Kucinski  K

  (Titolo originale K. Relato de uma busca, Ia ed. Expressão Popular, São Paulo 2011; IIa ed. Expressão Popular, 2012) Trad. Vincenzo Barca, Ed. Giuntina, collana Diaspora, 2016, pp. 176, € 15,00

 

“K. si disse d’accordo, ma replicò che per lui la tragedia della figlia era la continuazione della Shoah. E argomentò che in Israele, per lo stesso motivo, c’è l’usanza di aggiungere, sulla matzevà [lapide commemorativa] del morto, i nomi dei suoi parenti vittime della Shoah”   

 

Assurdi scherzi della vita. Oltre trent’anni dopo la scomparsa della sorella Ana Rosa (nata nel 1942), sequestrata e uccisa, insieme al marito coetaneo Wilson Silva, nella primavera del 1974 dalle “forze di sicurezza” al servizio della dittatura brasiliana -instaurata nel 1964 e durata un ventennio-, il fratello maggiore Bernardo continua a ricevere, tramite posta, messaggi pubblicitari destinati a lei.

“Il postino non saprà mai che la destinataria non esiste…Il nome sulla busta, affrancata e timbrata come ad attestarne l’autenticità, sarà la prova tipografica non di un equivoco o di un errore del computer, ma di una sindrome di Alzheimer nazionale. Sì, la permanenza del suo nome nel registro dei vivi sarà, paradossalmente, il prodotto dell’oblio collettivo del registro dei morti”.

Entrambi i coniugi figurano nell’elenco (facente capo al Dipartimento per l’Ordine Politico e Sociale) dei desaparecidos, cioè delle persone, per usare un eufemismo, “scomparse”, con solo una scarna indicazione sulla data del loro arresto.

La giovane non era solo una militante politica (insieme col marito era membro di un gruppo armato di opposizione), ma insegnava all’Istituto di Chimica dell’Università di S. Paolo.

I responsabili dell’Ateneo, qualche tempo dopo la sparizione della docente, decisero di licenziarla per “abbandono delle funzioni”. Un gesto ignobile per il quale a poco sono valse semplici scuse tardive, senza che fossero colpiti gli autori del provvedimento, dei quali i nomi sono ben noti.

 

Bernardo Kucinski, nato a S. Paolo nel 1937, discende da una famiglia di ebrei polacchi. Dopo essersi laureato in fisica, ha lavorato a lungo come giornalista per diverse testate brasiliane e britanniche, ed è autore di saggi di carattere economico e politico. Docente di giornalismo all’Università di San Paolo, è stato pure consigliere speciale del Presidente Lula (2003/2006).

In una recente intervista confessa di aver cominciato da pochi anni a scrivere di narrativa: dapprima un romanzo di carattere poliziesco (non ancora pubblicato), poi storie diverse, al centro delle quali sta soprattutto la sua famiglia e le drammatiche vicende dalla stessa vissute.

Grazie a ciò, pian piano è andato prendendo forma un testo centrato su avvenimenti privati, ma inquadrati in un preciso ambito storico / politico, gli anni della dittatura militare in un Paese, il Brasile, dove l’opposizione era rappresentata da piccoli gruppi, per lo più isolati dalla società, mentre in altri stati sudamericani, come il Cile o l’Argentina, essa aveva assunto la forma di ribellione di massa.

La “sparizione” di Ana Rosa è il punto di partenza di K o la figlia desaparecida, romanzo uscito in queste settimane presso  Giuntina ; ma il centro della narrazione è l’effetto di tale tragedia sulla vita del padre, K.

Kucinski ricorre all’escamotage letterario di immaginare che il genitore intraprenda una lunga ricerca, anche fondandosi su puri indizi, per avere notizie della ragazza (nata dal primo matrimonio di lui), sparita all’improvviso, senza lasciare traccia di sé. Magari tutto questo è davvero accaduto, ma noi non lo sappiamo -e, per la verità, non ha nemmeno troppa importanza-.

L’uomo, immigrato ebreo dalla Polonia ante Shoah -scrittore, specialista della lingua yiddish- percorre un lungo cammino; arduo perché segnato, all’inizio, da una sorta di “non presenza”. Tuttavia, man mano che egli procede, ecco che emergono particolari nella vita della figlia fino a quel momento sconosciuti, complice il fatto che ella svolgeva una rischiosissima attività politica

K. scopre così che Ana era sposata con un compagno di lotta, Wilson: una fotografia la ritrae insieme ai parenti di lui.

Questa figura quasi misteriosa diviene dunque -in modo paradossale- intima e familiare man mano che il tempo passa. Ma il percorso è duro. Il protagonista prova rimorso e si tormenta per averla trascurata a vantaggio degli studi, di essere vissuto fuori del mondo, in una sorta di…bolla culturale, senza attenzione a ciò che accadeva intorno, in particolare alla vita di lei.

Perfino la sua identità ebraica è messa in crisi. Ah, se non avesse pensato tutto il tempo alla lingua yiddish, alla letteratura, se avesse prestato più interesse verso la figlia, i suoi figli…è l’amara riflessione di Bernardo.

Lo yiddish, una lingua che ora il padre sente morta; morta come sua figlia. Un particolare significativo: ad un certo punto K. scrive a certi congiunti immigrati a suo tempo in Israele; lo fa non nel (in precedenza) linguaggio prediletto, ma in ebraico, l’idioma dei vivi. Chi legge troverà pure profonde intuizioni su una parlata, lo yiddish, antica di oltre mille anni; usata, prima della Shoah, da circa dieci milioni di persone; tipica di artigiani e gente povera, carrettieri e ambulanti, ricca di diminutivi, termini affettuosi, idonea ad esprimere sentimenti, come attestano, ad esempio, le opere di Sholem Aleichem o dei fratelli Singer. Davanti al muro omertoso delle autorità, il padre si catapulta in un mondo di delatori, informatori, figure che lo illudono. Porte chiuse, atrocità, connivenze, ipocrisie. Poca solidarietà.

E un forte senso di colpa che lo divora…simile a quello che ha colpito i sopravvissuti alla Shoah, nel continuo domandarsi che cosa avrebbe, lui, potuto fare e non ha fatto e perché mai è ancora al mondo, mentre altri non ci sono più.

Anche sua moglie aveva vissuto tale sentimento nei confronti della propria famiglia sterminata, tanto da essere divorata da una fatale depressione; quella moglie la quale, come talora purtroppo capita, non apprezzava affatto la figlia e non perdeva occasione per denigrarla, specie sul piano fisico e, per di più,  nel periodo in cui una persona è più fragile: l’adolescenza.

Durante la lettura facciamo conoscenza con la varia umanità incontrata da K. L’arcivescovo di S. Paolo, card. Evaristo Ams, ad esempio, che cerca di aiutare le famiglie delle persone scomparse. Alcuni rabbini, partecipi, aiutano, mentre altri nemmeno ascoltano, rifugiandosi in luoghi comuni.

Tante piste, ma nessuna porta al dove e al come Ana e Wilson siano scomparsi. Il titolo originario del romanzo, del resto, Relato de uma busca, cioè Relazione di una ricerca, all’apparenza asettico, ha in realtà, a mio avviso, un sapore dolorosissimo.

Tanti particolari, anche tenerissimi, come le pagine dedicate alla cagnetta di proprietà della coppia, Baleia (cioè Balena, in portoghese), una barboncina di razza che gli esecutori dell’arresto si ritrovano nel loro ufficio: “…che ci facevano due terroristi con un cane così?” Ti vien da trepidare per la sorte della bestiola.

Alcuni capitoli possono essere letti non in continuità col resto. Due, indimenticabili.

In uno si racconta  la lunga risposta / confessione di un’amante del famigerato commissario Sergio Paranhos Fleury, responsabile dei tremendi “Squadroni della morte”, ad una madre che la cerca per aver notizie sul figlio scomparso.

L’altro, ancor più commovente, è il colloquio di una donna, addetta alle pulizie nella “Casa della Morte” di Petropolis -inevitabile ricordare Stefan Zweig che là si suicidò, insieme alla moglie, nel 1942- con una psicologa, alla quale narra, senza alcun infingimento, gli orrori di cui è stata testimone.

 

L’opera è avvincente perché, pur trattando eventi lontani nel tempo, ha il sapore della contemporaneità: si parla sì di una dittatura, quella brasiliana, ma il pensiero corre alla tante dittature che ancora oggi sfregiano il nostro vivere quotidiano e sembrano dettar legge al mondo; quasi sempre, in modo diretto o indiretto, con la complicità di democrazie moralmente deboli. Intensa poi la scelta, operata da Kucinski, di affrontare il tema della tirannide non tanto concentrandosi sulle vittime, ma su coloro che restano, sul loro sentimento di “vuoto”, di “perdita”.

Quel vuoto nel cui spazio, come riflette Renato Lessa nella perspicua postfazione, il protagonista vorrebbe mettere almeno una lapide perché la sua vita ritrovi un minimo di significato.

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