: chi è “la Bastarda”? Si chiama Asya ed è figlia della giovane che abbiamo incontrato all’inizio, vent’anni addietro, di corsa sotto la pioggia per le vie della sua caotica città; una figlia di madre non sposata, una…bastarda, come si diceva un tempo, che non sa nemmeno chi sia suo padre. Asya, carattere impulsivo, una grande rabbia dentro, divora le opere degli esistenzialisti francesi, adora il cantante Johnny Cash e trascorre lunghi pomeriggi in un caffè cittadino, il “Cafè Kundera”, nome surreale, a discutere (a cominciare dal motivo per cui il suddetto caffè fu chiamato così) con un gruppo di personaggi perdigiorno dai soprannomi stravaganti, come, ad esempio, il “Fumettaro Dipsomane”, con il quale ha un’occasionale relazione amorosa, il “Poeta Eccezionalmente Privo di Talento” o lo “Sceneggiatore Non-nazionalista di Film Ultranazionalisti”. Vive con la madre, Zeliha Kazanci, a Istanbul, in una casa di sole parenti donne, da lei chiamate indifferentemente (esclusa la nonna) “zie”. Zeliha, spregiudicata, lunghi capelli neri, con indosso minigonne vertiginose e tacchi a spillo, un “piercing” al naso che disorienta l’interlocutore, è la minore tra quattro sorelle. Facciamone una veloce conoscenza. La maggiore è Banu, religiosa devota di Allah, ma anche chiaroveggente e dunque un po’ maga, è aiutata in questa sua “attività” da due jinn (entità soprannaturali, intermedie tra mondo angelico e umanità; geni, come quello della lampada di Aladino per intenderci), la Signora Dolce e il Sig. Amaro, con i quali dialoga e spesso polemizza, e che l’accompagnano alla scoperta dei misteri della vita (solo Banu, a parte Zeliha, conosce l’identità del padre di Asya) e delle tragedie della storia; Banu è un personaggio misterioso, la cui importanza emerge via via nell’intera vicenda. C’è poi la seriosa Cevriye, laica e khemalista (e un po’ antiarmena), insegnante di storia nazionale in un liceo cittadino; indi Feride, la più bizzarra delle quattro, appassionata a catastrofi prossime venture e tanto esperta in questioni sanitarie, quanto diffidente nei confronti dell’intera classe medica. Chiudono il gruppo, la madre, la severa nonna Gülsüm (dalla significativa somiglianza, a detta dei maliziosi, con Ivan il Terribile, ma che nasconde in fondo al cuore frustrazioni e sofferenze) e la matriarca di casa, della quale ci è noto solo il soprannome: Petite Ma. Quest’ultima, un tempo sensibile suonatrice di pianoforte e donna ricca di fascino, è la vedova, ormai senza memoria causa l’Alzheimer ingravescente, del nonno delle sorelle, il ricco mercante Riza Selim Kazanci. Egli l’aveva sposata in anni lontani, pur essendo lei assai più giovane, dopo che sua moglie lo aveva abbandonato all’improvviso, lasciandolo solo con un figlio di pochi anni, Levent, futuro padre di Banu, Cevriye, Feride e Zeliha. E’ tutta qui la famiglia Kazanci?
No, c’è qualcun altro, qualcuno che, diversi anni prima, se n’è andato per sfuggire ad una sorta di maledizione che sembra colpire i maschi di casa, destinati a morir giovani; a parte i gatti, che, in quell’ambiente, ricco di profumi di cucina, divani e tappeti, trascorrono lunghe vite beate, tramandandosi l’un l’altro i nomi di Pascià o Sultan, a seconda che a prevalere, in ogni esemplare, sia la linea genetica “aristocratica” dei felini da salotto o quella, zingaresca e affascinante, dei gatti randagi. Mustafa, il figlio maschio, sospirato “erede del nome” dopo tre femmine, arrogante, cresciuto viziato dai genitori, tra carezze e amuleti antimalocchio, all’epoca dell’Università era stato spedito dalla madre a Tucson, in Arizona, non solo affinché studiasse ingegneria agricola, ma soprattutto per sottrarlo ad un drammatico destino di morte prematura. Ma si può davvero eludere il fato? Mustafa, peraltro, aveva finito pian piano per perdere ogni contatto con la famiglia di origine. Nel frattempo si era pure sposato, con Rose, una giovane donna originaria del Kentuky, divorziata dal marito di origine armena, Barsam Tchakhmakhchian, e madre di una bambina, di nome Armanoush (chiamata dalla madre Amy, all’americana, in polemica con la famiglia di Barsam, dalla quale non era mai stata accettata). Armanoush è coetanea di Asya, ed è appassionata di letteratura. Alla sera ama chiudersi nel silenzio della sua stanza per intrattenersi in una chat room o “Cyber Cafè” (il “Cafè Costantinopolis, costituito da un gruppo di americani di origine greca, sefardita e armena), all’interno del quale c’è un forum di discussione (“L’albero di Anoush”), dove ella ha trovato tanti amici, dagli pseudonimi pittoreschi, come i frequentatori del Cafè Kundera, caro ad Asya. Lei stessa è nota con un suggestivo nick name, “Madame Anima Esiliata” -in omaggio a Zabel Yessayan, l’unica scrittrice armena che i Giovani Turchi avessero inserito nella lista nera del 1915-. Armanoush è cresciuta divisa tra due mondi: quello americano di Rose -che sente essere privo di storia- e il gruppo paterno, una complessa famiglia dal passato traumatico. Gli Tchakhmakhchian, sopravvissuti a tante tragedie, risiedono a San Francisco, curano le memorie di casa e sono impegnati a salvaguardare l’armenità della ragazza. La tragedia del loro popolo permea ogni circostanza della vita; ad esempio la passione di Armanoush per la letteratura è fonte di preoccupazione per loro, non a causa di un pregiudizio tradizionale, che ritiene pericolose, o almeno stravaganti, le donne colte, ma perché essi ricordano bene che il Genocidio iniziò con la deportazione della classe colta: scrittori, poeti, artisti erano stati i primi ad essere eliminati dall’Impero Ottomano. Del resto, l’avo illustre, Hovhannes Stamboulian, cioè instanbulita, era stato catturato proprio mentre stava scrivendo una novella per bambini “Il Piccioncino sperduto e il Paese Felice”………E il tragico passato potrebbe sempre tornare.
Punto di riferimento della famiglia armena è Sushan, nonna di Armanoush e figlia più piccola di Hovhannes, donna anziana, piccola e ossuta, dall’inflessibile convinzione che la vita, per un armeno, è sempre una lotta. Armanoush è molto legata alla nonna e ai ricordi di lei, percepisce una certa dicotomia all’interno del proprio essere. Per questo, spinta anche da un membro del suo forum di discussione, un personaggio disincantato, il “Barone Baghdassarian (“Noi armeni non chiediamo altro che il riconoscimento del nostro dolore…..oggi, per noi, nemmeno il male inflitto ai nostri antenati è doloroso quanto la negazione sistematica che ne è seguita”), decide, di nascosto dai genitori, di partire alla volta di Istanbul per ritrovare non solo la casa dove da piccola abitava la nonna, ma anche per (ri)trovare se stessa e (ri)comporre la propria identità frammentata. Sarà ospitata a casa della famiglia del patrigno Mustafa, i Kazanci.
La vicenda si dipana lungo 18 capitoli: 17 sono intitolati a ingredienti di cibi della cucina turca e armena, che, per un qualche motivo, entrano nella vicenda; ad esempio i “Chicchi di grano” del capitolo 7 si collegano ai chicchi di grano benedetti che Petite Ma infila nelle tasche di Asya per tenere lontano da lei il malocchio; mentre il capitolo 18 porta il nome di “Cianuro di potassio”. E’ un potente veleno, dall’odore di mandorle amare, che quindi bene si nasconde all’interno di una vivanda preparata con amore. Il libro è un susseguirsi di cibi, odori e ricette, comuni come non mai ai due popoli e l’entrata in scena della morte sotto apparenti, rassicuranti spoglie è una delle tante sorprese che catturano il lettore per farlo riflettere sulle due famiglie, che sembrano restringersi e allargarsi a seconda dei drammi e delle sorprese nelle quali sono coinvolte.
Qual è il filo che lega le storie?
Una spilla d’oro a forma di melograno, con una spaccatura centrale dalla quale si intravvedono dei rubini che simulano i chicchi, acquistata da Hovhannes Stamboulian tanti decenni prima come regalo per sua moglie; la spilla collega in modo tragico e commovente Kazanci e Tchakhmakhchian….La melagrana è presente in tanti piatti della cucina turca e armena, come ad esempio l’ashure (il “dolce di Noè”), ma può anche simboleggiare l’epoca felice dell’Impero Ottomano: quando esso cominciò a squarciarsi, tutti i chicchi si sparsero per ogni dove…….
Il linguaggio e lo stile sono i più vari: crudo realismo, analisi psicopolitica, favola, magia…. Il Passato, anche Remoto, e il Presente si alternano senza soluzione di continuità.
I caratteri dei personaggi sono ritratti a tutto tondo, nei loro intimi recessi e contraddizioni.
Mirabile, perché non edulcorato, è il racconto che Armanoush, appena arrivata a destinazione, fa alle interlocutrici turche, in una sorta di inconscia sfida, di Metz Yeghern (Il Grande Male, così gli Armeni chiamano il loro Genocidio, celebrato il 24 aprile di ogni anno). E le “zie” come reagiscono alla narrazione di questa ragazza appassionata alla quale sentono subito di voler bene? Con dolore, orrore, ma c’è un punto fermo in loro: ciò che successe “allora” appartiene al passato, all’epoca dell’Impero Ottomano. La vera Turchia, la Repubblica turca, è nata nel 1923; dunque ciò che è accaduto “prima” è responsabilità di altri. Senza contare che gli eventi storici (basta aver sottomano un testo serio sull’argomento) non si sono svolti in maniera così coerente come vorrebbe far credere la “volgata” di comodo, riporto le parole di Elif Şafak in una recente intervista: “Siamo una società che soffre di amnesia……non abbiamo una memoria storica, sembra che i nostri antenati non esistano, che la nostra storia sia cominciata solo nel 1923…e che prima non ci fosse proprio……dobbiamo vedere la Storia nei suoi aspetti fattuali e capire che qualcosa, invece, prima era accaduto”: La differenza di posizione nei confronti della storia e della memoria -“Continuità” negli Armeni, per i quali il passato vive nel presente, “Non continuità” nei Turchi, con conseguenti tabù- emerge anche nella personalità delle due ragazze, che diventano amiche e sono l’una l’interfaccia dell’altra. Asya, alle sollecitazioni di carattere storico di Amy si domanda come può, lei, indagare sul passato in generale se nulla sa del proprio passato personale, se nemmeno conosce l’identità di suo padre. Tuttavia accompagna di buon grado la ragazza armena alla ricerca della casa in cui è vissuta la nonna. La casa non c’è più, purtroppo; al suo posto ecco un ristorante di pesce ed è il cuoco che parla di Istanbul alle due visitatrici: “E’ una città nave. Viviamo tutti su un vascello. Andiamo e veniamo a gruppi. Gli ebrei se ne vanno, arrivano i russi, i moldavi invadono un quartiere, poi se ne vanno anche loro e arriva qualcun altro. E’ così che funziona”. La città non si accontenta di fare da sfondo al romanzo. E’ una realtà viva che respira, bestemmia, lotta, nel traffico delle sue strade, impazzito, specie quando piove. La pioggia, a Istanbul, significa fango, caos e, soprattutto, rabbia. Realtà paradossale, dove puoi assistere perfino ad una sorta di battaglia automobilistica tra un carro funebre, con al seguito le automobili guidate dai parenti del defunto, e un taxi zeppo di tifosi della locale squadra di calcio!
Metropoli amata anche da un personaggio che appare solo due volte, ma per il quale provi simpatia a prima vista. Si tratta di Aram Martirossian, il compagno di “zia” Zeliha, con il quale Armanoush fa conoscenza, prima nel laboratorio di tatuaggi di Zeliha, poi in una pittoresca taverna, dove che ti piacerebbe sederti a chiacchierare e mangiare. Aram è armeno, come si evince dal nome! Quando Armanoush, da armena diasporica, gli propone di trasferirsi in America dove non mancano le comunità pronte ad aiutare lui e la sua famiglia, egli risponde sicuro: “Questa è la mia città. Sono nato e cresciuto a Istanbul. La storia della mia famiglia in questa città risale ad almeno cinquecento anni fa. Gli armeni di Istanbul appartengono a Istanbul, proprio come i turchi, i curdi, i greci e gli ebrei di Istanbul. Prima siamo riusciti a vivere insieme, poi abbiamo fallito miseramente. Non possiamo fallire ancora”. La successiva dichiarazione d’amore di Aram a Istanbul -e a Zeliha insieme- incanta Armanoush e chi legge. Un messaggio di convivenza, di amore per la vita, che pervade tutto il romanzo, per nulla irenista perché conosce e fa suo il tragico passato, ma che intende superarlo, senza tuttavia dimenticare nulla.
Che l’Autrice abbia inteso adombrare, nella figura di Aram più che in altre, i sentimenti del suo amico Hrant Dink?
Amore per la vita, si diceva, che contraddistingue, con poche eccezioni, i diversi personaggi, a cominciare da Zeliha. La vicenda, a struttura circolare, inizia con lei e con lei termina, in un messaggio di speranza. Il sipario si era alzato con una ragazza nubile incinta che ha il coraggio di rinunciare ad abortire (l’appuntamento al quale correva era dal ginecologo), non tanto in obbedienza ad un astratto comando religioso, ma perché, anche lei, pur piegata dalla terribile umiliazione cui era stata sottoposta, ama la vita; e si chiude con una donna che ammira, insieme all’uomo che ama, i bicchieri da the che ella aveva acquistato quel giorno, circa vent’anni prima.
Postilla – Il complesso romanzo è, come a volte capita, costituito da più romanzi insieme. Una storia, più storie. Tanti filoni e problematiche. Tornerò sull’argomento in futuro. Tra l’altro, per rapportare Metz Yeghern e Shoah; Metz Yeghern è stata una sorta di…prova generale: ad esso si ispirò Adolf Hitler, com’è noto. In La Bastarda di Istanbul si legge come gli stereotipi antiarmeni siano identici agli stereotipi antisemiti.
Armeni ed Ebrei, vicende intrecciate. Chi ha letto l’avvicente racconto di Massimo Lomonaco Nili (Mursia, 2002) ricorda le vibranti pagine in cui la protagonista, Sarah Aaronsohn, assiste a Istanbul alla cattura e all’uccisione di civili Armeni da parte dei Turchi. Nel timore che anche gli Ebrei possano fare la stessa fine, ella comprende che è indispensabile un collegamento tra Inglesi ed Ebrei; affinché questi ultimi possano salvarsi e realizzare le proprie aspirazioni nazionali. Per questo Sarah lascia la città turca e il marito non amato per ritornare a casa, a Zikhron Ya’aqov, e iniziare la sua battaglia.