22 FEBBRAIO, DOMENICA
E’ arrivato il giorno della partenza.
L’emozione di ritornare, dopo circa tredici anni, in Israele è fortissima. Durante questo tempo, ho approfondito conoscenze ed esperienze, incontrato persone, mentre lo scenario mediorientale e mondiale è profondamente cambiato.
Con Mauro, mio marito, ci siamo uniti alla compagnia di amici che, due volte all’anno, la nostra cara Lucia Scarabello (Chicca!) coinvolge per trascorrere una decina di giorni in quel Paese, al centro del Mediterraneo, che tanto amiamo. Ogni viaggio, un tema nuovo.
Quest’anno l’argomento è: “CROCIATI E PARCHI NATURALI: Israele con gli occhi della storia e il cuore della natura”. Non mancheremo certo di visitare Gerusalemme e gli altri centri importanti dell’Israele di oggi, ma avremo un occhio di riguardo alla storia, in particolare all’epoca in cui i Crociati dominarono; e poi c’è la dimensione, per così dire, naturalistica, che assume nel nostro contesto, al di là del piccolo territorio, un’importanza cruciale.
Tutta la storia di Israele, in particolare quella legata al Sionismo, racconta il legame tra uomo e natura, legame complesso e inscindibile. Non a caso tratteremo insieme Natura e Storia: si tratta di un tutt’uno.
Infatti le due organizzazioni che in passato gestivano separatamente le riserve naturali e i parchi nazionali (archeologici) sono state, dieci anni or sono, fuse per dar vita all’Agenzia Israeliana per la Protezione della Natura e dei Parchi Nazionali. La rapida urbanizzazione, il progresso economico e le sempre maggiori necessità di trasporto, nonché l’incremento demografico hanno accresciuto la minaccia nei confronti delle meraviglie naturali, del paesaggio, degli spazi verdi e dei siti storici del Paese. Ciò ha indotto le autorità responsabili per la protezione della natura a unire le loro forze per dar vita ad un’entità più forte ed efficiente. L’unione delle due autorità, avvenuta nell’aprile del 1998, costituisce una struttura efficace i cui obiettivi sono la protezione e la promozione dei siti naturali e storici, nonché ricreativi: siti che sono stati formalmente trasformati in parchi nazionali e riserve naturali.
All’aeroporto di Fiumicino incontriamo dapprima Chicca e suo figlio Luca -un bel giovane bruno che fa il carabiniere ed ha partecipato ad alcune impegnative missioni italiane, Kosovo compreso-, indi altri partecipanti all’avventura, che ancora non conoscevamo: i triestini -Marinella, Diana, e Giulia; poi Donatella, appassionata di viaggi aerei, con Giuseppe- e due coniugi modenesi, Paola e Giancarlo, che scopriremo essere infaticabili viaggiatori intercontinentali. Il resto del gruppo lo ritroveremo a destinazione, poiché partirà con un volo da Milano.
I controlli di sicurezza israeliani sono assai meticolosi; ma l’espressione severa della giovane addetta si scioglie in un sorriso non appena le confido la mia passione per la cultura e letteratura del suo Paese e racconto della bella serata passata -alcuni mesi fa, ma sembra ieri!- con David Grossman in occasione dell’uscita del film tratto da Qualcuno con cui correre.
A bordo siamo già…..in Israele. “Shalom” salutano le hostess “Shalom!” rispondiamo.
In breve l’aereo è colmo; accenti italiani e israeliani si mescolano.
Accanto a noi siede Anna Lissa, giovane ricercatrice dell’Università di Napoli l’Orientale, la cui preparazione in cultura e letteratura ebraico/israeliana ho avuto modo di apprezzare in diverse occasioni. Resterà all’Ateneo di Tel Aviv alcuni mesi per approfondire i suoi studi.
Chiacchieriamo di vari argomenti ed autori e, in primo luogo, di Aharon Appelfeld e della sua genialità schiva.
Il tempo passa in un attimo.
Mentre l’aereo è in fase di atterraggio Tel Aviv ci sorride, senza tanti preamboli: con il mare spumeggiante laggiù, l’agglomerato urbano, le vaste macchie di verde…e dove sarà il grattacielo Pinsker che aveva tolto il sonno ad Amotz Yaari, protagonista di Fuoco amico di Yehoshua, con i suoi sibili e rimbombi misteriosi? Ah ecco le Torri Azrieli! Splendide geometrie di luce.
Dopo circa un’ora dal nostro arrivo, arrivano gli altri, provenienti da Malpensa. Presentazioni: Maria Pia, meneghina doc tutto pepe; Achille, vivace medico bolzanino -un veterano di questi luoghi-, col nipote Federico; Tiziana, giovane avvocato di Cuneo; Ileana e Valeria, due sorelle di Vicenza, le quali, appena ne hanno l’opportunità, lasciano le rispettive famiglie e partono, loro due, per un qualche viaggio, un tandem perfetto; Maria Teresa, per tutti Tea, e Valter, due coniugi padovani, che figurerebbero bene in un racconto di costume; infine, nell’impeccabile loden blu, Roberto, il giornalista di Aosta, folta barba e vocione, come dice Chicca.
Siamo un gruppo di venti persone, per lo più di mezza età, esclusi Tiziana, Federico e Luca, tutti entusiasti e ben carburati; alcuni, addirittura, sono al decimo viaggio o giù di lì, come Maria Pia, che con le sue battute in gergo milanese, cariche di humour e perspicacia, contribuisce sin da subito a tener la compagnia ad un costante livello di buonumore, preziosissimo nei momenti in cui la stanchezza fa capolino.
La nostra guida per questi dieci giorni, Angela Polacco Lazar -romana di nascita, aliah nel 1985, a Gerusalemme-, è la gioia di vivere in persona: la ricordo bene da quando la conobbi a Bologna, circa sette anni fa, in occasione di un incontro presso la locale Comunità ebraica. Già in quella circostanza colpì i presenti per la cultura e l’entusiasmo; tra l’altro seppe tener testa in modo egregio alle domande poste, con frecce intrise di veleno, da un certo personaggio, presenzialista come non mai: un israeliano comodamente sistematosi da molti anni in Italia (al riparo da terrorismo e da scelte comunque difficili, talora dure), impegnato -ventiquattro ore al giorno- nello sport preferito: far cadere in contraddizione e mettere a disagio i concittadini che risiedono in Eretz Israel. Con lei il trucchetto non funzionò; anzi quel signore, esaurite tutte le frecce senza successo, assunse un atteggiamento circospetto e tacque, seduto in un angolo della sala.
Angela si autodefinisce con un titolo modesto quanto affascinante, quello con cui vengono chiamate in Israele le Guide Turistiche: maestra di strada, in ebraico Morat Derech, un appellativo che, a prima vista, sembrerebbe sminuirne le doti, ma che, in realtà, rende a meraviglia la sua capacità di far parlare pietre e alberi e storia, rendendoti un tutt’uno con essi. Assurdo assimilarla ad “una”, sia pure colta, guida turistica; Angela è “totalmente altro”, nulla da fare. Non a caso è lei che ha accompagnato (ed accompagna) personaggi illustri alla scoperta del Paese: politici, giornalisti, prelati, intellettuali vari…..e noi, comuni mortali. Con il medesimo impegno e passione. Con equilibrio, semplicità nel porgersi e capacità di ascolto.
La stessa sera del nostro arrivo ha esordito accompagnandoci in una passeggiata serale a Jaffa per le strette viuzze del quartiere degli artisti, i quali contribuirono a valorizzare, a partire dagli anni ’60 del Novecento, questo sobborgo la cui origine si perde nella notte dei tempi, come attestano i reperti -età del bronzo- rinvenuti sulla collina stratificata (tel) che domina la bella insenatura naturale. Siamo investiti da uno scroscio di pioggia che, se per un verso ci impedisce di proseguire nella nostra escursione a piedi, dall’altra ci introduce nel vivo del nostro viaggio. Il Libro di Jona, il Leviatan, gli Atti degli Apostoli…..prima ancora Joppa, figlia del dio dei venti, Eolo, e, più vicino a noi,…..Napoleone Bonaparte, l’Imprescindibile da due secoli in qua, grazie al quale, a seguito della spedizione in Egitto, questa regione mediorientale, negletta da secoli, cominciò di nuovo ad assumere importanza agli occhi delle grandi potenze.
23 FEBBRAIO LUNEDI
Il mattino dopo ci aspetta una Tel Aviv serena, annunciata da un surfer biondo. Muta impeccabile, piedi nudi e tavola sotto il braccio, attraversa la strada parallela al lungomare imboccata dal nostro pullman. Uno studente o un giovane lavoratore che, sciolti i muscoli verso le sei/sette, si appresta ad affrontare la giornata.
Incredibile questa città, costruita sulla sabbia (con buona pace dello scrittore israeliano Alon Hilu) da un pugno di ebrei sognatori, animati da testarda passione per la loro terra. Sessantasei famiglie, sessantasei, ricordate dal monumento posto proprio dove avvenne l’estrazione a sorte dei lotti di terreno assegnati a ciascuna: 66 conchiglie bianche con i nomi delle famiglie e 66 conchiglie grigie con i numeri corrispondenti ai lotti, decide la sorte, come va, va, in nome dell’ugualitarismo sionista e pioniere. E’ l’11 aprile 1909.
A dire il vero, vi fu chi, tra i “puri e duri” -legati all’ideologia socialista del riscatto della Terra dei Padri (resa feconda dopo secoli di abbandono) come unica forma di sionismo degna di questo nome-, non vedeva di buon’occhio l’affermazione di un ceto mercantile e cittadino, una via per così dire liberale; ma poco importa. La solidarietà necessaria al realizzarsi concreto di una Nazione, già esistente nel DNA ebraico sin dall’inizio, valeva più di ogni disputa politica.
Il nome della città (“Collina di primavera”) si richiama ad un passo del Libro di Ezechiele: la “Collina di primavera” è il luogo dove -secondo il profeta- trovano casa i fuoriusciti che rientrano in patria dopo l’esilio.
“Collina di primavera” è anche il titolo, nella traduzione ebraica, dell’opera di Theodor Herzl, Altneuland (1902).
Con coraggio ed impegno i fondatori della città riuscirono a piantare alberi dove non lo immagineresti, spargendo ovunque, grazie alla progressiva evoluzione della tecnica, una vastissima ragnatela di tubicini per l’irrigazione goccia a goccia, espressione di rispetto per l’ambiente e la natura. Spontaneo l’accostamento tra Jaffa, antichissima, e Tel Aviv moderna, chiamata all’inizio Ahuzat Bayt (casa colonica) dai suddetti testardi che, stanchi di stare in quartieri poco confortevoli, dove mancavano perfino le fognature, una nuova città vollero costruirsela dal nulla, secondo il loro modo di concepire l’esistenza, su terreni, posti a nord di Jaffa, acquistati da proprietari beduini.
Che cosa c’è di più solenne per la vita di una Nazione che il giorno della sua nascita?
Immagini saloni, tappeti rossi, ufficiali in alta uniforme, musica, discorsi roboanti….
Qua è stato tutto diverso -siamo giunti al 14 maggio 1948-, sia per la situazione politica generale, più che mai difficile e precaria -in equilibrio tra la partenza degl’Inglesi e l’ansia distruttrice degli Arabi, pronti a divorarsi lo Stato bambino-, sia per il carattere sbrigativo dei padri fondatori dello Stato per i quali l’importanza e la gravità del momento mal si conciliavano con gli orpelli della forma (unica concessione: la cravatta di David Ben Gurion e dei collaboratori seduti più vicini a lui).
L’evento si svolge in una villetta ben riposta, l’abitazione del primo sindaco della città, Meir Diezengoff; il testo della Dichiarazione di Indipendenza -che dà il nome al luogo, Indipendence Hall- , contenuto in quei tre foglietti, è discusso fino all’ultimo -e magari qualcuno avrà pure mugugnato tra sé e sé durante la proclamazione, per una frase non condivisa-. Le firme di ciascun membro del Consiglio di Stato provvisorio, in calce alla Dichiarazione stessa, sono rigorosamente in ordine alfabetico.
Gli Ebrei ritornati, dopo una ventina di secoli, Israeliani non ebbero il tempo di godersi la festa, Golda si era appena asciugata le lacrime al pensiero dei Tanti che non avevano potuto essere lì: la stessa sera di quel 14 maggio 1948 la città fu bombardata.
Seicentomila persone a difendere il piccolo Stato appena ricostituito e troppi non sapevano neppure usarle, le armi.
Passeggiamo tra gli alberi di Sderot Rothschild e ammiriamo le belle case bianche in stile Bauhaus, dal nome della scuola d’arte, architettura e design (Staatliches Bauhaus) fondata a Weimar nell’aprile 1919 da Walter Gropius. Nel 1925, il Bauhaus fu trasferito a Dessau e nel 1933 fu chiuso, per ordine del partito nazionalsocialista.
Proprio per questa sua peculiarità architettonica Tel Aviv è stata inserita dall’UNESCO nel 2003 nella lista delle 56 città storiche del mondo.
Oggi Israele festeggia il 100 anni di Tel Aviv, la Germania i 90 anni del Bauhaus. Coincidenze felici.
Incontriamo alcune ragazze, bambinaie di una scuola materna, che portano a spasso un bel gruppetto di piccoli sistemati con cura all’interno di una sorta di box provvisti di ruote: si chiamano aglul, spiega Angela, sono usati nei kibbutzim e non solo; a me sembrano una soluzione quanto mai pratica, ideale per una famiglia articolata. Chicca, fresca -e giovane!- nonna di due stupendi gemellini ci sta facendo un pensiero….
Giardini, con piante che riescono a crescere rigogliose grazie a metodi di irrigazione esportati ovunque nel mondo; piazze in rifacimento come la Habimah, con l’omonimo teatro, che è tutta un cantiere: una febbre di mettersi in discussione, di costruire, di vivere all’aria aperta. Festeggia i suoi primi 100 anni questa città: è appena una ragazza, considerato che sono i millenni l’unità di misura nella storia di Israele. Andiamo al Parco HaYarkon per assistere ad un concerto o ci facciamo una bella corsa sul lungomare?
Sul lungomare passiamo avanti ad alcuni luoghi -tra i tanti, purtroppo- teatro di tremendi attentati negli anni scorsi ad opera di terroristi suicidi. Ad esempio, il Mike’s Place, un locale di live music, proprio sulla spiaggia, assai frequentato.
Primavera 2003: tre uccisi, tra cui una ragazza di nemmeno trent’anni, Dominique, emigrata alcuni anni prima dalla Francia, che faceva la cameriera nel locale. Tre uccisi, per tacer dei feriti -oltre 50-; il tutto ad opera di due giovani islamici di agiata famiglia, nati in Inghilterra, e dunque cittadini britannici -lontani mille miglia dalla terribile realtà di quei campi profughi voluti dai Paesi arabi come arma infallibile contro Israele-, inglese oxfordiano, ottimi studi, nessuna incertezza sul futuro.
O la Dolphin Disco, proprio vicino al delfinario. Inizio giugno 2001: 21 ragazzi uccisi, per tacer dei feriti, dai 15 ai 25 anni, famiglie modeste di lavoratori, tutti immigrati dalla Russia con dolore, sacrifici…tanta buona volontà di riuscire, ma anche punti interrogativi sul futuro. Un venerdì sera, ragazzi in jeans -quelli buoni, con un paio di buchi qua e là, ad arte- e ragazze con i sandali dai brillantini, la mamma mi ha dato l’ultimo tocco alla pettinatura…..accennavano passi di danza davanti all’ingresso mentre, tra le risate, parlottavano in quella nuova lingua che già era loro familiare. Sogni spezzati. Da qualcuno che odiava la loro gioia luminosa di guardare avanti e gliel’ha voluta strappar via in un attimo.
Ma qui, come ovunque nel Paese, non c’è l’abitudine di piangersi addosso. Qui si pensa e, prima ancora, si pratica: se ci fermassimo in preda alla disperazione e allo sconforto il terrorismo avrebbe vinto. E addio Israele. Le ferite e il dolore restano, ma hanno un che di intimo, di riposto. Anche la Piazza, un tempo intitolata ai Re d’Israele, poi riconsacrata a Itzhak Rabin, il luogo dove il Soldato dagli occhi azzurri fu abbattuto dal ragazzotto invidioso e fanatico, sembra avere cancellato quei tragici istanti, ma, se ti fermi un attimo e fai silenzio, quegli istanti, ancor più assurdi data la provenienza dell’assassino, te li ritrovi subito, davanti agli occhi.
Con oltre 20 musei, Tel Aviv è il centro nazionale della cultura. Il Museo della Terra di Israele (Ha’aretz), nella zona nord, è un grande scrigno che racchiude un’epoca che va dall’antichità più remota ai giorni nostri; lo compongono un ragguardevole numero di “sottomusei” interessantissimi e l’area di scavi ed esposizioni di Tel Qasila (si parte dal secolo XII a.C.).
Per le celebrazioni del centenario, poi, le mostre e i convegni abbondano. Si spazia dai primi reperti archeologici, relativi ad insediamenti che risalgono a circa 20.000 anni fa (!), alla città filistea con il porto alla foce dello Yarkon, ai ricordi della Seconda Guerra Mondiale, con relativi bombardamenti italiani (nel settembre 1940). Non manca l’omaggio al leggendario Primo Cittadino, Meir Diezengoff, Sindaco dal 1911 al 1936. Meir, nato nel 1861 in Bessarabia, dopo una prima parte della gioventù da giovane rivoluzionario, privilegiò, nella sua vicenda politica, la piccola proprietà privata e il carattere mitteleuropeo della sua città, che resse fino alla morte. Interessante pure l’esposizione denominata “I Polacchi”: la piccola media borghesia di artigiani, commercianti e piccoli imprenditori che popolò la zona costiera negli anni venti e Trenta del Novecento. “Città bianca giorni neri” si chiama la mostra, con significative immagini, che si terrà in autunno e riguarderà i momenti critici, come ad esempio, la cacciata di tutti i suoi abitanti ad opera delle autorità turche nel 1917 o i primi conflitti con gli arabi nel 1921 (viene in mente l’uccisione del grande scrittore Yosef Haim Brenner, da parte degli abitanti di Jaffa).
Tra le tante iniziative di carattere scientifico, infine, il Convegno internazionale promosso dalla nostra AME (Associazione Medica Ebraica) con la Israeli Medical Association dal 22 al 26 aprile 2009. Numerosi i temi che verranno affrontati, concernenti gli ultimi sviluppi della Medicina, questioni legali e di etica medica, ebraica e non, problematiche riguardanti la salute dal punto di vista della persona e del sistema organizzativo, aspetti sanitari legati alla Shoah, e tanti altri argomenti.
Sulla collina di Ramat Aviv, nella zona nord, l’Università: un vastissimo campus con viali alberati e prati di un verde intenso, dove gatti di vari colori si godono il sole e ti osservano incuriositi; giovani indaffarati, di varia nazionalità, camminano a passo svelto sotto lo sguardo di Albert Einstein, la cui grande testa in bronzo fa la guardia ad uno degli Istituti.
Al centro dell’insediamento c’è la c.d. Sinagoga Cymbalista (dal nome dei committenti, gli svizzeri Paulette e Norbert Cymbalista) e Centro dell’Eredità Ebraica, progettata dall’architetto elvetico Mario Botta (nel 1997/’98): l’opera si caratterizza per due identiche torri conoidali del diametro di circa 17 metri e per ambienti di indubbio fascino, in cui il luogo di preghiera fronteggia il luogo di studio in una mirabile sintesi, valorizzata dai fasci di luce che giocano tra le finestre e gli ampi spazi.
Al tramonto passeggiamo per le viuzze di Jaffa ad ammirare il panorama dal promontorio, mentre due coppie di freschi sposi dalle fattezze mediorientali, poco più che adolescenti, appaiono come per magia da dietro un angolo.
Trascinati dall’entusiasmo di Roberto, nessuno di noi resiste a “pita ‘im shawarma”, anche se l’ora sarebbe un po’ tarda per una merenda.
Dopo cena un simpatico amico, che non vedevo da alcuni anni, Yosh Amishav, importante esponente del Keren Hayesod, c’intrattiene in ordine alle attuali problematiche che si muovono sullo scacchiere internazionale e relative ricadute sulla situazione politica israeliana.
Yosh conosce bene risvolti e retroscena (pur non facendolo pesare mai), non si fa illusioni, ma è pure un inguaribile ottimista.
24 FEBBRAIO MARTEDI
Lasciamo la nostra “Collina di Primavera” diretti verso Nord, a Cesarea Marittima.
All’entrata del Parco nazionale che conserva e custodisce questo notevolissimo sito archeologico, sorpresa! Su una pietra è scritto il nome di…Ponzio Pilato, il prefetto della Giudea qui residente, conosciuto solo tramite i Vangeli e le opere dello storico giudeo romano Giuseppe Flavio fino alla scoperta (nel 1961), ad opera di archeologi italiani, di questa iscrizione (risalente al 31 e.v.) .
Si tratta di una copia, poiché l’originale lo custodiscono al Museo di Gerusalemme, ma l’effetto c’è, eccome.
Vicino all’entrata c’è pure il Kibbutz Sdot Yam (Campi del mare), fondato nel 1936/40 da David Ben Gurion in una posizione davvero strategica per accogliere gli Ebrei che sbarcavano sulle coste della Palestina mandataria. Vengono alla mente i nomi di alcuni illustri personaggi vissuti qui, come la giovanissima eroina della Seconda Guerra Mondiale, Hannah Szenes, e Yossi Harel, il mitico comandante dell’Exodus, che vi è pure sepolto.
Angela ci racconta le vicende di Erode il Grande, Idumeo di nascita; il quale, dopo la battaglia di Azio (31 a.C.), nonostante fosse stato legato ad Antonio, grazie alla sua notevole abilità politica, riuscì ad entrare nelle grazie di Augusto e a farsi incoronare Re di Giudea.
Per gratitudine Erode fece costruire, in onore di Cesare Augusto, Cesarea, città interamente pagana, che tuttavia riveste un’importanza notevole per la storia del Cristianesimo, specie dei primi secoli, a cominciare dagli Atti degli Apostoli.
Ci troviamo in un luogo archeologico di eccezionale bellezza, in riva al mare.
Vi erano in antico due ippodromi: uno più grande, non più visibile, all’interno del kibbutz, ove ora c’è un campo di banane; l’altro più piccolo, sulla costa, con stupendi affreschi.
Meritata fama godono sia il Teatro, restaurato a dovere, dove ogni anno si svolge il Festival della Musica Israeliana
sia, lungo l’arenile, il coreografico Acquedotto, che prendeva le acque dal Carmelo, costruito dalla Decima Legione Fretense.
Tutto il luogo è da sogno; molti vip israeliani, ride Angela, si sono fatti costruire qua una seconda casa; magari una villa di lusso.
Purtroppo nulla resta del porto, fatto anch’esso costruire da Erode, poiché via via andò scomparendo.
Vi sono manufatti bizantini di grande valore, come le Terme e un pavimento musivo raffigurante l’albero della vita. Lungo il Cardo romano possiamo vedere due statue acefale, assai ben conservate, una in marmo bianco e l’altra in porfido rosso.
Le mura e la città crociata sono notevoli, costruite con sabbia solidificata, materiale prediletto sia dai romani che dai crociati. A proposito di crociati e di misteriose leggende, che hanno scatenato la fantasia di poeti, musicisti e narratori nei secoli nonché, in tempi recenti, di scrittori dalle risapute fantasie con cineasti al seguito, non dimentichiamo che a Cesarea è legata la leggenda del santo Graal. I crociati, conquistando la città nel 1101, rinvennero, nel bottino, uno splendido calice. Nacque subito la favola secondo cui esso sarebbe stato o il calice usato da Gesù durante l’Ultima Cena o la coppa in cui Giuseppe d’Arimatea avrebbe raccolto il sangue sgorgato dal costato trafitto di Cristo. L’oggetto oggi è conservato a Genova, nella Chiesa di S. Lorenzo.
Attraversiamo ora una zona molto importante, sia dal punto di vista economico che da quello storico/culturale. Israele è, nel mondo, il secondo Paese con maggior numero brevetti; vi è un forte utilizzo di energie alternative, in primis solare (ogni abitazione dispone di pannelli per il riscaldamento).
Emozionante la vista, sia pure da lontano, di Zikhron Ya’aqov, nell’interno, e di Atlit, sulla costa (agli Aharonson e al loro gruppo Nili, che operarono qui, riserveremo il prossimo viaggio).
Passiamo dall’area di Haifa -lambendo appena la città, ma riusciamo a scorgere la cupola dorata del tempio Ba’hai-, la zona a più alta concentrazione industriale del Paese. Sia Saddam Hussein, nel 1991, che Hetzbollah, nel 2006, tentarono, senza riuscirvi, di colpire le industrie chimiche di Israele. E’ in programma il trasferimento altrove del polo chimico per motivi di sicurezza e sanità pubblica.
Akko ha un’origine antichissima (età del bronzo, IV millennio a.C.) e fu rilevante porto fenicio. In epoca post Alessandro Magno fu Tolemaide, nome rimastole fino alla conquista araba del 636, quando divenne Akka. Conquistata dai Crociati di Baldovino I nel 1104, fu ripresa da Saladino nel 1187; riconquistata da Riccardo Cuor di Leone nel 1191, fu l’ultimo avamposto nella ritirata dei Crociati. I Cavalieri di Malta erano chiamati Cavalieri di S. Giovanni proprio dal nome crociato di questa città (S. Giovanni d’Acri), prima di ritirarsi a Malta.
Qui era approdato nel 1219 Francesco d’Assisi per annunciare il Vangelo e, agli albori del cristianesimo, vi passò pure S. Paolo durante il suo terzo viaggio missionario.
Le possenti mura, costruite nel corso dei secoli, che cingono l’abitato, le chiese, le moschee, il “bagno turco”, le strade tortuose rendono unico questo luogo, ponte tra Oriente e Occidente, teatro di eventi culturali rilevanti, nominato dall’UNESCO -nel 2001- “Patrimonio dell’Umanità”.
Dopo i Crociati, fu anche dimora degli Ottomani per molti secoli; Napoleone ne restò affascinato e invano tentò di conquistarla (due mesi di assedio, poi dovette desistere).
Passiamo da un ameno giardino, dove una ragazza in divisa, avvolta in una specie di poncho messicano (e fucile ben visibile), fa la guardia, per entrare nel ventre della città crociata sotterranea (con tunnel lungo alcune centinaia di metri). E’ il possente complesso appartenuto ai Cavalieri di S. Giovanni, di grande importanza e bellezza, sulla cui esistenza avevo solo vaghe notizie.
Uno sguardo alla Cittadella, adibita a prigione dagl’Inglesi durante il periodo mandatario, mi rimanda alle pagine di Leon Uris con le gesta della famiglia Ben Canaan.
Di grande pregio il quartiere veneziano sul mare -bellissima l’inquadratura con la chiesa francescana di S. Giovanni Battista, già intitolata a S. Andrea, in cima al piccolo promontorio- che tuttavia avrebbe bisogno di profondi restauri: restauri a regola d’arte potrebbero rendere Akko una delle città più affascinanti del Mediterraneo; tuttavia è difficile realizzare un piano razionale di recupero, sottolinea Angela, data la contrarietà dei proprietari (per lo più arabi mussulmani) a trasferirsi altrove, sia pure temporaneamente.
Ci soffermiamo ad ammirare la scintillante la c.d. baia di Haifa, con i due poli di Haifa e Akko.
All’ora di pranzo il nostro gruppo si sparpaglia per le vie del centro; con Mauro e altri tre o quattro ci sediamo in una simpatica bottega, che dà su una viuzza porticata, dove un giovane arabo svelto e sorridente ci serve in abbondanza hummus e falafel, davvero superbi.
Dopo aver lambito Nahariya, una bella cittadina di mare (ma non posso fare a meno di pensare alla furia infanticida di Samir Kuntar, ora libero di massacrare bambini ebrei a piacimento, magari dopo aver fatto il rituale saluto nazista), ci interniamo tra le verdi colline della Galilea, con campi e prati verdissimi. Non lontano dal confine libanese, ecco il “parco industriale” Tefen, che è uno degli “incubatori” per le “idee di prodotti”, collegato al Technion, l’Università tecnologica di Haifa. Il Governo israeliano, tramite il Ministero dell’Industria e Commercio, finanzia in buona parte questi centri (una sorta di ”laboratori per produrre nuove tecnologie”) con fondi che assicurano in media il 50% dei costi (la copertura restante viene da fondazioni private e da lasciti per la ricerca). Tali fondi per le imprese sono gestiti, sia dal punto di vista organizzativo che amministrativo, dalle Università in collaborazione con un apposito ufficio governativo: a chi “abbia un’idea” che possa trasformarsi in prodotto vendibile, completati tutti i controlli tecnici e di marketing, viene assicurato per due/tre anni un laboratorio, oltre ai supporti manageriali necessari. In tutto il Paese ci sono una trentina tra “parchi industriali” e “incubatori“. Essi forniscono, in molti casi, un apporto insostituibile per l’artigianato e la piccola impresa.
Da non dimenticare, in un’area del mondo dove la scarsezza d’acqua è un rilevante problema, come esistano, in Israele, “incubatori” destinati a sviluppare nuove idee e tecnologie dirette a far fronte al fabbisogno idrico.
A Tefen sono attive una quarantina di industrie, che ricevono un supporto finanziario per due anni purché si impegnino su quattro punti: essere tecnologicamente avanzate ma “senza rischi” per l’ambiente; condurre una ricerca di mercato sulla vendibilità del prodotto; brevettare il medesimo; preparare il proprio management. Il TEIC, l’altro incubator industriale gestito dal Technion -come ci spiega Angela, riportando le parole di Stef Wertheimer, figlio di un piccolo industriale, che ne è fondatore e presidente -, è stato edificato sulla convinzione che la parola chiave nel mondo economico d’oggi sia “creatività”. Dal 1991, anno dell’apertura del TEIC, ad oggi quasi sessanta sono le idee che hanno ricevuto il supporto per arrivare alla produzione su scala industriale, con un budget di 360 milioni di dollari.
Presso il “Parco Tefen”, dove lavora, abbiamo appuntamento con Immanuel Sokolovsly, riservista di fanteria con il grado di maggiore, lunga esperienza sul Golan: è un biondino di circa 45 anni, uniforme leggera in barba al forte vento, fucile a tracolla.
Ci troviamo in una zona detta “l’Unghia di Galilea”. In pullman ci rechiamo all’entrata del Kibbutz Misgav Am (lett.: Fortezza del Popolo; vi abita la sorella di Rabin) e ci affacciamo ad un belvedere da cui sono ben visibili le case libanesi.
Il vento si è un poco calmato…il pomeriggio è terso e l’aria profuma di rosmarino. Il Maggiore ci aggiorna sulla situazione al confine col Libano in un ebraico svelto e pratico, tradotto prontamente da Angela. Si sofferma sul pericolo rappresentato dall’Iran il quale cerca alleati tra gli sciiti dell’Iraq e del Libano meridionale, col fermo supporto di Hetzbollah, un autentico Stato nello Stato, forte di qualche migliaio di uomini, in grado di garantire una sorta di “Welfare islamico” alle popolazioni (come del resto Hamas al Sud).
Mentre il vero e proprio confine con la Siria è tranquillo, dal 1975; essa cerca di colpire dal Libano, con il quale è stabilito il confine dal 1999: da tale confine Israele difende la popolazione civile.
Ad una domanda in merito al ruolo delle forze ONU e alla loro efficacia, egli risponde che, mentre fino al 2006 esse erano costituite da 7500 effettivi, per lo più senegalesi e indiani, dal 2006 gli effettivi sono passati a 15.000, tra italiani e francesi; e ciò ha comportato un miglioramento della situazione.
Lasciato il nostro punto di osservazione nell’estremo nord ci fermiamo nella località di Tel Hai, per rendere omaggio all’eroica figura di Yosef Trumpeldor, il primo ufficiale ebreo dell’esercito zarista, coraggioso combattente nella guerra russo/giapponese del 1905 (dove perse un braccio), impegnato, durante il primo conflitto mondiale, nel Corpo dei Mulattieri di Sion a fianco della truppe britanniche. Convinto sionista, nel marzo 1920 rimase ucciso -insieme ad un gruppo di giovani, ragazzi e ragazze- mentre difendeva da un attacco arabo l’insediamento di Tel Hai. Un monumento raffigurante un leone in pietra che guarda verso la vallata ricorda il valoroso militare, figura importante nell’ethos nazionale, in un luogo ricco di memorie; sede, tra l’altro, di un importante “College” nonché di un Parco Industriale, dov’è possibile visitare un’interessante esposizione fotografica e un museo delle macchine antiche.
Ripenso ad un gruppo di riservisti, cinque giovani, uccisi proprio qui, nell’agosto 2006, a pochi giorni dal cessate il fuoco.
Discendiamo passando per
Kiryat Shmona (22.000 abitanti, così chiamata in omaggio agli otto caduti di Tel Hai;
Shmona in ebraico significa “otto”), la città più settentrionale di Israele, nella pittoresca valle di
Hule (
o Hula), il cuore di una delle regioni più belle dal punto di vista naturalistico. Nel corso dei decenni la città è stata oggetto di ripetuti attacchi terroristici, compiuti pressoché quotidianamente a mezzo di
razzi Katyusha sparati dal Libano, prima da parte dell’
OLP, poi da
Hetzbollah. Di recente è stata ancora colpita da quest’ultima formazione terroristica, la quale, in occasione della guerra del 2006, tra metà
luglio e metà
agosto, aveva sparato in questa direzione ben
1012 razzi.
La Valle di Hula, che attraversiamo, è il luogo dei miracoli e delle meraviglie, dove gli israeliani hanno operato a fianco della natura, trasformandola in una regione di verde bellezza. Fino agli anni ’50 del Novecento gran parte dell’area era occupata dall’omonimo lago con adiacenti paludi; il drenaggio delle stesse ha reso abitabile la zona e ottenuto un’ampia estensione di terra coltivabile.
Il lago centrale, poi, è stato lasciato come riserva naturale, così da conservare un biotopo per la fauna e la flora caratteristiche. Sappiamo che i visitatori possono vedere piante e animali indigeni, nonché uccelli migratori, assistere ad una presentazione audiovisiva e ad alcuni filmati, proiettati presso il centro turistico in loco, che descrivono come era la vita nella regione 50 anni fa.
Oggi non è possibile compiere questa interessante esperienza, ma prendiamo idealmente appunti per un nostro prossimo viaggio.
Passano le ore, il pullman attraversa la Galilea, che ora è un mare di luci.
E…“Angela, come si chiama quella città davanti a noi?” “Karmiel, il capoluogo della Galilea, fondata all’inizio degli anni ’60. E’ ben sviluppata, contrariamente ad altri centri nati nel medesimo periodo, come Mitzpe Ramon, per esempio; che tuttavia si sta riprendendo, dopo anni di crisi”. Karmiel, come altre “città di assorbimento” del resto, fu costituita per far fronte alle diverse ondate immigratorie; ultima rilevante, quella proveniente dall’ex Unione Sovietica, coi conseguenti problemi; ma, dato il recente crescere del “fenomeno antisemitismo” nell’Europa continentale, ci si sta attrezzando per accogliere persone e gruppi da questi Paesi. La “Vigna del Signore”, Karmiel cioè, gemellata con Denver, Pittsburg e Metz, vanta 44.000 abitanti ed è stata la prima città israeliana a ricevere il certificato internazionale ISO 9002 per la qualità dei suoi servizi.
Tutto “sembra” calmo, in pace, ma ricordo la guerra di due anni e mezzo fa:
“Venerdì 4 agosto [2006] è stato un altro giorno di morti per il nord di Israele: un diluvio di razzi Katyusha, oltre 200 di cui 130 nel solo pomeriggio e 70 lanciati nello spazio di un’ora, hanno ucciso 3 persone e ne hanno ferite un centinaio, alcune in modo grave. Una pioggia di Katyusha è stata lanciata su Karmiel poco prima delle ore 18 locali, uccidendo due persone nei villaggi di Majdal Krum e di Dir el-Assad. Non sono ancora state rese note le identità delle vittime. Da notare che alcuni dei razzi sono atterrati ad est delle alture del Golan, poco distante la città di Quneitra, ossia in territorio siriano. Non sono state segnalate vittime o danni. Nel pomeriggio un razzo ha centrato in pieno un’abitazione a Maghiar, uccidendo sul colpo Manal Azzam, una donna di 27 anni, e ferendo i due bambini della Azzam. Maghiar è un villaggio israeliano abitato da drusi, cristiani e musulmani….. “
Fa buio quando arriviamo alla nostra metà: il Kibbutz Lavi (Leoncino, di Giuda of course), dove siamo ospitati nel relativo albergo per due notti.
Il luogo è ben ordinato ed organizzato, assomiglia, ma l’atmosfera è più accogliente, a certe strutture universitarie d’ispirazione cattolica frequentate negli anni giovanili, dove il superfluo è abolito, ma l’essenziale è di discreto livello.
Terminata una rapida cena, Angela ci augura “Laila tov” (Buonanotte) e se ne va tutta contenta, addentando una mela.
25 FEBBRAIO, MERCOLEDÌ
Il giorno dopo, di buon mattino, Reuma, una studentessa poco più che ventenne (ha appena terminato il servizio militare) e membro del kibbutz, ci fa da guida tra i vialetti del villaggio in mezzo ad una folta e curatissima vegetazione. Racconta come la struttura nacque, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ad opera di un gruppo di giovani -poco più di una trentina, dai 20 ai 23 anni di età- provenienti dalla Germania e dall’Austria, i quali, rimasti orfani, si erano, in precedenza, rifugiati in Gran Bretagna.Si trattava di religiosi praticanti e Lavi ha conservato tale carattere.
Oggi, nel Paese, vi sono circa una quindicina di kibbutzim religiosi, su una maggioranza di laici (esistono attualmente tre organizzazioni, o centrali, kibbutzistiche che raccolgono le diverse strutture a seconda dell’orientamento).
All’arrivo dei giovani fondatori, tutto all’intorno era incolto e sassoso: essi all’inizio disponevano di un solo mezzo di trasporto e di una sola….doccia. Mentre visitiamo, con una certa emozione, una delle prime baracche in legno (1955), Reuma ci spiega come, nel corso dei decenni, la ”cultura del kibbutz” sia cambiata: dall’ugualitarismo povero dei primi tempi, dove ognuno lavorava all’interno della struttura, si è passati via via ad una certa liberalizzazione. Diverse persone si impiegano all’esterno, pur versando lo stipendio al kibbutz; da tempo si fanno viaggi all’estero, per studio o diporto, poiché ciascuno riceve un budget che spende come vuole.
E questa specie di grande botola avete senz’altro indovinato che cos’è: sì, un rifugio contro gli attacchi aerei e missilistici da parte di chi ci vorrebbe distruggere. Reuma pronuncia queste parole con un sorriso disarmante.
Anche la leggendaria educazione dei bambini in comune, nelle case ad hoc costituite, con le metapelet (bambinaie), ha perduto la rigidità originaria, per consentire ai piccoli di passare maggior tempo con i genitori. Ci mostra la grande sala da pranzo comune, tuttora funzionante, ma, aggiunge, vi sono da tempo anche cucinotti all’interno delle singole abitazioni. Lavi, in cui vivono circa 700 persone, ha sempre mantenuto buoni rapporti con i villaggi e centri arabi limitrofi; svolge una certa attività produttiva, sia in campo agricolo e dell’allevamento del bestiame (è in uso una macchina per mungere le vacche “temporizzata”, sì da non violare la santità dello Shabbat) ed artigianale (produzione di mobili per sinagoghe). La maggior parte degl’introiti viene reinvestita; il resto è distribuito in parti uguali; la denuncia dei redditi non viene presentata dal singolo contribuente, ma è dovere del kibbutz.
Una particolare attenzione è riservata agli anziani: essi dispongono di case più confortevoli e vicine ai servizi sociali.
Lasciamo Lavi per alcune ore, diretti alle cascate del Giordano. Attraversiamo una parte molto verde della Galilea, in cui i campi coltivati si alternano a zone selvagge, il Monte Hermon innevato davanti a noi; penso alle genti che popolano questa regione: ebrei (la maggioranza, sia pure di poco), arabi, drusi, circassi……e mi viene in mente Edna Calò Livne, per tutti Angelica, che da tanti anni abita qui, con la sua famiglia, il suo Teatro di Pace conosciuto nel mondo. Anzi ieri, con il pullman, abbiamo lambito, sia pure per un attimo, le case del kibbutz in cui vive, Sasa.
Non c’era il tempo materiale di fermarsi; ma ho pensato a lei, a Yehuda, suo marito e prezioso collaboratore, ai loro ragazzi. Spero che non se ne risenta, della mancata visita, quando verrà a sapere di questo nostro soggiorno in Israele. Ma l’anno prossimo, visto che il viaggio sarà dedicato “ai Kibbutz” (im), una sosta da lei, tra le nuvole, sarà di rigore. Passiamo davanti ad un altro kibbutz, che porta un nome noto in letteratura, Gan Dafna….Exodus, col racconto dei piccoli evacuati di notte, imbavagliati perché non gridino, e fatti andare lontano, al sicuro perché gli adulti si apprestano alla battaglia per la sopravvivenza.
Cammina, cammina….sia pure in un comodo pullman…saliamo quasi “fin dove finisce Israele” direbbe Orah nel “Cerbiatto” di David Grossman.
Ecco un luogo evocativo come non mai: le cascate del Giordano, in una riserva naturale di eccezionale bellezza. Scendiamo lungo un sentiero, agevole ma reso un po’ fangoso dalle recenti piogge, per ammirare i salti del fiume da vicino.
Ci osservano, mentre si godono il silenzio di quell’incanto selvaggio, con musica dell’acqua in lontananza, un gruppo di “conigli delle rocce” o procavie. Sono grossi roditori, simili a marmotte, muso simpatico e bel mantello marrone; non temono l’uomo, tuttavia, prudenti, non si avvicinano a noi, percepiti come estranei.
Riscuotono invece la loro fiducia alcuni giovani, accampati con la tenda a pochi passi. Si tratta senz’altro di ragazzi che, terminato il servizio militare (la Tzavah), preferiscono ad un soggiorno in India o in Estremo Oriente -opzione ancora scelta, ma non così di moda come un deci/quindicennio fa- la (ri)scoperta del proprio Paese, più genuina e, tra l’altro, più conveniente, in questi tempi di crisi finanziaria mondiale. Del resto anche Orah e il secondogenito Ofer avrebbero dovuto compiere un’escursione in Galilea; insieme loro due, madre e figlio, se non che…….
Quei giovani hanno iniziato a percorrere , ci spiega Angela, il cosiddetto Israel Trail. Un viaggio a piedi per tutto Israele -da Tel Dan nel Nord fino ad Eilat nell’estremo Sud, per circa 1.000 Km, passando nei luoghi posti sotto la tutele della SPNI, Società per la Protezione della Natura-; un modo nuovo non solo per conoscere e/o rivisitare luoghi e monumenti, ma per incontrare un macrocosmo di popoli, religioni, civiltà, familiarizzando con gli occasionali compagni di avventura.
Achille -chiamato da Mauro Ulisse, non per la “ferocia” di virgiliana memoria, ma per le osservazioni e domande perspicaci- riflette ad alta voce, duettando con Angela, sulle diverse etnie e “mescolanze” in Israele. Il c.d. “meticciato”. Dunque, ricapitoliamo: ebrei di diversa provenienza, arabi israeliani (mussulmani e cristiani), arabi non israeliani (i palestinesi, sempre in attesa di una precisa sistemazione, anzitutto istituzionale), ma “Ci sono pure arabi ebrei….dico bene, Angela, o no?” Lei ride e annuisce col capo.
Tanto Achille è loquace, burlone, quanto il nipote Federico, ventottenne laureato in Ingegneria, convinto vegetariano, è silenzioso. Ma osserva e riprende tutto con una macchinetta fotografica digitale di “ultimissima” generazione.
Le cascate sono maestose. Mentre sostiamo per le foto di rito e accarezziamo i primi fiori di primavera, mille suoni e luci ci incantano.
Nel risalire per riprendere il pullman, vediamo lungo il pendio, in mezzo agli arbusti, la carcassa di un mezzo militare e una targa “in ricordo di…….[seguono nominativo e grado; purtroppo non ho fatto in tempo a scriverli], caduto nella guerra dello Yom Kippur il….”
Dovunque, in Israele, ci sono monumenti funebri: cippi, steli, ciò che resta di una jeep o magari di un carro armato. La storia del Paese, con le guerre e le ferite; nulla è dimenticato.
Frequentatissimo dai turisti e dai pellegrini cristiani, il sito, poco oltre, delle sorgenti del Giordano.
Banyas, dedicato in antico al dio Pan -donde il nome; ivi sorgeva un importante santuario a lui dedicato, di cui restano rilevanti resti, oltre a notevoli costruzioni di epoca ellenistica- era l’antica Cesarea di Filippo, fatta costruire da un figlio di Erode il Grande, Filippo appunto, in onore di Cesare Augusto.
Proprio qua Gesù, che non sceglie mai a caso i luoghi in cui compiere gesti significativi o pronunciare affermazioni importanti, chiede ai suoi discepoli chi ritiene la gente che egli sia. L’episodio ci è tramandato sia dal Vangelo di Marco (8, 27-30), sia, in forma più completa quanto a Pietro, dal Vangelo di Matteo (16, 13-20). Leggiamo Marco: “Poi Gesù se ne andò, con i suoi discepoli, verso i villaggi di Cesarea di Filippo; strada facendo, domandò ai suoi discepoli: Chi dice la gente che io sia? Ed essi gli risposero: Giovanni il Battista; altri poi Elia e altri uno dei profeti. Ma egli replicò: E voi chi dite che io sia? E Pietro gli rispose: Tu sei il Cristo… E [egli] impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno”.
E Matteo, dopo tale affermazione di Pietro, riporta le successive parole del Maestro: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa….le porte degli inferi non prevarranno su di essa…..”.
Angela ci ricorda che il Giordano ha ben sei sorgenti e che, fino alla guerra del 1967, Israele aveva il controllo solo della sorgente chiamata Dan. Percorriamo questa regione ricca di meraviglie naturali, le Alture del Golan, da decenni oggetto del contenzioso con la Siria.
Già nel 1964 (e dunque prima della c.d. Guerra dei Sei Giorni) la Lega Araba aveva progettato di deviare l’Hashbani (un affluente del fiume Giordano) all’interno del Libano, incanalandone le acque in eccesso verso il Banyas (altro affluente) in Siria, nonché di deviare le acque del Banyas verso lo Yarmuk a vantaggio della Giordania; il tutto per privare Israele di una parte considerevole delle proprie risorse idriche. Vi furono persino scontri militari fra siriani ed israeliani dopo la conferenza d’Alessandria nel 1964, allorché fu affidato all’Egitto il comando militare dell’operazione volta a mettere in atto il piano della Lega Araba senza ostacoli.
Dopo la vittoria nella guerra del 1967, dove Israele fu attaccato proprio da Siria e Giordania, furono trovati accomodamenti con la Giordania in ordine alla spartizione idrica.
Il regno hashemita, grazie all’intelligenza politica di Re Hussein, maturò negli anni l’esigenza di riconoscere lo stato Ebraico; riconoscimento ufficiale avvenuto il 26 luglio 1994, con il vero e proprio trattato di pace tra i due Stati; in base al quale essi hanno deciso la riallocazione delle acque dei fiumi Yarmuk e Giordano.
La Siria invece perse le alture del Golan e rimase fuori da una strategia di pace.
Il Golan è il punto di confluenza di circa il 45% delle risorse idriche del Paese.
Senza un trattato di pace e cooperazione con la Siria, attribuire le alture del Golan alla stessa sarebbe assolutamente pericoloso non solo per la sopravvivenza dello Stato Ebraico, ma anche per quella di un futuro Stato Palestinese (per sbugiardare la consolidata “bufala”, anche europea, secondo cui Israele “ruberebbe l’acqua” -oltre la terra, beninteso!- ai suoi vicini, è necessario rammentare come il primo -Israele- fornisca ai secondi -i Palestinesi- 50 milioni di metri cubi d’acqua l’anno, anziché 40 milioni, come pattuito dagli Accordi di Oslo).
La popolazione dell’altopiano ammonta a circa 40.000 persone, di cui poco meno di 20.000 drusi, 16.000 ebrei e 2000 mussulmani.
Attraversiamo alcuni villaggi drusi caratteristici, molto ben tenuti ed ordinati. I drusi (in tutto 700.000) sono un popolo misterioso, che crede nella metempsicosi ed è seguace di una setta religiosa, originariamente musulmana, fondata nell’XI secolo in Egitto, che tuttavia si riferisce a Ietro -suocero di Mosè- come profeta e maestro.
La dottrina drusa è piuttosto complessa perché accoglie in sé elementi dell’Islamismo, del Giudaismo, dell’Induismo e del Cristianesimo; i suoi principi sono svelati solo agli adulti maschi per cui è difficile averne informazioni certe. Venerano il Nuovo Testamento e il Corano, ma leggono i loro testi in appositi luoghi di riunione detti khalwa . Simbolo druso è la Stella.
Nel luogo d’origine furono perseguitati dai Sunniti, perché considerati per così dire, eretici; essi quindi si rifugiarono nei Paesi limitrofi e oggi vivono tra Israele, Territori palestinesi, Libano, Siria e Giordania.
Le alture del Golan sono state sotto amministrazione militare (israeliana) tra il 1967 e il 1981, anno in cui la Knesset approvò la “Legge delle Alture del Golan”, ponendo le stesse sotto il diritto civile, l’amministrazione e la giurisdizione israeliana. Ciò ha portato la regione ad un notevole livello quanto a sviluppo economico; sul piano dell’agricoltura, dell’allevamento del bestiame, del turismo (vi è un certo numero di parchi e riserve naturali). Inoltre, proprio la legislazione dello Stato ebraico ha consentito alle ragazze arabe e druse di accedere all’istruzione, in precedenza loro interdetta.
Vediamo in lontananza la città di Quneitra (recuperata dalla Siria a seguito dell’armistizio di cui fu principale artefice, nel 1974, Henry Kissinger) e gli insediamenti delle forze ONU, che stanno a guardia della zona cuscinetto, costituita nella medesima occasione. La maggior parte dei non ebrei residenti nelle alture del Golan, soprattutto drusi, ha rifiutatodi rinunciare alla cittadinanzasiriana, anche se la cittadinanza israeliana è stata messa a loro disposizione.
I drusi residenti in Israele possono comunque svolgere il servizio militare nell’esercito (per la cronaca, alcuni militari rapiti e uccisi da Hetzbollah erano drusi).
Campi coltivati, vigneti -il vino israeliano più pregiato nasce qui-, siti naturali di incantevole bellezza……
E intanto ascoltiamo dalla voce di Angela l’avventurosa, tragica storia di Elie Cohen (1924/1965), il più celebre agente del Mossad, ebreo nato in Egitto. Infiltratosi nel 1962 sotto falso nome in Siria, come uomo d’affari, era riuscito ad entrare nelle grazie dell’élite politica di quel Paese, al punto da visitare, unico civile, le installazioni militari per mezzo delle quali la Siria colpiva l’odiato vicino e progettava un’azione militare su larga scala. A tale proposito egli consigliò ai suoi interlocutori siriani di piantare alberi di eucalipto accanto a dette postazioni, per occultarle meglio. Naturalmente gli israeliani ebbero notizia di ciò ben presto. Egli scoprì pure i piani per deviare le acque degli affluenti del Giordano al fine di privare Israele di preziose risorse idriche. Smascherato per caso, fu impiccato pubblicamente a Damasco (dopo aver subito torture e un processo farsa); i suoi resti non sono mai stati restituiti alla famiglia.
L’avvocato di Cohen racconta di lui in un libro dal titolo Il nostro uomo a Damasco. Fu essenzialmente grazie alle informazioni di Cohen che Israele riuscì a vincere la Guerra del 1967 sul fronte siriano.
Il pullman ci conduce alla base della Fortezza di Nimrod, dove compiamo un’escursione in un altro luogo davvero incredibile. Ci avventuriamo tra i resti, peraltro imponenti, di una rocca costruita nel 1200 dai musulmani, poi conquistata dai crociati e infine ripresa dai primi.
La fortezza era stata collocata in un punto strategico per controllare la parte nord della strada che si estendeva dall’area della costa mediterranea alla città di Damasco, dominando la magnifica vista sulla valle di Hula nell’alta Galilea, sulle alture del Golan, il Monte Hermon e le montagne del Libano.
Immaginiamo, in mezzo a torri, fossati, scale…ed una prigione; aspre lotte tra Crociati e Arabi.
Passiamo a pochi chilometri dal centro principale del Golan, centro industriale rilevante, oltre che sito ricco di reperti archeologici ebraici dell’epoca del Secondo Tempio, senza fermarci per mancanza di tempo -sarà per la prossima volta, Qazrin!-. Uno splendido paesaggio primaverile, con campi di banane a perdita d’occhio e distese di fiori gialli, un eldorado incredibile…
E’ una regione di grande interesse turistico, naturalistico, nonché economico.
Tiberiade si annuncia con siepi di bouganvilles e bananeti. Guarda l’ingresso al kibbutz Degania!
Il lago Kinnereth si era annunciato da un po’; ora vorresti sdraiarti al sole sulle sue rive, ma non è possibile; dobbiamo operare una lieve deviazione, perché ci aspettano i fieri circassi. Sapevo ben poco, fino ad oggi, di questa popolazione, originaria del Caucaso.
I circassi furono espulsi dalle loro regioni natali alla fine del XIX secolo, dopo una serie di rivolte contro il potere russo zarista. Poiché dal sec. 12° essi sono mussulmani (dal 5° secolo al 12° furono cristiani; in precedenza pagani), trovarono rifugio nelle varie regioni che costituivano allora l’Impero Ottomano, grazie alle apprezzate abilità guerresche che li portarono a formare la tradizionale guardia pretoriana del Sultano di Istanbul.
Si costituirono comunità circasse, oltre a quella tradizionale egiziana, in Siria, Libano, Giordania (qui la comunità fu numerosa), Kosovo (finché non furono sottoposti a pulizia etnica da parte degli Albanesi e rimpatriati nel 1998), oltre che in USA, nello Stato di New York e del New Jersey. I circassi nel mondo sono circa 5.000.000. In Terra di Israele, dove vivono fin dal 1880, ammontano a circa 4.000 persone, concentrate nei villaggi di Kfar Kama e Rikhaniya.
Ben inseriti all’interno dello Stato, essi svolgono il servizio militare e sono proprioquelli di cittadinanza israeliana ad aver mantenuto intatte, più degli altri, le loro usanze.
Israele, porto delle minoranze; ben diverso dal monolito dell’integralismo ebraico descritto dai suoi detrattori. Senza contare i tanti colori diversi secondo i quali si declina la stessa identità ebraica.
Si fermiamo a Kfar Kama, in un posto di ristoro caratteristico, dove, serviti da una donna in costume, gustiamo specialità circasse a base di formaggi e verdure. Poco dopo un bel giovane, di nome Zohar, padre di una bambina di pochi mesi, c’intrattiene, nel piccolo museo della comunità, sulla storia e le tradizioni della sua gente, dopo aver indossato, con una abilità teatrale, mantello e berretto tipici. La lingua è antichissima ed onomatopeica, ricca di ben 64 fonemi. Un tempo, spiega, i bambini dai 7 ai 14 anni erano allevati dalla comunità; ad essi veniva insegnato ad essere persone responsabili, a montare “sopra e sotto il cavallo” e a non avere paura; al momento del ritorno in seno alla famiglia, il ragazzo riceveva in dono una spada. Zohar insiste sulla solidità e l’importanza dei legami familiari e ci fa conoscere un’insolita usanza; vi è un solo periodo nell’anno durante il quale un uomo cerca moglie: i mesi di Agosto e Settembre.
Matrimonio! Siamo davvero fortunati, al nostro ritorno a Lavi.
Nel kibbutz si celebra un matrimonio, cui assistiamo anche noi ospiti; in una serata di fine inverno, che è già una promessa di primavera.
La felicità di Avital e Menahem è riflessiva e luminosa al tempo stesso; sui loro volti si alternano sorrisi contagiosi espressioni raccolte in preghiera…….Anche lo sposo si veste di bianco indossando una candida tunica, aiutato da parenti e amici. Tutto l’universo sta sotto la huppah dove lo Shemà Israel è proclamato a gran voce mentre si alternano tanti amici rabbini giunti a complimentarsi. Viene frantumato il calice, per non dimenticare mai la distruzione del Tuo Tempio, Gerusalemme.
La gioia degli sposi siede su un trono d’argento trainato da un fiammante trattore.
26 FEBBRAIO, GIOVEDI
Lasciamo Lavi e percorriamo la Galilea, diretti in primo luogo al Monte delle Beatitudini.
Il lago è molto calmo stamani, i giochi di luce e colore con le essenze sulle rive creano una dolce magia.
La mattinata di oggi fa perno su una figura affascinante, carnale e spirituale al tempo stesso: Gesù di Nazareth, Yehoshua ben Yosef. Sì, il figlio di Miryam, quella matriarca che, durante un certo banchetto di nozze a Cana di Galilea, dava gli ordini ai maestri di cerimonia, molto sicura di sé, incurante che il figlio, sulle prime, non volesse mettersi in mostra perché preferiva discutere con i suoi discepoli di questioni importanti; e anzi l’avesse trattata con toni tali da far battere in ritirata qualsiasi brava donna di casa; ma non certo lei: “Fate quello che lui vi dirà” (e poche storie. Credete a me: ne vedrete delle belle).
Il Maestro amato dalle persone sensibili, a cominciare dalle donne, e dagli “irregolari” di ogni specie, ma inviso ai potenti, da lui fustigati con la forza del sarcasmo; che parla con l’autorità di chi è permeato dalle Scritture, ma sa ridere e giocare coi bambini, li ama e li propone come esempio per gli adulti -ricordate il passo di Marco: “….E, preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me…. ”?-; che, appena può, si allontana dalle folle -specie da quando è a divenuto quasi di moda far parte della sua sequela, o almeno avvicinarsene-, ma ama stare a tavola con gli amici, anzi le sue “creature” più belle nascono proprio a tavola; del tutto incurante che altri lo vedano piangere la morte di un amico. Con uno sguardo ti dice seguimi, butta all’aria le tue piccinerie, ma non t’impedisce di essere te stesso, ti chiede solo di sintonizzarti con lui -il che è assai più difficile di quanto possa sembrare a prima vista-.
Un Ebreo “al cubo”, innamorato del suo popolo, al quale troppi hanno cercato di espropriare l’identità. Ma questa è un’altra vicenda, troppo complessa per narrarla qui.
Ghinnosar, la Genesareth dei Vangeli, ha dato il nome ad un grande kibbutz, fondato verso la fine degli anni ’30, nella fertile pianura. Qui si trova un importante centro, dedicato all’ecologia e all’archeologia della zona, l’Yigal Allon Center, dove operano numerosi studiosi di tutto il mondo. Poco più di vent’anni fa dal fango affiorò lo scheletro di una barca, che gli scienziati fanno risalire al I secolo d.C. Forse non sarà la stessa imbarcazione dalla quale Gesù insegnava alle folle, ma il richiamo è forte!
Il reperto si trova in un ambiente protetto ed è curato dall’Istituto di conservazione del legno antico, cui collaborano alcuni esperti italiani. Tutt’intorno vi sono bananeti; a causa della guerra del 2006, i cui nefasti effetti sono giunti fin qui, solo ora è stato possibile veder crescere nuove piante: era necessario infatti attendere circa un biennio al fine di consentire al terreno di esaurire l’acidità dovuta agl’incendi (dei quali gli organi di informazione italiani non hanno pressoché mai dato notizia). Nell’estate 2006 anni di duro lavoro sono stati vanificati in pochi minuti dalla furia dei razzi Hetzbollah lanciati su Israele. Migliaia di alberi ridotti in cenere, animali morti, a cominciare da quelli nati in primavera, e un’intera catena alimentare distrutta. Il Keren Kayemet Leisrael, la più antica istituzione ecologica del mondo (nata nel 1901) per la bonifica, la valorizzazione e il rimboschimento della terra di Israele, si è messo subito al lavoro e notevoli, significativi risultati li abbiamo visti con i nostri occhi.
La nostra prima meta si trova su una modesta altura, in un suggestivo anfiteatro naturale che degrada fino al lago Kinnereth. Da qui immaginiamo Gesù mentre pronuncia il “Discorso della Montagna”, circondato dalla folla e dai discepoli: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli………. Beati quelli che sono affamati e assetati di giustizia, perché saranno saziati.……” (Matteo 5, 1-13).
In cima alla collina c’è una chiesa moderna, degli anni Trenta, opera dell’Arch. Barluzzi (attivo negli anni 1910/1940), a pianta ottagonale, in basalto locale, circondata da un portico. Ciascuno degli otto lati della chiesa è dedicato ad una delle otto beatitudini, mentre la cupola simboleggia la nona di esse, che ne è la sintesi: “Beati voi, quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e, mentendo, diranno contro di voi ogni sorta di male per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché il vostro premio è grande nei cieli; poiché così hanno perseguitato i profeti che sono stati prima di voi…”.
L’interno è molto semplice, con finestre a feritoia, dalle quali si gode un bellissimo panorama sul lago. Incontriamo diversi gruppi di fedeli africani, nei variopinti costumi tradizionali, che pregano cantando e ballando, con una spontaneità ignota a noi, occidentali tiepidi.
Poco lontano, in una località chiamata Tabga (corruzione del nome greco Heptapegon, Sette Fonti), la tradizione cristiana ricorda l’episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Mc. 6, 32-44).
Qui era stata edificata, a metà del IV secolo, una piccola chiesa dedicata a S. Pietro, poi distrutta e ricostruita più grande verso il 480 e.v., nella quale vennero scoperti, negli anni ’30 del secolo scorso, affascinanti mosaici, un vero atlante naturalistico della flora e fauna che arricchiva la zona attorno al lago. Non mancano elementi misterici ed esoterici; ma c’è pure la rappresentazione di un “nilometro” (apparecchio per misurare le piene del Nilo); particolare che ha avvalorato l’ipotesi che gli autori fossero maestranze egiziane. I mosaici sono conservati nella basilica recentemente ricostruita (custodi sono monaci benedettini tedeschi); dietro l’altare, un celebre mosaico (di mano diversa) ricorda il celebre episodio evangelico: due pesci che circondano un paniere colmo di pani, segnati da una croce.
Poco oltre, sulle rive del lago, sorge la Chiesa del Primato di Pietro, dove Gesù, secondo la narrazione di Giovanni (al cap. 21), riconfermò Pietro a capo della Chiesa, dopo la Resurrezione.
Mentre ci incamminiamo verso il pullman, faccio due chiacchiere con Ileana e Valeria, sorridenti e felici di questa esperienza; “Non siamo certo ‘nuove’ di tali luoghi, noi due” confidano col gentile accento vicentino “Abbiamo compiuto diversi pellegrinaggi, anche nel corso di un solo anno, con evangelici, cattolici, altri, senza alcuna preclusione, per arricchirci sempre più ogni volta”.
Entrambe sono di confessione evangelica.
Cafarnao (Kfar Nahum, villaggio della consolazione) era, ai tempi di Gesù, uno sviluppato centro commerciale, con un ufficio di dogana e punto di passaggio per le carovane dirette a Oriente. Vi abitano Pietro e il fratello Andrea con i rispettivi gruppi familiari e Gesù lo sceglie come sede privilegiata del suo insegnamento, dopo aver lasciato la fredda Nazareth. La cittadina è citata nei Vangeli per tante, diverse storie della vita quotidiana, come la guarigione della suocera di Pietro (Mc 1, 29-31) o, sempre riportato dallo stesso Autore (Mc. 2, 1-12), l’episodio del paralitico fatto calare, perché il Maestro lo liberi dal suo male, da uno di quei tetti a canne e fango tipici delle modeste case locali a un piano, in basalto nero.
Vediamo i rilevanti resti dell’antica Sinagoga, risalente al V secolo d.C., costruita sopra quella frequentata da Gesù e dai suoi discepoli.
Facciamo una breve sosta a Tiberiade, stazione climatica invernale nota per le sorgenti terapeutiche di acqua calda, dinamica cittadina a 200 metri sotto il livello del mare, sulla faglia afroasiatica che corre lungo tutta la valle del Giordano, centro importante; dal punto di vista religioso e culturale, per il popolo ebraico, già dal secondo secolo. Rammentiamo che il Talmud -quel vastissimo insieme, soprannominato “mare”, di tradizioni rabbiniche costituito da Mishnah e Gemarah, messo per iscritto dopo lo distruzione del Secondo Tempio- c.d. “di Gerusalemme” o “palestinese” fu composto proprio a Tiberiade (più complesso e completo è quello c.d. “babilonese”, Bavlì, il Talmud per antonomasia).
Tiberiade è considerata dalla tradizione una delle città “sante” dell’Ebraismo (insieme a Gerusalemme, Hevron e Safed). Un reverente pensiero al grande Maimonide, a Rav. Yohanan Ben Zakkai e a Rav. Akiva, le cui tombe si trovano qua e immediati dintorni.
Risaliti in vettura, percorriamo territori lussureggianti. Sostiamo in un luogo pianeggiante, dove vediamo una centrale idroelettrica; qui, dove il Giordano e il suo affluente Yarmuk si incontrano, viene pompata, in notevoli quantità, l’acqua inviata in Giordania, in forza degli accordi israelo/giordani del 1994. La località si chiama Naharayim Aram ed è soprannominata “l’Isola della Pace”: un lembo artificiale di terra tra le due rive del Giordano, divenuto celebre perché vide la realizzazione del progetto di Pinhas Rutemberg e Moshe Novomeski, due ebrei russi (il primo ingegnere e leader sionista dell’Yishuv) di sfruttare le acque del fiume per produrre energia elettrica (cosa comune in Italia, ma non in questi Paesi, assai più poveri dal punto di vista delle risorse idriche) e, nello stesso tempo, unire in un’opera comune arabi ed ebrei. La zona fu occupata dalla Giordania dal 1948 fino al 1967, quando, a seguito della Guerra, venne conquistata da Israele. Nel 1994, col trattato di pace tra i due Paesi, Naharayim e’ tornata alla Giordania, che peraltro ha permesso a un kibbutz locale di continuare le coltivazioni agricole e le visite di turisti.
Purtroppo qui il 13 marzo 1997 si consumò un tragico episodio.
Quel giorno un folto gruppo di studentesse israeliane, dai 13 ai 15 anni, provenienti dalla cittadina di Beit Shemesh, stava compiendo una gita scolastica in pullman per visitare l’oasi naturale di Naharayim. Alcune tra esse, prive della guardia armata -che abbiamo sempre visto, a protezione dei gruppi durante questo viaggio- sconfinarono, sia pure di poco; da una torretta il militare di ordinanza -giordano di nazionalità ma palestinese di origine- non ci pensò due volte a far fuoco, prima di essere bloccato dai commilitoni. Sette adolescenti uccise, tutte tra i 13 e i 14 anni, altre 5 ferite, più una maestra. Il Re Hussein, profondamente addolorato per l’accaduto, domandò ed ottenne dal governo di Gerusalemme, Primo Ministro Bibi Netanyahu, il permesso di visitare le famiglie, durante la shivà, e chiese loro perdono.
Ci fermiamo per un affettuoso omaggio davanti a sette tumuli, con le foto e i nomi delle giovanissime vittime: Natalie, Shiri, Nirit, Keren, Ye’la, Adi, Sivan.
Splende il sole nell’azzurro limpido quando giungiamo al castello di Belvoir, località chiamata anche col nome, assai più evocativo, di Kochav Hayarden (Stella del Giordano) .
Mentre ci avviciniamo a questa imponente fortezza, che domina le valli del Giordano, appunto, e dello Yarmuk, Angela ci riassume le varie tappe della storia dei Crociati in “Terra Santa”, dalla presa di Gerusalemme nel 1099, alla loro definitiva sconfitta nel 1291, ad opera dei Mamelucchi, una casta militare d’origine egiziana, che dominò il Paese fino al 1517 ed aveva un vasto impero. Belvoir fu fatta costruire da Folco d’Angiò, divenuto re di Gerusalemme nel 1131 (una curiosità: suo figlio Goffredo dette inizio alla lunga dinastia inglese dei Plantageneti).
La costruzione, ottimo esempio di architettura militare, i cui resti lasciano indovinare l’antico splendore, ricorda un castrum romano; all’esterno si riconosce un pentagono, all’interno la pianta è quadrata. La doppia cinta muraria costringeva i nemici a un doppio assedio; essa resistette agli assalti del Saladino, fino alla sconfitta presso i Corni di Hittim (abbiamo intravisto in lontananza il luogo, ieri, allontanandoci dal kibbutz Lavi) del 4 luglio 1187, quando avvenne la capitolazione. La fortezza fu in seguito ripresa dai crociati, ma non più ricostruita.
Mentre passeggiamo tra gli spalti ammirando il panorama a perdita d’occhio nel silenzio rotto soltanto da un sibilo di vento leggero, che fa rotolare lungo i pendii cuscini di foglie e rami secchi, ritroviamo le famiglie di procavie e pure alcuni grifoni, qui trattenuti e curati poiché, spiega la nostra guida, hanno un’ala spezzata e dunque sono impediti nel volo.
Percorriamo la valle del Giordano, così importante per la vita di Israele, costellata da serre e campi coltivati dei kibbutzim sorti qui fin dalla fine dell’800. L’amore per la terra e la natura si sposano con una perfetta organizzazione e tecniche agricole avanzatissime.
Giungiamo in breve a Bet She’an, sul fiume Harod, nella parte orientale della fertile pianura di Yizre’el (o Esdrelon), dov’è uno dei più importanti parchi archeologici del Paese.
Gli scavi iniziarono, ad opera degli americani, negli anni ’20, per proseguire lungo i decenni grazie agli studiosi israeliani (sono stati individuati nel tempo ben 18 strati di stanziamenti!). Alla base della fortezza, sulle cui mura, secondo la narrazione biblica, fu esposto dai filistei il cadavere di Shaul, si sviluppò una raffinata città ellenistica, chiamata Scythopolis, in ricordo di un antico presidio di mercenari sciti. In seguito il centro fu dedicato al dio Dioniso, la cui amata balia, Nisa, aveva qua la sua tomba, secondo un’antica tradizione. Il teatro romano, riportato alla luce all’inizio degli anni ‘60, è il meglio conservato di Israele. Rilevanti sono pure i resti della basilica bizantina e della strada colonnata lungo la quale passeggiamo con Tiziana e Maria Pia.
Chicca e Luca, appassionati fotografi, sono impegnatissimi a scattare immagini lungo la bella strada romana colonnata; mentre il resto della compagnia si concede un gustoso spuntino sotto gli alberi.
Maria Pia, un buffo berretto a visiera che le dona un’aria da Giamburrasca, fa incetta di falafel, mentre io acquisto con un certo piacere la mia prima razione di miele israeliano, prodotto nell’Ein Harod Apiary (non lontano di qui), confezionato in un barattolo in vetro portante sul coperchio la riproduzione di una foto di alcuni pionieri su un carro agricolo.
Tea, sempre piena di entusiasmo, alterna la narrazione sulle prodezze dei nipotini alle sue avventure di crocerossina in Kosovo e Albania, mentre Valter si esibisce nel racconto di inedite barzellette, rese ancor più esilaranti dalla sua aria apparentemente flemmatica.
E’ ora di ripartire.
Quale aspetto avrà il Paradiso, terrestre o celeste che sia? Facile la risposta: quello del parco naturale di Sahne, in località Gan Hashlosha, un luogo ricco di cascatelle, prati verdissimi e, soprattutto, piscine naturali di acqua tiepida.
Vediamo coppiette, famiglie con bambini, turisti, qualche cane al guinzaglio, godersi questo luogo d’incanto assai ben tenuto, pulitissimo, senza che si veda una “mezza cartaccia per terra”.
Alcuni di noi non resistono alla tentazione di un bel tuffo. Comincia l’intrepido Achille, seguito da Luca e Federico….Poi tocca a Giuseppe che tenta invano di persuadere Donatella. Indi è la volta di Giulia. Giulia è, all’apparenza, una signora serissima: di poche parole, magari una professoressa, di quelle inflessibili; l’aria è di chi non si perde nemmeno nel deserto la notte, senza la bussola. A volte, durante le nostre trasferte, l’ho vista leggere la versione inglese del Jerusalem Post con la nonchalance di chi ha perfetta padronanza con la lingua (la conferma mi arriva perché l’ho udita anche parlare in modo spedito) e “sospetto” che se la cavi bene pure con l’ebraico. Insomma mi ispirava una certa soggezione; finché…finché non l’ho incontrata sul prato che si asciugava i capelli dopo una veloce nuotata, con la medesima disinvoltura impiegata nel leggere i quotidiani stranieri: “Mi sono buttata, che ci vuole….bisogna lasciar da parte tutta una serie di formalismi, ecc. Achille ha ragione”. Certo che ha ragione; ma non li seguo, complice un po’ di stanchezza (e inoltre non ho dei capelli “unproblematischen” come Giulia), ma Mauro non se lo fa dir due volte: aiutato da me, si spoglia, s’infila i boxer da spiaggia e via!
I territori dai quali ora passiamo sono costellati da comunità costituite dopo il 1967 come “cuscinetto” contro le infiltrazioni terroristiche, gli arcifamosi “insediamenti”.
Argomento incandescente; storia cronaca e politica, destini individuali e nazionali s’intersecano….e una compiaciuta disinformazione in materia sullo sfondo.
Angela telefona a casa, a Gerusalemme, per chiedere ai figli notizie sulla giornata. Tra mezz’ora sono da voi.
La città è annunciata da un notevole traffico veicolare, ancor più intenso nell’ora di punta (pqaqim).
Eccola.
Quando passiamo davanti alla Hebrew University, sul Monte Scopus, non posso fare a meno di pensare ad Anna Di Gioacchino, mamma di David Cassuto, la quale, vedova e sopravvissuta ad Auschwitz, era immigrata, dopo tante sofferenze (il marito Nathan era stato ucciso nella Shoah), nella Palestina mandataria. Lavorava come paramedico all’Ospedale Hadassa di Gerusalemme. Il 13 aprile 1948, nei giorni di Pasqua, il convoglio in cui si trovava, pieno di medici, infermieri e pazienti, diretto a Monte Scopus dove aveva sede l’Ospedale (una enclave ebraica in una zona sotto il controllo arabo, che tale restò fino al 1967) fu attaccato dagli arabi con mitraglie e bombe a mano. Anna perse la vita, come tutti le altre persone del convoglio; oltre una settantina. Tutti ebrei, tra i quali l’italiano Enzo Bonaventura, stimato psicanalista, che aveva dovuto lasciare il suo Paese a causa delle leggi razziali, cioè razziste, del 1938 (tempo fa gli è stata intitolata una strada a Gerusalemme, nel quartiere di Talpiot-Arnona).
Quando gli ammazzarono la mamma, il piccolo David Cassuto -un giorno diventerà un illustre architetto e vicesindaco di Gerusalemme- aveva undici anni.
Dal terrazzo del Monte degli Ulivi l’emozione non si può descrivere. Pur apparendomi, ad un primo sguardo, assai più grande di come me la ricordavo, questi tredici anni di lontananza non sembrano essere passati. In primo piano, proprio sotto di noi, l’antico cimitero ebraico, e, laggiù, la Città Vecchia, con i campanili, i minareti, la grande Cupola della Roccia d’oro scintillante; poi, a sinistra, la moschea al Aqsa, severa. Sullo sfondo i palazzi della città moderna.
Macchie di verde ben piazzate dappertutto a coprire le valli che solcano il territorio, alternate a quel colore delle costruzioni, una pietra bianca che non è proprio bianca, è molto molto più calda; al tramonto l’enrosadira made in Jerusalem ti avvolge a perdita d’occhio fino al deserto di Giudea e oltre.
Indovino, ancor più a sinistra, il baluginare di “qualcosa”, che desidero vedere da vicino quanto prima, nei prossimi giorni. Le opere avveniristiche mi hanno sempre affascinato.
Mentre scendiamo col pullman alla base, nel luogo noto come Getsemani, passiamo davanti alla Chiesa delle Nazioni (di A. Balduzzi, inizio degli anni ’20), così chiamata a ricordo del contributo di diversi Paesi alla sua costruzione. L’edificio è conosciuto anche come Basilica dell’Agonia, in memoria della notte che Gesù vi trascorse alla vigilia del suo arresto.
Il nostro albergo, il King Solomon, non è lontano dallo storico King David.
Alla sera, dopo cena, c’è un incontro con Sergio Della Pergola, Professore Ordinario di Studi sulla Popolazione Ebraica presso il Dipartimento di Studi Ebraici Contemporanei all’Università di Gerusalemme, demografo di fama internazionale (autentica, non vantata).
Ci raduniamo in una fredda saletta al seminterrato dell’albergo. Due porte laterali si aprono su ambienti interni simili a ripostigli, ma che ripostigli non sono. Si tratta di rifugi.
Rifugi. Servizio attentissimo di guardia all’ingresso. E non è certo tutto. Immagino tanta vigilanza non visibile, ma ben presente.
Se questo mi rammenta purtroppo che ci troviamo in uno Stato che è in guerra, suo malgrado, da prima di nascere, tuttavia provo pure una strana serenità, data dalla consapevolezza forte degl’israeliani, dal loro fare sul serio nel difendere il Paese, al di là della vivace contrapposizione politica che a volte mi lascia assai perplessa.
Il Professore è la persona affabile di sempre, un amico con il quale fare quattro chiacchiere in libertà. E infatti ci intratteniamo in modo familiare sui temi caldi degli ultimi tempi: la guerra a Gaza e le consultazioni in atto per la formazione del nuovo governo dopo la recente tornata elettorale e il più vasto contesto internazionale, dove, tra le diverse emergenze, non va sottovalutato il diverso atteggiamento, nei confronti di Israele, assunto dalla Turchia da quando Presidente dello Stato e Capo del Governo di Ankara provengono dallo stesso Partito religioso; tuttavia esiste, tra Turchia e Israele, un’alleanza strategica, che va oltre le contingenze politiche e che ci auguriamo sia foriera di pace giusta.
Circa la recente guerra, Sergio Della Pergola ha ritenuto inevitabile l’opzione militare, data la minaccia di Hamas, sempre più articolata ed ingravescente nella pericolosità; resta da vedere che cosa farà ora il gruppo terrorista, oberato da forti perdite in uomini e soprattutto mezzi (armi e tunnel distrutti da Tzahalcon l’operazione Cast Deal), ma pur sempre dominante su Gaza, con le bande che spadroneggiano ovunque.
Quanto al secondo tema, il Presidente Peres si trova davanti ad un compito difficile, come non mai, richiedente tutta la sua esperienza e capacità mediatrice. Si possono ipotizzare vari scenari: una coalizione tutta “di destra”, con Likud, Israel Beytenu di Avigdor Lieberman e magari i religiosi; un governo con Premier a “rotazione”, come già si verificò nel 1984, con l’alternanza tra lo stesso Shimon Peres e Itzhak Shamir, mentre qui i protagonisti sarebbero Nethanyahu e Livni; o magari una “Grande Coalizione” tra Likud, Kadima di Tzipi Livni, Israel Beytenu. Vedremo, conclude il nostro ospite con un sorriso.
27 Febbraio, VENERDI
Stamani esploriamo la Città Vecchia.
E’ doverosa da parte mia una premessa su Gerusalemme. Due giorni di visita, sia pure intensa, e con una Guida che ti fa vedere la realtà attraverso i suoi occhi e il suo cuore, ma ti lascia tutto il tempo perché, a tua volta, te ne impadronisca secondo la tua sensibilità; due giorni, dicevo, non bastano a dare ordine a tutto ciò che la Città ispira. E l’incontro precedente, dell’estate 1996, pur rilevante, era stato troppo parziale e mirato per consentire una valida sintesi.
Cercherò di catturare i pensieri e i sentimenti lasciati su di me ed esprimerli, al termine dell’esperienza, come meglio mi è possibile.
Dunque, eccoci alla visita alla Città Vecchia, con i suoi colori, profumi, vicoli in apparenza inestricabili, negozi, con l’apertura sotto le volte, che sembrano piccoli, ma che in realtà paiono non finire più, voci umane ed epoche diverse. Il fascino irresistibile del suq, mai banale. E guai dire che si assomigliano tutti: non è affatto vero. Qui c’è comunque una caratteristica; e non da poco. Il selciato e le sottostanti canalizzazioni, costruiti dalla municipalità di Gerusalemme dopo la riunificazione della città, non costringono più i passanti , nelle giornate di pioggia, a saltare qua e là per evitare di bagnarsi le scarpe nelle pozzanghere o di sporcarsele nel fango.
La Città Vecchia è circondata da mura lunghe quattro chilometri con sette cancelli, 34 torri, una cittadella posta all’interno delle mura -la cosiddetta Torre di David- ed è divisa in quattro quartieri residenziali: Mussulmano, Ebraico, Armeno, Cristiano.
Ebrei, romani, bizantini, arabi, crociati, mamelucchi, turchi…e di nuovo ebrei, come Stato di Israele, a governare la Città, che ha, per l’Ebraismo e per ogni singolo ebreo, qua e nel resto del mondo, un valore irripetibile (non compreso appieno da molti).
Entriamo ora nel “Tunnel”, l’antico passaggio sotterraneo che si estende lungo il perimetro occidentale del Monte del Tempio, una sorta di galleria sottostante un’antica strada davanti al cosiddetto Hakotel Hama’aravi, il “Muro occidentale”, cioè il tratto superstite del muro, fatto costruire da Erode per sostenere la Piazza di 1.555.000 piedi su cui sorgeva, appunto, il Tempio, la cui prima costruzione è opera del saggio Salomone, il figlio di David, che non muove guerre, come il padre, ma promuove alleanze.
Il “Kotel”, così tutti chiamano il “Muro occidentale” (soprannominato in modo improprio “Muro del Pianto”) è il centro della vita ebraica, un’autentica sinagoga a cielo aperto, frequentato ad ogni ora del giorno e della notte, col sole o con la pioggia; dagli israeliani e dagli ebrei di tutto il mondo (e da tutte le persone di buona volontà).
Il Tunnel che percorriamo è composto da una serie di arcate e di scale in successione. Nei tempi antichi intorno al versante occidentale del Monte del Tempio correva una bassa valle, chiamata Tyropeion -oggi ricolmata a seguito delle costanti demolizioni e ricostruzioni- che separava il ricco quartiere di Erode dal Tempio, ed il desiderio di creare una congiunzione fu la causa della costruzione delle arcate che vediamo.
Il “ventre” del Tunnel è anzitutto un luogo di preghiera e di conoscenza di sé, come turista ti senti quasi un’intrusa. Allora, nel passare con silenziosa rispetto tra i fedeli assorti, vieni coinvolta senza accorgertene: non puoi fare a meno di lasciare anche tu in una fessura tra una pietra e l’altra, un bigliettino ripiegato nel quale hai consegnato te stessa.
Nel semibuio di un luogo unico, un’esperienza la cui luminosità non è offuscata dalla pioggia, prevista, già da qualche giorno, per oggi; e puntualmente arrivata.
Ritornati all’aperto, all’interno del quartiere musulmano, giungiamo alla c.d. Piscina Probatica e alla Chiesa di S. Anna. Ci troviamo in un luogo vicino alla Porta di S. Stefano, all’angolo nord-est rispetto al Tempio, dove, al tempo di Gesù, passavano le mura della città.
La Chiesa, definita la più bella di Gerusalemme, costruita dai Crociati nel 1140 nel caratteristico stile francese del XII secolo e dedicata alla madre di Maria, sorge nella zona della Città Vecchia dove, secondo il protovangelo di Giacomo, si trovava la casa di Anna e Gioacchino, i genitori della Vergine. Nel 1192 Saladino trasformò la chiesa in una scuola teologica mussulmana, l’iscrizione che ricorda l’avvenimento si trova ancora sopra la porta. Lungo i secoli la chiesa conobbe una inarrestabile decadenza. Tornò al suo splendore soltanto nel 1856, quando i Turchi Ottomani la offrirono alla Francia in segno di gratitudine per l’aiuto ricevuto nella Guerra di Crimea. Da allora il territorio in cui sono ubicate la Chiesa e la Piscina Probatica appartiene al governo francese. Dal 1878 la chiesa è affidata all’Ordine dei Padri Bianchi. Il relativo museo, che contiene gli oggetti di valore archeologico, reperiti negli scavi, non è aperto al pubblico, ma può essere visitato dopo aver contattato il custode.
La c.d. “Piscina Probatica ” di Bethesda (in aramaico: Bet-hesdá: casa della misericordia) deve il suo nome alla vicinanza di una porta della città, detta Porta delle Pecore (in greco: Probatikè).
Qui, secondo il bellissimo racconto dell’evangelista Giovanni (cap. 5), sempre attento al tema dell’Acqua, Gesù compie il miracolo della guarigione del paralitico. Questi attendeva invano il movimento miracoloso delle acque, che scorrevano nella piscina, provenienti dal quartiere nord e convogliate verso sud per le necessità del Tempio. Una memoria popolare attribuiva potere terapeutico alle acque poiché esse, scorrendo attraverso condotti e bacini, creavano ad intervalli l’impressione di un forte ribollire, ritenuto dal popolo opera di un angelo. Il primo che fosse riuscito ad entrare nella piscina dopo l’agitazione dell’acqua, si diceva, sarebbe guarito all’istante da ogni malattia da cui fosse affetto (Gv, 5, 4). Gesù si inserisce in questa tradizione, ma la supera col suo gesto salvifico, mandando a casa risanato il paralitico che, causa la sua infermità, non era riuscito fino a quel momento a tuffarsi nelle acqua prodigiose.
Percorriamo i luoghi che videro le ultime, drammatiche vicende della vita di Gesù. Immagino che pure la Via Crucis storica si sarà svolta in mezzo al chiasso, al vociare dei bottegai, all’indifferenza generale, con scarsi sguardi di pietà verso quel giovane condannato a morte che, pochi giorni prima, era stato acclamato dalla folla. Sono l’indifferenza dei più e l’abbandono dei discepoli, con i quali aveva condiviso l’avventura di tre anni, a farlo schiantare a terra più di tante torture fisiche. Solo due persone lo seguono mute, ma attente. Due donne. La Madre e Maria Maddalena.
Giungiamo al quartiere armeno, con i laboratori di pittoresche ceramiche.
Con Tea, Valter e Tiziana ci fermiamo a pranzo presso la Taverna Armena, un locale caratteristico, posto al seminterrato, in un ambiente dominato da un grande lampadario istoriato, pareti in pietra viva, ovunque bellissime immagini sacre, una musica lieve di sottofondo.
Mangiamo piatti di carne dal sapore delicato ma deciso, accompagnati da birra profumata.
Tiziana mostra sulla macchinetta digitale la foto del figlio di quindici mesi, Federico, e sorride di fronte ai buffi battibecchi tra Tea e Valter a proposito dei viaggi da loro compiuti qualche tempo prima proprio in Armenia. Mi rivolgo scherzosamente a Tea: “Signor Tenente [delle Crocerossine], se non si mette buona, scriverò male di Lei nel mio diario di viaggio!” Risata generale.
Parliamo di Antonia Arslan e dei suoi romanzi che narrano la tragedia armena, come la “Masseria delle Allodole”, del quale tutti abbiamo visto la stupenda trasposizione cinematografica ad opera dei fratelli Taviani, e l’ultima fatica, “La strada per Smirne”, acquistata prima di partire e che mi aspetta a casa.
“Gli Armeni sono rimasti inchiodati al loro passato” osserva Tea. Forse, rispondo, ma ciò è inevitabile se il genocidio sofferto dalla tua gente è ancora, per una ragione o per l’altra, misconosciuto.
Importanti, lo sottolineo ancora, i legami Ebrei e Armeni; anche alla luce di questo radicamento armeno a Gerusalemme, cui si pensa di rado.
D’altronde, la Turchia ha sempre avuto un legame forte con Israele, strategico, come si ragionava ieri sera; lo dovrà compiere, prima o poi, “quel passo”, come, a suo tempo, fece la Germania nei confronti della Shoah.
Ora una passeggiata per questi luoghi, quasi in silenzio.
Il quartiere armeno è il più piccolo dei 4 quartieri inseriti all’interno della Città Vecchia. Gli Armeni si insediarono a Gerusalemme nel IV secolo d.C spinti da motivazioni religiose. La bellissima Cattedrale di San Giacomo venne costruita probabilmente intorno all’XI secolo, prima della conquista crociata della città, sopra i resti di una chiesa bizantina; essa divenne in seguito il centro in Terra d’Israele per gli Armeni. Al centro della chiesa vi sono i resti di una cupola che poggia su 4 pilastri attraverso la quale splende il sole che getta luce sui dipinti che adornano i muri. Nel quartiere si trovano pure il Convento (detto anche dell’ulivo), la tipografia, il Seminario Maggiore per sacerdoti ed un Museo che racconta la storia del popolo armeno. Il più importante edificio del quartiere è la sede del Patriarcato, comprendente pure uffici ed abitazioni. In tutto vivono nel quartiere circa 700 persone.
Noi cinque, insieme a qualcun altro del nostro gruppo, assistiamo poi in S. Giacomo ad una cerimonia religiosa dal tono dolente e nostalgico, officiata da un folto gruppo di monaci vestiti di nero, col caratteristico cappuccio che simboleggia il sacro Monte Ararat.
All’uscita la pioggia ci sorprende, mentre salutiamo per via Giancarlo e Paola, diretti al S. Sepolcro; eroici perché lei si sta portando “a spasso” un’influenza, che la tormenta da alcuni giorni, dovuta ad un virus probabilmente contratto in aereo durante il viaggio di andata.
Torniamo in albergo per riprendere le forze dopo una mattinata densa di emozioni e di…..notizie storiche. Ci riposiamo in vista della cena di Shabbat, prevista per noi, suddivisi in piccoli gruppi, presso famiglie israeliane di origine italiana.
Mauro ed io, insieme a Tea e Valter, siamo ospiti di Carla e Lello Dell’Ariccia.
In taxi ci rechiamo in Rehov Nof Harim, una bella zona verde posta nella parte ovest della città, verso il Monte Herzl. Il padrone di casa ci viene incontro con l’ombrello.
Entriamo in un accogliente appartamento, dove Carla ci dà, a sua volta, il benvenuto.
Entrambi i coniugi hanno conservato un simpaticissimo accento romano: alcune volte durante l’anno tornano in Italia, dove hanno amici e parenti.
Siamo in piedi intorno alla tavola. I candelieri sono già accesi; due a rammentare: “Ricordati” (di santificare il Sabato) e “Osserva”. Lello recita il Kiddush, in cui rende grazie a D-o per avere creato il mondo ed essersi riposato il settimo giorno, Carla aggiunge un’altra breve preghiera. Indi vengono benedetti il vino nei bicchieri e i due pani del Sabato (Challot) -simboleggianti la manna, raccolta nel deserto in dose doppia al venerdì, poiché di sabato non c’era-, ora coperti con un panno ricamato. Terminata la benedizione, il capofamiglia spezza una delle challot in piccole parti, vi sparge sopra un po’ di sale -ricordo degli antichi sacrifici- e la offre a noi commensali.
Il cibo è appetitoso, con sapori primigeni: carni dal sapore lieve e verdure coloratissime, gustose. Non mancano la pasta di ceci (hummus) e la pasta di sesamo (techinah) e, visto, che Purim è vicino, al momento del dolce, voilà le celebri “Orecchie di Aman”.
La serata trascorre piacevole. Lo studio di casa, organizzato secondo modernissime tecnologie, è zeppo di libri (mi pare che le tematiche politiche siano dominanti), alcuni appena usciti; quanto ad altri, pagheresti chissà che pur di averli. Qua e là fotografie dei figli e di altre persone care.
Lello mi onora con un regalo prezioso. Un volume dal titolo “Israeliani e Palestinesi. Torti, ragioni, speranze”, uscito in due tranches a distanza di qualche tempo l’una dall’altra, curato da una persona della quale ho un affettuoso ricordo e che spero di rivedere appena possibile, Nessia Laniado.
Qual è la motivazione alla base di questo contributo? La possiamo leggere nella presentazione. “Uno dei ricordi più vivi che ho di mio padre è di quando raccoglieva i giornali, li sfogliava e ritagliava tutti gli articoli…..che si riferivano al conflitto mediorientale. Voleva capire. Non accettava le semplificazioni, l’ideologizzazione delle posizioni, gli estremismi superficiali di qualsiasi parte essi fossero. Fu così che, quando venne a mancare, il 21 giugno 2002, ho pensato che il modo migliore per ricordarlo sarebbe stato quello di continuare in qualche modo quel suo tenace lavoro di informazione, indispensabile se mai si vuole arrivare ad una soluzione equa del conflitto.
E’ per questo che con grande piacere presento questa rassegna stampa, accompagnata da un’accurata cronologia degli eventi a tutti coloro che sono interessati a conoscere le cause, i miti, le ideologie, ma soprattutto i fatti, che fanno del conflitto mediorientale un rebus pressoché inestricabile. Abbiamo cercato di presentare gli articoli usciti sui giornali italiani e stranieri di ogni schieramento…..E’ mia ambizione che questa iniziativa, senza scopo di lucro, continui e si estenda in modo che possa trasformarsi in una pubblicazione periodica di aggiornamento….Invito…tutti coloro che volessero unirsi a questo progetto a collaborare con suggerimenti, idee e contributi. Con affetto. Lello Dell’Ariccia”.
L’opera è composta da due parti: sulle pagine di sinistra c’è una cronologia corredata da cartine e dati di approfondimento, in parallelo agli articoli di commento, posti sulle pagine di destra, così da consentire al lettore confrontare le tesi sostenute negli articoli con la sequenza dei fatti e l’oggettività delle cartine. Da un’occhiata rilevo diversi elementi e dati cui non avevo prestato la dovuta attenzione.
Circa tre anni fa (luglio 2006) avevo letto un’intervista a Lello (che ho conservato), apparsa su Kol Haitalkim, il bollettino trimestrale degl’israeliani di origine italiana, nella quale veniva data notizia dell’uscita del secondo volume, più o meno in quel periodo. L’amico tuttavia si rammaricava perché alla solidarietà e alle belle parole di apprezzamento ricevute, soprattutto, nell’ambiente ebraico italiano, non aveva fatto seguito “quell’aiuto concreto ed organizzativo” che gli era stato promesso.
Mi conferma tutto ciò anche stasera, senza tuttavia perdere l’ironia costruttiva che lo caratterizza.
Ringraziamo i coniugi Dell’Ariccia presso i quali, come rilevano con noi Tea e Valter al momento dei saluti, ci siamo trovati a casa nostra.
Arrivederci a presto.
28 Febbraio, SABATO
Il sole splende, ma talvolta ci fa lo scherzo di nascondersi corrucciato tra le nubi.
Il primo personaggio storico adottato come guida simbolica -insieme alla guida concreta Angela, ovviamente- è Sir Moshe Haim Montefiore, che oggi ci accompagna a Yemin Moshe, il primo quartiere ebraico sorto al di fuori delle mura della Città Vecchia, tra il Monte Sion e l’area adiacente la Porta di Jaffa,.
Sir Montefiore è tipica espressione del cosmopolitismo avventuroso dell’800 e mi stupisce che non sia conosciuto ed apprezzato dai più come meriterebbe.
Nato nella grande Comunità Ebraica di Livorno il 24 ottobre 1784 da genitori italiani originari di Pesaro e Ancona, terminate le scuole medie, entra ben presto nel mondo degli affari e del commercio; del resto queste erano tra le poche attività consentite in quell’epoca agli Ebrei.
Parte giovanissimo dalla città natale per cercare lavoro in Inghilterra e, a vent’anni, riesce a ottenere una licenza di agente di cambio presso la Borsa di Londra, dove i posti disponibili per gli Ebrei sono solo 12 e ad affermarsi come businessman di larghe visioni e prospettive.
Nonostante subisca pure alcuni rovesci economici -o forse grazie anche a tali dure esperienze che lo maturano- diventa un personaggio di primordine della finanza, in un mondo assai gravato, al di là delle apparenze, sia a livello legislativo che sociale e culturale, da potenti ipoteche antisemite. Il compiacimento per aver raggiunto importanti traguardi in un contesto difficile, grazie alle sue sole forze, è vista da lui come figura della soddisfazione del popolo ebraico che, nonostante le avversità, riesce con le proprie energie a mantenere intatte radici ed appartenenza e a costruire “qualcosa di grande”.
In una simile concezione di vita matura negli anni la scelta che lascia stupefatti sia l’ambiente finanziario che la cerchia più ristretta degli amici. Quarantenne, annuncia il suo ritiro dagli affari. Da quel momento in avanti, con l’aiuto della moglie Judith, dedicherà la sua vita e le sue energie, anche economiche, ad attività sociali e filantropiche nei confronti delle persone di qualsivoglia credo e nazionalità, ma soprattutto in difesa dei fratelli ebrei, a cominciare dalla stessa Londra, dove forti limitazioni condizionano gli stessi nella vita politica. Gli ebrei, infatti, non potranno in sostanza sedere in Parlamento fin tanto che non verrà loro permesso sia di giurare sulla Bibbia ebraica, sia di non pronunciare la formula, contenuta nello stesso giuramento, “come vero cristiano”. Montefiore e il cognato Nathan Rotschild guidano diverse delegazioni presso deputati e lords per far acquisire agli ebrei il diritto a far parte del Parlamento.
Nel 1840 Montefiore si reca dal Sultano turco per cercare di liberare dieci ebrei di Damasco accusati di omicidio rituale -l’antica calunnia del sangue, tuttora assai radicata nei Paesi arabo/musulmani, in particolare proprio in Siria; periodicamente sbandierata, ancora oggi, da personaggi illustri di quel Paese sugli organi d’informazione del mondo, senza che ciò peraltro susciti il doveroso sdegno, neppure in Occidente-.
Si reca di persona, armato di buona volontà, ma anche di ottime credenziali del Foreign Office, presso il governatore d’Egitto e presso il Sultano per ottenere la liberazione degli ultimi ebrei siriani ancora in prigione (a causa dell’infamante accusa). Anzi, quando il governatore (che fungeva, per così dire, da vice sultano) è finalmente disposto a scarcerare gli ebrei, Montefiore pretende ed ottiene che, nel decreto di proscioglimento, non sia contenuta la parola “perdono”, bensì la formula “onorevole liberazione”.
Nel 1858, purtroppo senza successo, si reca a Roma per cercare di liberare il piccolo ebreo bolognese Edgardo Mortara, battezzato di nascosto dalla cameriera cristiana e fatto rapire dalle guardie pontificie. Negli anni non dimentica la Russia, il Marocco, la Romania (nel 1867), sempre per casi di discriminazione e persecuzione antisemita, armato solo della diplomazia britannica, per la quale -espressione di un grande impero dotato di notevole forza economica e militare- ci fu un’ottima ricaduta a livello di immagine.
Spontaneo dedurre che tutto ciò prepara il terreno per la successiva “Dichiarazione Balfour” del 1917.
Questi viaggi, anche quando non hanno efficacia pratica, sono tuttavia di grande aiuto psicologico, perché risollevano il morale delle comunità ebraiche dell’Est Europa e dell’Oriente.
Montefiore, per tutta la sua lunga vita (muore nel 1885, a 101 anni!), ha contatti con i riformatori sociali del tempo, è attivo nelle iniziative pubbliche volte ad alleviare la persecuzione delle minoranze, collabora strettamente con le organizzazioni impegnate nell’abolizione della schiavitù. Un prestito governativo finanziato da lui e dai suoi parenti Rothschild permette al governo britannico (nel 1835) di compensare i piantatori e di abolire la schiavitù nell’impero coloniale.
Un capitolo a parte nella sua vita è il rapporto con la Terra di Israele, nella quale si reca ben sette volte, dal 1827 al 1875 (all’età rispettabile di 91 anni). Non si tratta solo di un richiamo religioso, sia pur presente. Già dal secondo soggiorno, nel 1838/’39, fa un accurato studio sulle condizioni di vita “dei figli di Israele viventi nella Terra Santa nell’anno 5599”, cioè il 1839. Egli progetta di chiedere alle autorità (al governatore d’Egitto, Mohamed Alì) una concessione di terreni per 50 anni allo scopo di costruire villaggi che potranno rivelarsi fonte di ricchezza qualora possano svilupparsi liberi da balzelli vari per tutta la durata della concessione; ottenuta la concessione, immagina di costituire una compagnia per la coltivazione del suolo. Tutto questo per incoraggiare i correligionari in Europa a ritornare nella Terra degli avi e sfuggire così all’antisemitismo sempre in agguato.
Tale piano non può essere attuato per diverse ragioni; tuttavia sir Montefiore (il primo baronetto ebreo!) realizza alcuni progetti notevoli in occasione dei successivi viaggi; come la fondazione di una tessitura, l’istituzione di una scuola femminile con orientamento pratico; l’acquisto, presso Jaffa, di un terreno che viene coltivato ad aranceto, il primo aranceto ebraico in terra di Israele.
Ma l’iniziativa più importante è quella che, negli anni 1860/’61, consente agli ebrei di Gerusalemme di abitare in un quartiere, non lontano dai Luoghi santi, ma tutto nuovo e assai più salubre dei vicoli umidi e malsani della Città Vecchia.
Il luogo in cui ci troviamo ora. L’idea forza del programma è quello di incoraggiare gli Ebrei residenti ad una vita più dinamica e produttiva: il piccolo orto al lato della casa è l’inizio di un’attività agricola; il Mulino (Montefiore’s Windmill), che alcuni di noi fotografano, un principio di attività industriale.
Lavoro e Libertà nella propria Terra: sionismo in nuce.
L’iniziativa prende l’avvio nel 1852 utilizzando anche il lascito di un facoltoso ebreo americano, Yudah Touro. Con il consenso del Sultano, Montefiore acquista una parte dell’area destinandola ad un grande edificio con una ventina di appartamenti. I primi abitanti individuati furono diciotto famiglie, sia ashkenazite che sefardite. Al sito viene dato il nome di “Dimora della Tranquillità”, Mishkenot Sha’ananim, ambiente oggi accuratamente ristrutturato, meta privilegiata di artisti e persone di cultura.
Montefiore ama profondamente Gerusalemme, della quale dice: “Nessuna città al mondo ha una migliore posizione di Gerusalemme, né esiste un clima migliore”.
Negli anni successivi altra terra si aggiunge per dar vita pure ad un secondo quartiere, Yemin Moshe, situato, come Mishkenot Sha’ananim, di fronte alla Città Vecchia.
Peraltro l’iniziativa non ha il successo sperato, per diverse cause oggettive e, in parte, per la riluttanza degli abitanti a trasferirsi dai luoghi originari.
Proprio qui, ci fa poi notare Angela, passava la linea di confine tra i settori giordano e israeliano della città nel periodo 1948/1967 -dal settore giordano si sparava periodicamente sulle zone abitate dagli israeliani- e durante la guerra di Indipendenza gli edifici furono seriamente danneggiati dai bombardamenti. Dopo la riunificazione nel 1967 iniziarono grandi opere di ristrutturazione che resero la zona un quartiere elegante, ambito da intellettuali ed artisti. Nel Mulino oggi ha sede un interessante museo, lo Yad Montefiore.
In lontananza, verso sud, intravediamo la sagoma della parte in muratura -solo il 3% del totale- della barriera di sicurezza, costruita da Israele alcuni anni fa per difendersi dalle stragi della seconda cosiddetta Intifadah, in realtà guerra in piena regola, che ha ucciso oltre mille cittadini, in maggioranza civili. Iniziativa che ha suscitato, com’è noto, lo scandalo del mondo intero al calducccio, ma che ha permesso la riduzione degli attentati di una percentuale pari ad oltre il 90%.
Una ferita, certo, che dà idea dello stato di guerra e che addolora; ma i muri si possono abbattere, quando se ne verificano le condizioni. Delle barriere elettroniche è possibile spostare il tracciato, com’è previsto e com’è successo, a seguito di reclamo diretto alla Corte Suprema di Gerusalemme.
Ma un essere umano non si può riportare in vita.
E tanti, sopravvissuti fuori, si sentono forse morti, dentro? Spero tanto di no; ma occorre un coraggio sovrumano per continuare ad andar avanti, istante dopo istante, “dopo”.
Passiamo ora per un bel quartierino, chiamato Kfar David (Villaggio di Davide). Esso è compreso nel vasto complesso denominato Mamilla (dal nome di un vicino cimitero musulmano), nato da un progetto del celebre architetto israeliano Moshe Safdie. Detto complesso, che giunge fino alla Via David (la principale arteria commerciale della Città Vecchia), comprende sia una vasta area commerciale, che zone residenziali di lusso; come appunto Kfar David, costituito da edifici bassi caratterizzati da archi, cupolette e vialetti impreziositi da piante ornamentali con fiori di diverse specie.
Angela ci mostra un edificio di una certa importanza storica: ospitò Theodor Herzl durante la sua visita nel 1898; si chiama Casa Stern, se non ricordo male (“Se lo vorrete, non sarà un sogno”).
Due nostre compagne di viaggio triestine, Marinella e Diana, simpatiche signore bionde che ti fanno pensare al “Presnitz” e a “Trieste-Porto-dell’Impero”, sono armate di apparecchi fotografici d’ultima generazione; da vere esperte si prodigano con Mauro e con me in consigli di carattere tecnico. Per l’odierno pomeriggio libero da impegni hanno già programmato un’escursione ad immortalare Betlemme.
Giungiamo all’altro “pezzo forte” della mattinata, la “Cittadella” o Torre di David, che racchiude il locale Museo della città, ivi ospitato dal 1989.
La fortezza non ha alcun rapporto col sovrano della Bibbia (tale denominazione pare risalga all’epoca dei primi pellegrinaggi cristiani), ma venne fatta costruire da Erode il Grande su fondamenta asmonee per difendere il muro settentrionale di Gerusalemme, da sempre il punto più debole. Alle sue tre torri egli diede il nome di tre persone a lui care, Mariamne, la moglie (fatta successivamente assassinare), Fasael, il fratello, e Ippico, un amico. Attualmente solo la base della torre di Fasael è sopravvissuta, e la fortezza, date le considerevoli dimensioni, venne distrutta solo parzialmente dai Romani durante la prima ribellione del 66/70 d.C. (peggio le andò nel 135) e mantenne il ruolo di baluardo nei successivi periodi islamico, crociato, turco fino alla prima guerra mondiale. Proprio da qui il Gen. Allenby dichiarò nel 1917 la liberazione di Gerusalemme dal governo turco.
All’inizio del nostro percorso assistiamo alla proiezione di un filmato sulla storia della città nel quale l’illustrazione animata di Lele Luzzati si accompagna al testo di Meir Shalev; un palpitante biglietto d’ingresso a cura di due geniali personaggi la cui consonanza l’uno con l’altro ti intenerisce.
Tra torri, fossati, cammini di ronda e sale -con uscite all’esterno per tuffarci in panorami mozzafiato, nell’aria ventosa- ripercorriamo la storia di Gerusalemme dal periodo cananeo ai giorni nostri. Mentre la preziosa Angela ne dipana il gomitolo -dai testi di Tel el Amarna, all’incontro, narrato nel Genesi, di Abramo con il Re di Salem Melchisedek, e via lungo i millenni fino alle alyoth, fino all’oggi, al moderno Stato di Israele- soffermandosi sui diversi problemi presenti fin dall’antichità, a cominciare dall’approvvigionamento idrico, ci impadroniamo di questo luogo, unico al mondo, grazie anche all’ausilio di materiale audiovisivo diverso, ricostruzioni, plastici.
E nell’istante in cui acquisti un po’di confidenza, sorge fortissimo il desiderio di ritornarvi appena possibile.
Ripercorriamo veloci il Quartiere armeno e ci incamminiamo per il Quartiere Ebraico, dove incontriamo il Cardo crociato. Esso ripete il Cardo bizantino e il Cardo Maximus romano di Aelia Capitolina, la città fatta edificare dall’Imperatore Adriano sulle rovine di Gerusalemme dal 135 d.C., dopo la cacciata degli Ebrei.
La rete stradale di Aelia Capitolina si basava, secondo il modello romano, su due principali arterie, perpendicolari l’una all’altra. L’asse longitudinale era il Cardo Maximus, quella latitudinale il Decumanus. Il Cardo era la via delle botteghe e dei commerci e oggi, ristrutturato con cura, riveste l’antica funzione: negozi di pregio, ristoranti, “pozzi” attraverso i quali sbirciare laggiù, dov’erano le antiche mura dell’epoca biblica.
Lungo la strada, in una specie di rotonda, ci fermiamo ad esaminare una copia di una parte della cosiddetta “Carta di Madaba”, il noto mosaico del VI secolo d.C., custodito in Giordania, che rappresenta la Terra Santa e, in specie, la Città di Gerusalemme (in caratteri greci: Haghia Polis Yerushalaim). Nella raffigurazione, molto efficace, della città, è evidente la Basilica del S. Sepolcro ed immaginabile la cosiddetta Basilica Nea ovvero Nuova. Quest’ultima -della quale, non lontano da qui, sono visibili alcuni resti- era un rilevante luogo di culto bizantino fatto erigere dall’imperatore Giustiniano nel 540, proprio nella parte meridionale del quartiere ebraico (in odio agli Ebrei).
Con enorme soddisfazione vedo poi come siano terminati i lavori, iniziati meno di tre anni or sono (notizia su Ha’aretz del 28.11.2006), per la ricostruzione della sinagoga di Hurva, la più imponente ed importante in Terra di Israele fino alla Guerra d’Indipendenza, bombardata dai giordani nel 1948.
La Hurva (“Rudere”) aveva ospitato rilevanti eventi ebraici fino agli anni ’30 nel Novecento. Nel 1948, due giorni dopo la conquista del quartiere ebraico, i giordani bombardarono la sinagoga e il comandante giordano riferì al suo Quartier generale: “Per la prima volta in mille anni non rimane un solo ebreo nel quartiere ebraico. Nessun edificio è rimasto intatto e ciò rende impossibile il ritorno degli ebrei”. Quella zona avrebbe dovuto essere Judenrein per l’eternità, se ho ben capito.
Beh, mi dispiace per voi, cari (si fa per dire) Profeti di Sventura. La Storia si è presa una bella rivincita.
Proseguiamo verso nord in direzione Porta di Damasco e giungiamo alla Basilica del S. Sepolcro, il luogo più conosciuto (e ahimé al centro delle più accese dispute) di tutto il Cristianesimo.
Il sito venne scoperto sotto il tempio di Venere, nell’angolo del foro occidentale della città di Adriano Aelia Capitolina, grazie a S. Elena, madre dell’Imperatore Costantino, che fece distruggere il tempio e costruire un’imponente basilica dedicata nel giorno di Pasqua del 326.
Parzialmente ricostruita nei secoli successivi da Giustiniano, la chiesa rimase intatta fino al 1009, quando il califfo Hakim distrusse tutto: per i musulmani era inconcepibile sia che un uomo si dichiarasse Figlio di D-o (D-o non può essere Padre, è incommensurabile rispetto agli uomini), sia che egli si lasciasse uccidere, come un qualsiasi malfattore. Restaurata in seguito, la Basilica all’epoca dei Crociati, nel 1099, era stata ricostruita solo per metà della sua grandezza originale, e tale è rimasta fino ad oggi
Nel XIX secolo, diversi studiosi disputarono l’identificazione della chiesa con il
vero luogo della crocifissione e sepoltura di Gesù. Essi ragionarono sul fatto che essa fosse all’interno delle mura cittadine, mentre i primi resoconti descrivevano questi eventi come accaduti fuori dalle mura.
Il sito era in effetti al di fuori, sia pur di poco, delle mura cittadine all’epoca della crocifissione; ma occorre considerare che esse
vennero ampliate da Erode Agrippa nel 41–44 d. C. Di conseguenza i luoghi menzionati nei Vangeli, cioè il luogo del supplizio e il giardino in cui Gesù fu sepolto, vennero a trovarsi all’interno.
Il Prof. Dan Bahat, a lungo archeologo ufficiale di Gerusalemme, ha scritto nel 1986: “Potremmo non essere assolutamente certi che il sito del Santo Sepolcro sia il luogo della sepoltura di Gesù, ma non abbiamo un altro sito che possa rivendicare di esserlo con la stessa forza, e non abbiamo davvero motivo di respingere l’autenticità dello stesso”.
Entriamo nella Basilica, carica di storia e di vicende, di Cristianesimo delle origini, di Bisanzio e Medio Evo, ma io fatico a trovarvi alcunché di mistico, di originariamente evangelico. Forse ad ostacolare la mia concentrazione è la massiccia presenza di monaci ortodossi, i quali hanno sempre molta fretta ad allontanare dai luoghi principali -“S. Sepolcro” e “Calvario”- coloro che percepiscono non essere loro confratelli (“Come on, come on….” incitano con toni, non certo cristiani, tali da non ammettere repliche), ma confesso che sulle rive del “suo” lago” di Tiberiade ho sentito molto più palpitante la presenza e la voce di Gesù, proprio perché intatte nella purezza originaria, senza perturbatori di sorta. Il suo amore per la vita e la libertà, tipicamente ebraici.
Sul piazzale della chiesa Angela ci presenta un personaggio importante: un uomo di mezza età, dal sorriso cordiale. E’ il capo dell’articolato gruppo familiare di fede musulmana, i Nusseibeh, che detengono le chiavi della Basilica dal lontano 1187.
Ritorniamo verso l’albergo percorrendo la zona del Quartiere Mamilla dedicata a negozi, in primo luogo di abbigliamento, e bar. Ci fermiamo a mangiar qualcosa in un locale dall’aria invitante. Noto che, esclusi noi, le persone che l’affollano, camerieri compresi, non oltrepassano i venti/venticinque anni di età.
Un attimo, ma solo un attimo, mi passa un pensiero tremendo per la testa: ecco un posto con gente colorata che ride e scherza. Ideale per un attentato. Laggiù, guarda, c’è perfino una famiglia con un paio di bambini….proprio ciò che cercano quei Moloch, amanti delle carni fresche.
Ma è solo un attimo, ripeto.
All’ingresso vigila una robusta guardia immigrata dall’Africa -infonderebbe tranquillità in chiunque-; e poi Maria Pia mi apostrofa: “E te cosa prendi?”
Il pomeriggio è dedicato a due carissimi amici ai quali debbo una visita da molto tempo: Anita e Hanan Olamy. Lei, nata Glass, triestina di nascita e di cultura (assai vasta, anzitutto in tema di sionismo), ha conservato l’accento originario, mescolandolo con la musicalità ebraica e venature spagnole. Queste ultime le derivano dal marito Hanan, nato in Argentina -se non sbaglio-, per lunghi anni ambasciatore di Israele in Venezuela e in altri Stati del Sud America.
Avevo conosciuto Anita circa otto anni fa, quando era venuta in Italia per un ciclo di conferenze sulla realtà israeliana organizzato dalla Federazione Nazionale delle Associazioni Italia / Israele (allora presieduta da Chicca), della quale, in quegli anni, facevo parte.
Era arrivata a Bologna ed aveva subito suscitato la mia simpatia per il tratto franco e cordiale. Per la verità, poiché sul suo curriculum vitae, trasmesso da Chicca alle varie Associazioni locali, avevo letto di approfonditi studi e di diversi incarichi di insegnamento, mi ero immaginata un personaggio altezzoso dalla voce nasale, pronto a mettermi in difficoltà, fingendo magari di avere dimenticato l’italiano, dopo tanti anni di assenza da Trieste, tra Israele e le varie parti del mondo. L’unica speranza era la tradizionale franchezza degli israeliani e la loro assoluta mancanza di fronzoli, che, speravo, non mi avrebbe abbandonata nemmeno quella volta.
Poco tempo prima, infatti, avevo accolto alla Stazione di Bologna, sempre per una conferenza, Dan Bahat, celeberrimo archeologo di Gerusalemme, professore negli Atenei più prestigiosi del Paese. Ricordo che era l’ora di pranzo; meditavo di riservargli un trattamento da ospite illustre in un ristorante bolognese; ma egli aveva insistito per un semplice panino con contorno d’insalata al Mc Donald aperto nell’atrio della Stazione (che si era prelevato e pagato da sé, nonostante le mie proteste). Si era seduto di fronte a me e quando avevo esordito cinguettante con un “Caro Professore, spero abbia fatto buon viaggio…”, era scoppiato in una risatona: “Chiamami Dany e dammi del tu”.
Anche nell’incontro con Anita la speranza non andò affatto delusa.
Il treno da Roma mi recò una signora in pantaloni, con un piccolo trolley al seguito portato con disinvoltura, capelli corti, sorriso largo, come l’abbraccio che mi riservò, accompagnato da espressioni affettuose, dalle quali si dedusse subito che l’italiano non l’aveva affatto dimenticato.
Alla sera ci intrattenne su diversi aspetti della vita quotidiana in Israele; poi ci recammo con Mauro in una pizzeria vicina, dove raccontò diversi aneddoti su alcuni giuristi italiani, tra cui Tullio Ascarelli, illustre docente di Diritto commerciale presso alcuni importanti Atenei, emigrato in Brasile a seguito delle leggi del 1938 (col quale credo abbia pure rapporti di parentela); e volle conoscere la causa della mia grande passione per lo Stato di Israele.
Nel tempo siamo rimaste in rapporti epistolari grazie ai messaggi e mail; e c’era sempre, da parte mia, la promessa “L’anno prossimo a Gerusalemme”. Promessa mantenuta oggi, in un pomeriggio piovoso, ma allegro.
Mauro ed io ci rechiamo col taxi in una zona abbastanza nuova (è stata costruita 30/35 anni fa) nella parte ovest di Gerusalemme, Ramat Sharett, idealmente in direzione En Kerem / Yad Vashem; un quartiere tranquillo, con costruzioni basse, in mezzo al verde. Piove in modo incessante da alcune ore e Anita ci viene incontro con l’ombrello, complimentandosi per la nostra costanza nell’affrontare una stagione così inclemente proprio nei giorni della nostra visita.
Entriamo in un appartamento confortevole, con tante scaffalature piene di libri. Ecco Hanan, finalmente incontrato di persona. Affettuosissimo a sua volta, si preoccupa di farci sentire a nostro agio. Raccontiamo delle impressioni di viaggio, mentre attendiamo gli altri ospiti.
Alle pareti foto storiche dei “Padri fondatori” di Israele: Golda (Meir), Ben Gurion, Shimon Peres, Itzhak Rabin (molto amato in famiglia), Ygal Allon; ritratti o da soli, in pose ufficiali, o in compagnia di Hanan, nelle varie occasioni. Ce n’è una, in particolare, molto bella: Hanan con Rabin, seduti ad un tavolo, entrambi sorridenti e in maniche di camicia.
Poi immagini dei figli, Gay e Ricky, e dei sei nipotini.
Giungono gli altri ospiti; due signore: Fausta Migdal e Miryam Padovano Schusterman.
Anch’esse di origine italiana, davvero simpatiche, mi chiedono con un ironico sguardo d’intesa, che mai si dice nel nostro Paese su Israele. Cercano di alleggerire il visibile imbarazzo da cui sono colta su questo tema, dato che mi sento, per così dire, responsabile (sempre!), verso gli amici israeliani, riguardo al pregiudizio persistente presso i nostri media -e conseguentemente presso l’opinione pubblica- nei confronti dello Stato ebraico. Affermano con serenità che forse le persone “a favore” sono più numerose di quelle “contro”; ma queste ultime urlano, a differenza delle prime.
Fausta porta un bel cognome, che mi ricorda Maria di Magdala, personaggio evangelico, ricco di sfumature, per il quale nutro una speciale predilezione, nonostante il romanzo di Dan Brown, Il Codice da Vinci, assai gettonato tempo addietro, quanto barbosetto e scontatissimo nelle sue elucubrazioni.
E’ acuta osservatrice della realtà politica del suo Paese ed esprime una certa qualche perplessità nei confronti della figura di Avigdor Lieberman, questa specie di orco, ora sulla bocca di tutti, e del partito da lui presieduto che ha superato i laburisti alle ultime elezioni. Rilevo che qualcuno non proprio politicamente corretto ogni tanto non va male.
“E’ più o meno come il vostro… Bossi?” “Beh non esattamente, Fausta”.
Miryam non solo è valente traduttrice dall’italiano in ebraico, ma vanta anche un’illustre rete di affinità, parentele e collegamenti.
Con le erre gutturali tipiche dell’ebraico/israeliano, come lo chiamo io, spiega come sua zia Gabriella, nata Ravenna, sorella della madre Valeria Grazia (quest’ultima emigrata nella Palestina mandataria nel 1939), fosse moglie dell’insegne giurista, Professore di Diritto ecclesiastico, Mario Falco.
Questi, nato nel 1884, aveva partecipato come ufficiale alla Grande Guerra, prima nel Genio, indi come avvocato nella Giustizia militare. Docente in numerosi Atenei (Torino, Macerata, Parma, Milano) aveva scritto opere fondamentali nel suo ambito disciplinare, ma, ebreo, aveva subito l’onta delle leggi razziali. Cacciato dall’Università, aveva promosso con altri la creazione della scuola ebraica di Via Eupili a Milano, insegnandovi egli stesso diritto. Morì nell’ottobre 1943 (circa due settimane prima della razzia tedesca al ghetto di Roma). La vedova e le figlie, Anna Marcella e Graziella, in grave pericolo e in balia degli eventi, furono ospitate e protette a Roma, da un allievo di Falco, a sua volta illustre giurista, Arturo Carlo Jemolo, anch’egli esperto dei rapporti tra Stato e Chiesa.
Per questo motivo il Prof. Jemolo, insieme con la moglie, ha ricevuto il titolo di “Giusto tra le Nazioni” dallo Yad Vashem.
Ma vi è un altro rapporto stretto tra Italia e Israele. Il nonno di Miryam, Felice Ravenna, membro di una nota famiglia ferrarese, fu un deciso sionista. Amico di Theodor Herzl (e da questi nominato nei suoi Diari) ospitò l’uomo politico nella sua casa di Ferrara nel gennaio 1904 e l’accompagnò a Roma all’incontro con Vittorio Emanuele III.
Le ore trascorrono in questa casa di famiglia, tra memorie, progetti, scambi di opinioni e gustosi cibi tipici che i padroni di casa ci offrono insieme al loro affetto.
1 Marzo, DOMENICA
Stamani lasciamo Gerusalemme.
Inutile dire che non me ne andrei mai da questa città, con la quale ho appena cominciato a prendere confidenza. Ma ritorneremo, certo, appena possibile. Magari chissà, può darsi che, prima o poi, nel corso dell’anno, riusciremo a ritagliarci tre/quattro giorni per prendere un aereo a fare un salto qui. Come quella coppia giovane che abita a Roma, incontrata due giorni fa -lui ebreo tedesco e lei italiana-: disponevano di un week end lungo e hanno deciso di passarlo a zonzo in Israele. Si erano rivolti al consolato per avere una guida esperta. Gli era stata segnalata Angela; così abbiamo passato insieme un po’ di tempo. Stamani partono anche loro, ma per Tel Aviv, con un’auto presa a noleggio.
Cerco di non farmi sopraffare dalla malinconia del distacco e penso che qui disponiamo già di una discreta base per (ri)visitare, trovare, approfondire, sognare…..Una base di luoghi e monumenti, ma, anzitutto, di persone. Gli amici appena conosciuti e quelli ritrovati.
E poi guai a dimenticare il “Rehov Hillel 27 Compound”! Così ho soprannominato tra me e me il luogo di aggregazione della Comunità di origine italiana, con la Sinagoga (trasportata da Conegliano Veneto e non è la sola ad aver compiuto l’aliah dall’Italia), il Museo d’arte ebraica italiana “Umberto Nahon”, il Centro studi e la Biblioteca. Un punto fermo che ancora non ho avuto occasione di conoscere di persona, ma che mi aspetta.
Con il pullman compiamo un lungo giro nella Gerusalemme moderna, diretti a Yad Vashem.
Tanti quartieri nuovi: alcuni sobri, luminosi; altri, per così dire, tumultuosi (ma questo accade in ogni area metropolitana), tali da sembrare partoriti da un’ansia costruttiva che mal si concilia con il generale equilibrio e la struttura particolare della città, tutta un saliscendi. Mi rendo conto però quanto le diverse vicende abbiano contribuito a creare una specie di patchwork, nel quale peraltro vedi l’unitarietà, alla resa dei conti, sia pure talora con un certo sforzo.
Angela ci mostra, alla nostra sinistra, Kiryat Ben Gurion, il centro amministrativo, politico ed istituzionale del Paese.
Proprio davanti all’Israel Museum e allo Shrine of the Book
ecco la sede del Parlamento, la Knesset.
E’ un’imponente struttura in pietra e marmo bianco in stile vagamente neoclassico; di fronte una grande menorah in bronzo, dono della Gran Bretagna. Poco più avanti la Sede della Corte Suprema, il massimo organo di giustizia, un edificio dalle forme a largo respiro.
Ad una distanza raggiungibile in pochi minuti di pullman giungiamo poi alla residenza del Presidente dello Stato, il Nassì, simbolo dell’unità nazionale: una villetta semplice, in sintonia con la cifra, il carattere del Paese.
Risaliamo di nuovo e, vicino alla Stazione Centrale dei Bus, finalmente il…baluginare che avevo intravisto di lontano la sera del nostro arrivo si materializza davanti a noi. Si tratta del pennone d’acciaio, alto 120 metri, posto sul nuovo ponte a servizio della metropolitana di superficie (che dovrebbe entrare in funzione l’anno prossimo, se ho ben compreso), di fatto una sorta di avveniristica porta urbica per chi arriva da Tel Aviv. Disegnato dal celebre architetto spagnolo Santiago Calatrava, questo dito metallico, visibile da qualunque punto della città, si eleva sopra un viadotto retto da 66 cavi che si aprono a raggiera, donando a tutta l’opera l’idea di una gigantesca arpa, l’arpa di re David, come ha pensato lo stesso Calatrava.
L’immagine biblico-musicale so che ha suscitato, come sempre accade in tali casi, entusiasmi e vivaci critiche; queste ultime provenienti in primo luogo da coloro che abitano a ridosso della struttura. Essi ritengono sbagliato che la stessa sia stata posta in un luogo troppo, a loro parere, affollato di case, persone, auto. Altre contestazioni riguardano l’elevato costo dell’opera (inaugurata all’inizio dell’estate 2008), altre ancora il metodo di scelta del progettista (a chiamata diretta e non a seguito di concorso). Come che sia e per quanto poco possa valere il parere di chi vede un’opera per la prima volta e rapidamente, a me “l’arpa” è piaciuta molto perché dà la chiara idea di una città, e di un Paese, volti alla vita e al futuro. Un’immagine che guarda al domani, ottimista.
In ogni caso, benedetta davvero la metropolitana; sia pur leggera, per cominciare! Il traffico è cresciuto in maniera esponenziale rispetto al 1996.
Penso a Gerusalemme, città duale; non si tratta di una fredda classificazione grammaticale, questa dualità l’ho percepita, nei contrasti.
Sacro e Profano. Luci e Ombre. Spazi vasti a perdita d’occhio e Chiusure con Mura e Torri. Colline e Valli (per lo più riempite di verde). Gioia e Dolore. Sogni e Progetti di Pace ed Esigenze dure di difesa. Duale com’è la vita.
Mi dispiace non essere ritornata sul “Monte del Tempio” o “Spianata delle Moschee”; ricordo, dal precedente viaggio, lo splendore degl’interni nella Cupola della Roccia e in al Aqsa, anche se la mia formazione ebraico-cristiana, che concepisce D-o come Padre, chinato con amore sui Suoi figli, prova una certa estraneità di fronte ad una concezione dell’Eterno come Inaccessibile, Insondabile, e talora Capricciosa, Realtà declinantesi in infinite Geometrie astratte.
Gerusalemme città concreta, di pietre e soprattutto di carne, ma, in un certo senso, anche mitica. Peccato che un illustre uomo di cultura come Antonio Paolucci, nel presentare una mostra di pittura in programma per ottobre nella nostra Rimini -“Rimini e la meraviglia. Da Rembrant a Gaugin a Picasso”-, abbia elencato alcune città “mitiche”, in Italia e all’estero, tra le quali, è ovvio, la stessa Rimini, ma non abbia menzionato Gerusalemme. Rimozione? Consapevole pregiudizio? Chissà.
“Io darò loro, nella mia Casa, e dentro delle mie mura, un luogo e un nome [Yad Vashem]……darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato” (Isaia 56, 4-5).
A breve distanza dal Monte Herzl, sulla cima del colle Har Hazikaron (del Ricordo) sorge Yad Vashem, un vasto complesso costituito da diversi edifici che custodiscono la memoria dei Sei Milioni di Ebrei d’Europa sterminati durante il nazismo.
A distanza di pochi anni dalla fondazione dello Stato aveva preso corpo, nella giovane/antica nazione israeliana, il progetto attraverso il quale perpetuare la memoria delle vittime dello sterminio documentando la storia del popolo ebraico in quegli anni tragici per mantenerne il ricordo, anzitutto per le nuove generazioni.
La legge istitutiva 19 agosto 1953 ha ufficializzato la nascita di questo Memoriale. L’espressione Yad Vashem, con il suo preciso riferimento biblico, intende porre l’accento sull’unicità di ogni persona morta nell’anonimato e nell’indifferenza dei campi di sterminio.
Percorriamo i diversi luoghi e momenti che compongono questo multiforme complesso, che è fuorviante definire tout court “Museo”, ben consapevoli che per comprenderne appieno il valore non sarebbe sufficiente un viaggio di dieci giorni. Esso è non solo il più importante e vasto centro studi, documentazione e rappresentazione (anche dal punto di vista delle arti figurative) al mondo in tema di Shoah, ma anche molto di più, come ci si rende conto proseguendo nella visita.
Rammento alcuni luoghi e momenti.
La “Tenda [o Padiglione] del Ricordo”, costruita in cemento armato a forma appunto di tenda, commemora l’uccisione di intere comunità ebraiche. Qui sono state sepolte le ceneri di alcune vittime dei forni crematori; dinanzi a una fiamma perenne sono scolpiti al suolo i nomi di ventidue campi di sterminio. Mi fermo a leggere quei nomi maledetti che non voglio scrivere qui e penso alle famiglie distrutte, alle vite portate via. In questo punto sostano silenziose personalità importanti e Capi di Stato; il Papa polacco abbracciò i cari amici ebrei degli anni giovanili.
Nella Roccia della “Valle delle Comunità distrutte” (1992) sono incisi i nomi di cinquemila componenti delle Comunità ebraiche di ventidue Paesi.
Nel repertorio di un gruppo musicale ebreo molto famoso in Gran Bretagna, The burning Bush, c’è un brano in yiddish dal ritmo sveltissimo intitolato “Hé! Zhankoye!”. Zhankoye era un villaggio della Crimea, sulla strada per Sebastopoli, distrutto dai tedeschi durante la guerra. Ma nel sogno della canzone esso è vivo e vitale, dove tutto è possibile: il contadino conduce il suo trattore veloce come un treno, le donne fanno funzionare le macchine….tutto quello che appare pazzo oltre ogni immaginazione laggiù si realizza. Zhankoye, Zhan, Zhan Zhan!!!!.
Nel 1987 è stato inaugurato il “Memoriale dei Bambini” (Yad Layeled), concepito da Moshe Safdie, che pure visitai in occasione del precedente viaggio, ma che ti scuote nel profondo ogni volta. Un milione e mezzo di piccoli uccisi solo perché ebrei, i cui nomi sono scanditi ininterrottamente da una voce che ti attanaglia le viscere mentre percorri quel lungo corridoio buio, e cinquecento specchi riflettono la luce di sole cinque candele.
Allo stesso Safdie è stata affidata la progettazione del nuovo “Museo”, da lui condotta a termine senza alterare l’aspetto dell’insieme.
La nuova struttura è stata inaugurata nel marzo 2005, quattro anni fa. Ha la forma di un lungo prisma che penetra nella collina e fuoriesce dai suoi due fianchi, illuminato da un lucernaio di vetro triangolare sulla cima. Dal prisma, che costituisce un corridoio interno lungo oltre 200 metri e presenta un percorso a senso unico, si staccano vari spazi espositivi che trattano diversi aspetti e momenti della Shoah.
Gli interni sono affidati a Dorit Harel, che vi ha installato un centinaio di video e diverse sale di proiezione.
Davvero coinvolgente è la rappresentazione della vita delle comunità ebraiche che dapprima è libera, aperta, poi man mano che l’orrore sia avvicina, diviene sempre più chiusa, con porte e finestre sprangate, cupa e terrorizzata. Fino alla morte.
Toccante nella sua originalità, in questo susseguirsi di esperienze intense, anche dal punto di vista visivo, la “Sala dei Nomi”, una stanza a pianta circolare ricavata dalla giustapposizione in sezione di due coni: sul cono superiore sono riportate seicento fotografie di vittime dei nazisti e i loro nomi, mentre quello inferiore è una piccola piscina nella quale le foto si riflettono.
Quando arrivi alla fine del percorso il prisma, insieme al tuo cuore, si apre sul panorama verde di Gerusalemme; meraviglioso anche sotto la pioggia di stamani. Israele, nella sua energia e vitalità trascinanti, è la risposta al programma di sterminio del nazismo, di ieri, e dei suoi epigoni, ancor più miserabili se possibile, di oggi. E dei loro, anche silenziosi, complici.
All’uscita, nell’atrio di ingresso, c’è un bel gruppo di giovani militari, di diversa provenienza. Un paio almeno sono originari dell’Africa, altri hanno capelli biondi, occhi azzurri e naso a patata dei contadini russi; poi ci sono gli studiosi occhialuti della buona borghesia di città…..e una tappetta sbarazzina, con tutta l’aria di essere il capo della compagnia.
“Vengono qua a caricare le batterie”. Roberto ha il pregio delle osservazioni giuste al posto giusto, da giornalista in gamba.
Sappiamo come la Shoah sia stata presente ben presto nella formazione militare delle reclute. Circa vent’anni fa venne distribuito da Tsahal ai soldati un bollettino dal significativo titolo “Dopo la Shoah”. Vi si legge, tra l’altro: “L’esperienza della Shoah ci riporta alla nostra condizione di uomini…Noi abbiamo l’obbligo di difenderci, ma dobbiamo anche preservare i nostri valori morali e rimanere vigili rispetto all’uso che facciamo della forza”.
Quando, in occasione della Intifadah, vi furono militari che rifiutarono di prestare servizio nei territori c.d. “occupati”, essi fecero riferimento alla Shoah per giustificare la disobbedienza ad ordini che reputavano illegittimi.
Se è corretto, secondo me, guardarsi dal vedere lo Stato di Israele come conseguenza della Shoah -o, se preferite, come un risarcimento, graziosamente elargito dalle potenze occidentali al Popolo Ebraico, per lo Sterminio perpetrato nei suoi confronti dalla Germania, in primo luogo, e dai suoi, più o meno silenziosi, complici, in seconda battuta-, ciò non solo perché sarebbe un grave errore storico, ma anche perché Israele va, diciamo assai oltre la Tragedia per antonomasia; tuttavia la Memoria di Quanto è Accaduto è ben presente, sotto la “crosta terrestre” dell’anima del Paese. Le cicatrici non sono scomparse: è sufficiente che parli con una, due persone, che leggi anche solo poche pagine di un autore serio, per rendertene conto.
La Shoah è un evento fondamentale nella vicenda del popolo ebraico; la sua storia, grazie agli sforzi del sistema educativo israeliano, è diventata patrimonio imprescindibile degli Ebrei nel mondo; condivisibile da tutte le persone di buona volontà.
Mesi addietro avevo letto che Yad Vashem ha lanciato, circa un anno fa,
un sito Web in lingua araba, spiegando che l’obiettivo è diffondere informazioni accurate nel
mondo arabo sul genocidio di 6 milioni di ebrei da parte dei nazisti. “C’è negazionismo, c’è revisionismo, c’è ignoranza in molte parti del mondo arabo,
ma sappiamo anche che c’è interesse tra molte persone ad essere realmente in condizione di apprendere informazioni sull’Olocausto“, aveva commentato Ester Yaari, una portavoce del Yad Vashem.
Un recente sondaggio indetto dall’Università di Haifa ha rivelato che il 28% dei cittadini arabi del Paese non crede alla Shoah.
Il nuovo sito Web comprende articoli accademici, documenti d’archivio e testimonianze video dei sopravvissuti, oltre a resoconti di non ebrei, tra cui musulmani, turchi e albanesi che hanno salvato la vita ad alcuni ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale.
Khaled Kasab Mahameed, che ha aperto nel 2005 un Museo della Shoah per cittadini arabi a Nazareth, ha lodato la decisione.
Come osservava la nostra Angela all’inizio della visita: la Dimenticanza porta all’Esilio; il Ricordo porta la Libertà. Eppure c’è chi, nonostante l’impegno di tanti, ha l’impudenza di rimproverare agli Ebrei, alle Comunità ebraiche di aver in qualche modo monopolizzato l’agenda della memoria con il tema della Shoah, impedendo (o quasi) ad altri drammi di ricevere l’attenzione che meritava.
Sono considerazioni, provenienti da una penna di prestigio, che non perde occasione per dare addosso a Israele e agli ebrei in genere (guarda un po’ dove ”regna la stizza”, si dice dalla mie parti), di una miseria morale e falsità senza limiti, oltre che improntate al più becero antisemitismo. E’ proprio l’attenzione al tema della Memoria, del “Ricorda” e “Osserva”, tipici della cultura ebraica, che rende possibile anche ad altri popoli (ri)scoprire le proprie vicende, anche tragiche -non si “superano odi antichi” semplicemente “dimenticando”, la propria identità profonda-.
Attraversiamo il “Viale dei Giusti” a passo veloce perché diluvia e siamo in grave ritardo.
Non ho il tempo per cercare gli alberi intitolati a tanti benemeriti dei quali conosco la storia. Vorrei ritrovare l’albero di Raoul Wallenberg, di fianco al quale ho una foto del 1996. E Schindler dove sarà?
Ritorneremo, promesso. Questo luogo è parte di me.
Le piogge dei giorni scorsi hanno reso impraticabile, almeno per oggi, la strada Stradale n. 90, che ci avrebbe condotto direttamente alla nostra meta, sul Mar Morto.
Compiamo un’ampia deviazione e attraversiamo il Deserto della Giudea, con i colori che variano dal marrone carico, al dorato, al crema…
Sassi, rocce con mille e mille grotte che nascondono chissà quali tesori. Incrociamo ben pochi veicoli lungo il percorso, non vediamo insediamenti, a parte qualche accampamento beduino, dalle tende colorate ondeggianti al vento e gli animali, per lo più pecore, lì accanto.
Tuttavia Angela ci dice, e non stento a crederlo, che il deserto in realtà non è affatto…deserto.: è, ma soprattutto è stato, un luogo popolatissimo. Eremiti, predoni, gente in cerca di avventure…
“Non si capisce Israele se non si conosce, almeno un po’, il deserto” osservava il padre domenicano archeologo che guidava il viaggio nel 1996. E raccontava di Shaul, David e dei Nabatei. “Quante civiltà, nate all’interno del deserto, sono poi….scomparse…”concludeva con un largo gesto delle braccia e voce lontana. Tra i tanti popoli scomparsi, ce n’è uno che è vivo più che mai.
Ci incantiamo davanti ad un incredibile arcobaleno.
Al confine tra il Deserto di Giudea e il Neghev sostiamo qualche minuto ad Arad, dove pernotammo, in occasione dello scorso soggiorno, all’Hotel “Yefe Nof.” Ricordo da allora un’aria limpida, cristallina e un cielo stellato sotto il quale facemmo una passeggiata, nel silenzio. Il mattino successivo compimmo una visita alla stupenda vicina Tel Arad, antica di circa 5000 anni.
Ora, mentre mi godo il clima di montagna profumatissimo, penso ad Amos Oz, qui residente da circa vent’anni, che ogni giorno, allo spuntare dell’alba, va “a vedere che cosa c’è di nuovo nel deserto”.
Poco dopo intravediamo davanti a noi la distesa color acquamarina del Mar Morto.
Scendiamo rapidamente e arriviamo in poco tempo a destinazione. Dai 600 metri sopra il livello del mare di Arad ai 400 metri sotto di Ein Boqeq.
Questa località è divenuta negli anni un rinomato centro di cura e soggiorno grazie anche ad una sorgente minerale calda utilizzata per scopi terapeutici fin dall’antichità. Le particolari condizioni climatiche e le proprietà dell’acqua creano una felice combinazione, che dà ottimi risultati, in primo luogo nella cura delle malattie dermatologiche. Un altro aspetto interessante: l’elevato contenuto salino degli strati inferiori del bacino consente di accumulare il calore solare, che viene reimpiegato nella produzione di energia. Vi sono diversi stabilimenti balneari, oltre ad alberghi, ciascuno attrezzato, all’interno, con la SPA (cioè i servizi di
benessere e cura del corpo).
Appena arrivati al nostro, dall’evocativo nome di Oasis, Mauro ed io ci concediamo un riposante bagno nella piscina a piano terra. Acqua calda dal profumo primigenio.
Non siamo sportivi come Achille e Federico: deposte le valigie, si sono buttati nell’antico “Mare di Asfaltite”.
Angela ha portato a tutti il bellissimo libro “Gerusalemme 360°” (presentato al Salone del Libro di Torino 2008 da Fiamma Nirenstein). La capitale di Israele è ritratta da un mago del settore, Enrico Formica, attraverso la “fotografia orbicolare”: la tecnica che consente di registrare, in un solo fotogramma, l’intera realtà circostante, con stupefacenti risultati. La presentazione è del Presidente Shimon Peres; i testi, relativi alle immagini, di David Cassuto, architetto, studioso della città e vicesindaco quando primo cittadino era Ehud Olmert; l’introduzione è di Angela, la quale confida i propri stati d’animo, da quando compì la aliah nel 1985 a oggi, mostrandoci Gerusalemme attraverso la sua vita di ogni giorno: sembra di sentirla parlare e sorridere.
“A Mara e Mauro. L’anno prossimo a Gerusalemme. Con affetto Angela”.
Alla sera dopo cena Tea e Walter, più che mai Ragazzi-Anni-Sessanta, ci coinvolgono in scatenati twist per un paio d’ore, mentre un’orchestrina composta da russi (qua i russi si….sprecano) canta e suona motivi in voga durante la nostra prima giovinezza. Un altro bagno, stavolta di nostalgia, ma che, contrariamente al solito, non ha nulla di triste, perché la gioia dei nostri amici è contagiosa.
Alle undici e mezzo, tutti a nanna. Domattina ci attende Masada.
2 Marzo, LUNEDI
“Intanto al governo della Giudea…era succeduto Flavio Silva. Questi vedendo che tutto il resto del paese era stato sottomesso tranne un’unica fortezza che era ancora in mano ai ribelli, raccolse tutte le forze che stavano nella regione e mosse contro di essa. Masada è il nome di questa fortezza. A capo dei sicari che l’avevano occupata c’era Eleazar, un uomo potente….”
Così ci introduce, attraverso le pagine del suo Guerra Giudaica, al luogo emblematico che visiteremo oggi, Giuseppe, figlio di Mattia (Joseph ben Matthias), nato a Gerusalemme nel 37 d.C. da una grande famiglia sacerdotale, divenuto, a seguito dei drammatici avvenimenti cui assistette, convinto sostenitore della politica di Vespasiano e Tito; Giuseppe noto a tutti come il grande storico ebreo Giuseppe Flavio (nome romano, quest’ultimo, assunto in onore dell’imperatore Tito Flavio Vespasiano). Morirà a Roma nel 100 circa.
Un poderoso roccione si eleva in solitudine a circa 400 metri sopra il livello del Mar Morto a una manciata di chilometri da Ein Boqeq.
Una comoda funivia ci porta in cima. Durante il breve percorso, mentre vediamo alcuni volonterosi turisti salire -o scendere- per il cosiddetto “Sentiero del serpente”, ammiriamo un paesaggio fantastico, in un intreccio incredibile di colori, tutte le tonalità del marrone della roccia e laggiù, l’azzurro pallido del Mar Morto.
Giunti alla rocca -fortificata per la prima volta da Gionata, uno dei fratelli Maccabei, nella lotta contro gli ellenisti della Siria- Angela ci narra la tragica storia di questo luogo, il cui nome in ebraico è Metzada. Soffia un forte vento quassù, ci stringiamo nelle giacche a vento, mentre la nostra Guida sfodera un copricapo a tesa larga che la fa assomigliare ad un’odierna Gertrude Bell.
Erode il Grande, costruttore di fortezze e, a suo modo, cultore del bello, fece di questo luogo una stupenda ed imponente residenza fortificata per sé e i familiari. Ad esempio, nel palazzo a nord, disposto su tre terrazze collegate tra loro da scale coperte, c’erano un edificio termale ornato da mosaici, un padiglione con colonne e un portico semicircolare affacciato sul deserto.
Il matrimonio tra Archeologia, intesa nel senso di monumenti in grado ancora di parlare al visitatore, e Natura è riuscitissimo in questo luogo. L’impatto emotivo è notevole, anche in una seconda visita (com’è nel caso di Mauro e mio).
Nel 66 d.C. il movimento partigiano degli zeloti (detti anche sicari dai romani, per la “sica”, il pugnale con cui compivano i loro assalti) occupò la fortezza. Dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70, le armate di Tito scesero verso sud per distruggere le ultime sacche di resistenza. Eliminarono Qumran, i cui abitanti (gli Esseni) avevano nascosto i loro preziosi manoscritti nelle grotte vicine, e puntarono decisi verso Masada, dove erano asserragliati poco meno di un migliaio di persone, guidate da Eleazar ben Yair.
Nei palazzi di Erode i ribelli avevano trovato abbondanti provviste, conservate anche grazie al particolare clima della zona, che impediva la formazione di parassiti, come annota pure Giuseppe Flavio nella sua opera. Avevano perfino coniato le monete: saranno infatti rinvenuti sicli d’argento con la scritta “Libertà per Sion”; nonché costruito una piccola sinagoga (che visitiamo), considerata la più antica del mondo.
I romani della X Legione Fretensis, capitanati da Flavio Silva, posero sotto la fortezza ben otto accampamenti; dall’alto vediamo molto bene questi “quadratoni”, con i loro muretti in pietra.
Per ben tre anni i romani cercarono di conquistare il luogo: allo scopo costruirono un vallo, una sorta di collina artificiale, riconoscibile ancora oggi, attraverso cui penetrare nella fortezza; bersagliarono Masada con proiettili lanciati da catapulte e balestre. Silva lanciò l’assalto decisivo solo quando fu sicuro che gli assediati non avrebbero opposto resistenza.
Quando si videro senza scampo, i difensori preferirono la morte alla schiavitù.
Giuseppe Flavio immagina un primo discorso di Eleazar, rivolto ai suoi, pieno di dignità e coraggio, all’insegna della necessità di uccidersi anziché cadere prigionieri dell’occupante: “ Da gran tempo avevamo deciso di non riconoscere come nostri padroni né i romani né alcun altro al di fuori di D-o…..Muoiano le nostre mogli senza conoscere il disonore e i nostri figli senza provare la schiavitù….”ma è necessaria una seconda perorazione, ancora più carica di pathos se possibile, nella quale egli pone l’accento sulla grandezza dell’anima quand’essa è separata dal corpo, per persuadere gli astanti che non vi era altra scelta che non il suicidio collettivo: “…grande cose può realizzare l’anima anche quando è prigioniera di un corpo….ma una volta che….raggiunge la sua sede naturale, allora ella partecipa di un potere straordinario che non patisce alcuna limitazione, continuando ad essere invisibile agli occhi umani come lo stesso D-o….”; egli racconta, con accenti orgogliosi e tragici, l’amara sorte di coloro che non difesero la patria ebraica (come i “giudei di Scitopolis”), vagheggia la fine che farà chi si illuderà di vivere arrendendosi al nemico.
Angela ci legge alcuni brani con forte partecipazione ed è impossibile non restare commossi.
“….Così, mentre carezzavano…le mogli e sollevavano tra le braccia i figli baciandoli per l’ultima volta, al tempo stesso, come servendosi di mani altrui, mandarono a effetto il loro disegno, consolandosi di doverli uccidere al pensiero dei tormenti che quelli avrebbero sofferto se fossero caduti in mano ai nemici”.
Essi morirono, dopo aver appiccato il fuoco alla struttura, convinti di non lasciare ai romani nemmeno uno di loro vivo. Invece una donna anziana e una seconda, che era parente di Eleazar e “superava la maggior parte delle donne per senno ed educazione, si salvarono insieme a cinque bambini nascondendosi nei cunicoli sotterranei che trasportavano l’acqua potabile, mentre tutti gli altri erano intenti a consumare la strage: novecentosessanta furono le vittime…..la data dell’eccidio fu il quindici del mese di Xanthico” [cioè il giorno dopo la Pasqua: Xanthico equivale a Nisan].
Quando i romani entrarono nella fortezza, all’inizio, non trovando nessuno, non riuscirono a capire che cosa fosse accaduto. Alla fine levarono un grido, per vedere se se fosse apparso qualcuno. Il grido fu udito dalle donne, che, risalite, spiegarono l’accaduto ai romani. Una, in particolare -facile immaginare quale delle due; te la figuri, anzi-, riferì con precisione tutti i particolari del discorso e dell’azione. Ma, queste donne, erano fuggite o erano state scelte da Eleazar ben Yair per tramandare ai posteri la gloria di Masada?
Mi sono sempre domandata quale sia stata la sorte dei pochi sopravvissuti: una vita miseranda come preconizzata dai compagni o magari il rispetto da parte del nemico per tanta fierezza dimostrata?
“Quando [i romani] furono di fronte alla distesa di cadaveri, ciò che provarono non fu l’esultanza di aver annientato il nemico, ma l’ammirazione per il nobile proposito e per il disprezzo della morte con cui tanta moltitudine l’aveva messo in atto”.
Dopo la sua presa, Masada rimase in mano ai romani fino a tutta l’epoca bizantina. In questo periodo venne abitata a lungo da monaci cristiani che vi costruirono anche una basilica, della quale si notano le vestigia. Dopo l’invasione araba il luogo fu abbandonato e piano piano se ne perse addirittura il ricordo. Esso venne riscoperto oltre un secolo fa per diventare simbolo della causa sionista.
Oggi le reclute di Tsahal salgono fin qua per pronunciare il giuramento di fedeltà al grido di: “Mai più Masada cadrà” (Metzada shenìt lo tippol).
Durante la nostra escursione vediamo infatti diverse bandiere nazionali garrire al vento.
Masada è stata in parte ricostruita ed è diventato uno fra i più importanti siti archeologici di Israele grazie soprattutto agli scavi compiuti a partire dagli anni ’60 sotto la guida di Yigael Yadin (1917/1984), celebre personaggio nella storia di Israele. archeologo (come il padre, Eleazar Sukenik), docente universitario, militare, uomo politico.
L’attività di Yadin ha riportato alla luce i resti dell’antica fortezza: evidenti risultano, oltre alle vestigia dei campi militari romani, i massi di pietra lanciati dalle catapulte, mosaici di notevole qualità e bagni.
Incrociamo folti gruppi di turisti e diverse compagnie di scout, con l’immancabile scorta armata (per lo più un giovane e una ragazza).
Mentre attendiamo la funivia per il ritorno -ma Achille e Federico hanno preferito concedersi il piacere del “Sentiero del serpente”, in discesa- Angela, forse per alleggerire la tensione che inevitabilmente ci ha contagiato, racconta di quando, tempo fa, accompagnò quassù un gruppo di parlamentari italiani. Due, di orientamento politico opposto, non si rivolgevano nemmeno la parola e, confessa lei divertita, facevano ogni sforzo per evitarsi e stare a debita distanza l’uno dall’altro!
Roberto invece ricorda del battibecco pubblico avuto, anni addietro, con un’avvenente collega, in quel periodo assai in auge presso la TV di Stato, la quale, pur avendo un’informativa piuttosto sommaria e pregiudiziale sulla realtà del Medio Oriente e, in specie sul conflitto israelo/palestinese, si era illusa, la poverina, di mettere in difficoltà il nostro Roberto, il quale in materia era, ed è, assai competente. Ovviamente la “bellona” uscì malaccio dal confronto. La presunzione gioca brutti scherzi, a volte.
Alla base dell’impianto c’è un interessantissimo Museo archeologico, allestito in anni recenti, volto a valorizzare i preziosi ritrovamenti del sito. Possiamo così conoscere meglio la vita degli Ebrei all’inizio della nostra era: utensili domestici, tessuti, calzature, vasellame, diversi arnesi di uso quotidiano, monete, residui di cibo….tutto ha potuto conservarsi grazie al clima secco della zona.
Degli oggetti colpiscono, forse più degli altri, la nostra attenzione: alcuni cocci con dei nomi scritti a inchiostro; si pensa fossero serviti per tirare a sorte gli esecutori materiali del suicidio collettivo.
Non manca una scultura raffigurante il Prof. Yadin seduto, nell’atto di esaminare alcuni reperti.
Nel Parco Nazionale di Masada si continua studiare e a scavare, proprio in quanto luogo considerato memoria nazionale e patrimonio irrinunciabile per l’umanità.
L’UNESCO ha reso onore a Masada come simbolo dell’identità culturale ebraica ed a ricordo della lotta sostenuta da un popolo in nome della libertà contro l’oppressione.
Risaliamo in pullman e percorriamo la Strada n. 90: vediamo grandi distese di serre, possibili solo dal 1967 in poi, coltivate ad ortaggi (pomodori e non solo) che, spiega Angela, sono di sapore particolarmente gradevole: infatti, per “difendersi” dall’elevata salinità di acqua e terreno, le piante producono un’alta percentuale di zuccheri.
Giungiamo a Qumran (Parco di Ein Fashka) e rammentiamo che il merito fu tutto di…una capretta.
Nella primavera del 1947, circa un anno prima della costituzione dello Stato di Israele, un giovane pastore beduino, Mohammad ed-Dhib (Mohammad il Lupo) sta inseguendo una capretta che, affamata di libertà, è sfuggita dalla sua custodia e se ne va a spasso per i picchi rocciosi che si elevano da queste parti. Ad un certo punto egli si siede per riprendere fiato e, un po’ per gioco e un po’ per stanare l’animale, scaglia alcuni sassi in una delle tante caverne naturali che ai aprono nella roccia.
Un improvviso rumore di terracotta infranta gli fa immaginare la presenza di vasi nascosti e di chissà quali meraviglie. Il giorno successivo il ragazzo torna sul luogo insieme ad un cugino e, calatosi con lui in quella grotta, scopre otto giare intatte e chiuse; una di esse contiene alcuni rotoli di pergamena. Da allora inizia un’avventura archeologico / spionistico / poliziesca per il recupero da undici grotte del loro contenuto, costituito da preziosissimi manoscritti.
Questi manoscritti costituivano il patrimonio spirituale di una comunità giudaica vissuta tra il I secolo a.C. e il primo d.C., gli Esseni. Di loro avevano scritto Autori illustri come Filone Alessandrino, Plinio il Vecchio e lo stesso Giuseppe Flavio; anzi quest’ultimo affermava di essere stato loro discepolo. Sulla loro origine, un po’ misteriosa, e sul significato del nome (puri, pii o, addirittura, bagnanti per le abluzioni rituali che compivano) non c’è accordo tra gli studiosi.
Di vita appartata essi erano organizzati in comunità isolate di tipo monastico o cenobitico, coltivavano la terra e allevavano greggi; Erode il Grande li protesse, tant’è che a Gerusalemme esisteva un quartiere esseno (forse essi sono da identificarsi con gli “erodiani” cui nei Vangeli si fa un breve cenno?). Al tempo di Gesù erano pressapoco 4000 e vivevano dispersi per tutto il Paese; circa 150 vivevano a Qumran. Questo sito, che oggi visitiamo, fu distrutto nel 68 dai romani, a causa del suo coinvolgimento nelle sommosse di quegli anni che si conclusero con la distruzione di Gerusalemme. Tuttavia, prima della fine, riuscirono a nascondere la loro biblioteca nelle grotte vicine. Pare che alcuni tra loro si fossero uniti agli zeloti di Masada, dei quali condivisero la sorte. Lo attesterebbe il ritrovamento, durante gli scavi sulla rocca nel 1963, di un frammento di pergamena dei “Cantici della santificazione del sabato”, noto dai ritrovamenti della grotta di Qumran n. 4.
Oggi, dell’insediamento esseno, restano alcuni ambienti, come l’acquedotto e i bagni rituali, il refettorio e la Sala del Consiglio, il laboratorio di terrecotte con i forni e un cimitero. Più in alto, le grotte (dove furono nascosti i manoscritti), fungenti forse da dormitori.
Si è ipotizzato a lungo su (eventuali) rapporti tra Gesù e questo gruppo religioso, specie in riferimento alle espressioni tipiche degli Esseni, non ritrovabili nella Bibbia ebraica, che Giovanni mette, nel suo Vangelo, in bocca a Gesù: Figli della Luce; Figli delle Tenebre .
Tuttavia c’è una certa differenza di comportamento, di modo di essere, se così si può dire, tra questi “puri”, che si ritenevano una élite perfetta e incontaminata della società ebraica, e l’anticonformista Maestro che non temeva affatto di sedersi a tavola con pubblicani e prostitute, ma addirittura li andava a cercare, con grande scandalo dei benpensanti di allora. E che, per sovrammercato, dichiarava a questi ultimi che, nel regno di D-o, sarebbero stati sorpassati dai primi.
Il tesoro degli Esseni è ora esposto in quel luogo formidabile, significativamente a forma di coperchio di giara, che è lo Shrine of the Book dell’Israel Museum di Gerusalemme.
I manoscritti, a cominciare dal celebre rotolo contenente i 66 capitoli del Libro di Isaia (100 anni a.C., il più antico manoscritto completo di un libro biblico; quello, per intenderci, conservato nella piattaforma centrale, a forma di manico di rotolo della Torah), sono preziosissimi perché contengono, abbastanza integralmente tutti i libri della Bibbia ebraica (tranne Ester), in ebraico e in aramaico; costituiscono un’eccezionale fonte di studio, poiché, prima del loro ritrovamento, i manoscritti della Bibbia a disposizione erano solo di epoca medievale, quindi di molti secoli successivi.
L’aspetto davvero meraviglioso di tutto ciò è che, oggi, un bambino israeliano è in grado di leggere tali testi.
Facciamo una breve sosta in un luogo accogliente: il Kibbutz Kalia, specializzato nella coltivazione di uva e pomodori.
Nel piccolo, ma attrezzato, supermarket interno acquisto alcune confezioni di miele all’eucalipto, made in Kadesh Barne’a, mentre Tiziana ha scelto, come dono per il suo piccolo Federico, uno zainetto a forma di orsacchiotto con la scritta “Israel”.
Lunghe distese di serre, amorevolmente curate, in questi 40 anni, dagli agricoltori israeliani, che hanno strappato tali zone all’incuria e all’abbandono; sappiamo tuttavia che esse potrebbero divenire oggetto di trattative nell’ambito di una soluzione del conflitto, ecc., ecc. Bla…bla….
E in cambio di che cosa? L’ “in cambio” non abbiamo ancora avuto il piacere di vederlo, a tutt’oggi. O meglio si son visti solo: bombe, attentati e odio. Con conseguente rovinoso avvelenamento -morale e materiale- di intere generazioni di giovani palestinesi.
Gerusalemme si avvicina e, con lei, il momento del distacco.
Angela è curiosissima di sapere chi fosse mai “il Professore” che, la sera prima a Ein Boqeq, si era lanciato nelle danze. Ride di gusto quando Mauro si dichiara…colpevole!
Ecco la capitale. La sfioriamo appena.
E’ il momento dei saluti, dopo che siamo passati davanti al nuovo Municipio (cordialissimi auguri a Nir Barkat, Sindaco eletto pochi mesi fa).
Salutiamo i triestini, che si fermano alcuni giorni, ma debbono cambiare albergo. A presto, di cuore.
Telefona Beniamino, il marito di Angela: Sono qua, vicino al parcheggio. Carico chi ha bisogno di un passaggio.
Non ho -ancora- conosciuto Beniamino. Chissà se è quel signore intravisto laggiù, di spalle…..
Angela, Chicca e Luca scendono. Li vedo attraversare la strada. Il pullman si intrufola nel traffico ed io li perdo di vista. Consolante sapere che esistono il telefono e la posta elettronica.
Tel Aviv arriva in una manciata di minuti.
Ci sistemiamo all’Hotel Metropolitan che ci ha accolto all’inizio del viaggio per la cena e un breve riposo.
A tavola c’è un’atmosfera di amicizia e intimità, pur velata di malinconia.
Paola si è rimessa alla grande dall’influenza: negli ultimi giorni ha potuto “recuperare”, ma si prenota già per la prossima spedizione. Lei e Giancarlo (bei tipi) hanno già in calendario un viaggio di quaranta (!) giorni in Cina e poi altri in diversi continenti, di qui a pochi mesi. Ideali membri del Club “Grandi Viaggiatori”.
Chiacchieriamo di letteratura, Oz, Yehoshua, Grossman, Lizzie Doron, Sarah Shilo. Immetto nel giro pure Appelfeld, a cavallo tra due mondi, del quale sta uscendo da noi l’ultimo romanzo, e il giovane Ron Leshem, grande scrittore di guerra.
Tea invita tutti a Padova. Adesso che i figli vivono per conto loro, ne abbiamo di posto. Venite pure, ci fate piacere, magari non tutti in un colpo solo!
Già fantastichiamo sulla “prossima volta”. Chicca ha parlato, ci pare, di un giro dei kibbutz e ci ha detto, accomiatandosi, che di rado aveva incontrato un gruppo così affiatato. E lei è una donna sincera.
Stasera si sono uniti a noi -viaggeranno con le persone dirette a Milano- tre significativi personaggi: i fratelli Ravenna, due fratelli e una sorella. Anzianotti, ma ben portanti, originari di Ferrara, vivono, se ho capito bene, a Milano, e paiono usciti da un quadro di Chagall o da una novella di Singer. Hanno passato alcuni giorni da un parente ad Ashkelon, luogo particolarmente tranquillo in questi ultimi tempi (!), ed ora ritornano a casa.
Il direttore dell’albergo, davvero cortese, ci farà trovare, tra poche ore, un buffet di prima colazione.
La sveglia è alle 2.30 perché, si sa, i controlli in aeroporto sono meticolosi; e il nostro volo per Roma è poco dopo le 6.00.
Eccoci di nuovo tutti insieme davanti ad un delizioso profumino di caffè e brioches calde.
Qualcuno, temerario, forse per congedarsi nel modo che ritiene più degno, si avventura in un’insalata israeliana; quelle con verdure-pomodori-cetrioli-e-altro tagliati a pezzi munitissimi, come piace a “Padrevostro” ne Il ragazzo e la colomba di Meir Shalev.
Arriva Miryam Livak, titolare dell’agenzia di viaggi locale cui s’appoggia l’omologa di Roma, per assisterci all’aeroporto. Indossa un buffo copricapo bianco di lana, in stile sciatore anni quaranta.
Distribuisce a tutti un diploma, firmato dal Ministro del Turismo in carica, di “Ambasciatore dell’Amicizia verso Israele”. Dopo aver espresso l’auspicio di “…darLe nuovamente il benvenuto fra di noi”, la citazione, in italiano e in ebraico: “Egli mostrerà a noi le Sue vie, e noi cammineremo per i Suoi sentieri. Da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del SIGNORE” (Isaia 2, 3).
Sarà, come dire, una prassi diffusa, però tutto questo è una grande gioia per me. E poco importa se il mio nome non è esattamente riportato: “Maria”, anziché “Mara”; il cognome, per fortuna, quello più …a rischio, è scritto nella maniera giusta.
In aeroporto, i saluti finali, prima che i due drappelli si separino.
Mauro ed io, diretti a Roma; tutti gli altri, a Milano, un’ora e mezzo dopo.
Suscitiamo, vai a vedere perché, i sospetti di qualcuno, proprio un attimo dopo che Myriam, ritenendo tutto OK, se n’è andata. Poche domande, un po’ diffidenti, e “Chi è il vostro capogruppo?”
Si fa avanti Maria Pia, berretto a visiera e aria decisa. Grazie ai suoi toni convincenti, i dubbi si sciolgono ben presto.
Inevitabile, nella concitazione e nella fretta, che non ci si congedi come si deve -restano fuori dai saluti Tiziana e Roberto. Niente paura: provvederò da casa, con un messaggio e mail- perché gli addetti alla sicurezza sono inesorabili e fanno sparire noi due in un imbuto di controlli.
Una giovane non riesce a trovare alcuna somiglianza tra me, in carne ed ossa, e l’immagine sul passaporto, di due anni prima. Ma lo sanno anche i muri che tra fotografia e persona ritratta non c’è (quasi) mai un rapporto d’intesa! Trascorsi alcuni minuti la ragazza “molla l’osso” per cedermi ad un collega, intento ad aprire inesorabile le diverse valigie per cercare e cercare.
Finalmente siamo al gate di partenza, dove ci rilassiamo un po’sfogliando qualche rivista; indi si sale a bordo, con un certo anticipo. Il momento del decollo giunge anche troppo presto.
L’aereo passeggia a lungo sulla pista, ma non ho alcuna fretta che si alzi.
Voglio trattenere, tra me e me, il profumo di Israele, un po’ come, all’uscita dello shabbat, si odorano delle spezie, raccolte in recipienti appositi, per trattenere, il più a lungo possibile, la fragranza della festa.
Guardo per l’ultima volta il lungomare e i grattacieli, mentre un giovane seduto nella fila di fianco alla mia mormora qualcosa in ebraico alla sua bambina facendola ridere e saltare sulla poltrona.
Mauro mi accarezza il viso e chiede:”Tutto bene?”
RIFLESSIONI FINALI
Questo viaggio in Israele ha significato l’immersione piena in una realtà complessa, multiforme, le cui eco restano a lungo dell’anima; o meglio non ti abbandonano mai.
Oz, Grossman, Yehoshua, Appelfeld, Shalev, Shifra Horn, passando per Keret, così razionale nel suo essere paradossale…….tutti li ho incontrati in questi giorni; materializzati ad ogni angolo di strada.
Un Paese all’avanguardia in molti campi, dalla letteratura, alle scienze, all’alta tecnologia, ai diritti umani (checché ne dicano i suoi odiatori di professione).
Certo non perfetto, con difficili nodi da sciogliere, ma in grado di dare un contributo essenziale alla crescita civile del mondo. Questo accade in barba ai vari boicottaggi, inventati in primo luogo da associazioni o istituzioni occidentali, i governi delle quali, magari con la collaborazione di altre istituzioni, operano spesso in modo fattivo con Israele, in diversi settori.
Un rompicapo, se ci si pensa bene, che spesso e volentieri ha effetti comici.
Un caso, fra i numerosi che si potrebbero citare: un anno dopo che il partito norvegese della sinistra socialista ha lanciato la sua campagna per il boicottaggio di Israele, l’importazione in Norvegia di merci israeliane è aumentata del 15% , l’incremento più alto da molti anni a questa parte (fonte: Statistics Norway).
Il maggiore paradosso sta comunque nell’essere l’unico Stato al mondo minacciato di distruzione, senza che ciò susciti particolare sdegno negli organismi internazionali, ONU in testa; l’unico in ordine al quale ci si chieda ancora, dopo ormai 61 anni, se abbia diritto all’esistenza; ritenendolo, come disse un giorno un mio amico, quasi un “Paese di seconde case”.
Regolarmente oggetto di violenta esecrazione da parte dell’ONU e addirittura imputato n. 1 nelle Conferenze di Durban I e Durban II, le due vergognose kermesse del razzismo antisemita, tuttavia esso è nato grazie ad una Risoluzione ONU -preparata beninteso dal movimento sionista di circa un secolo prima e da una bimillenaria aspirazione al “ritorno”- e non dai capricci (chiamiamoli esigenze strategiche) delle grandi potenze, contrariamente ai Paesi limitrofi, la cui “artificialità”, quella sì, è riscontrabile solo osservandone, carta geografica alla mano, i confini, tracciati con riga e squadra.
Vorrei che i politici, in primo luogo di casa nostra, quando si esprimono in merito al conflitto mediorientale, lo facessero a ragion veduta, senza quello sterile distacco, quella freddezza, accompagnata da superficialità e mancanza di senso della realtà, esprimentesi nel chiedere le rinunce, più o meno (più “più” che “meno”) dolorose sempre ed esclusivamente ad una parte sola.
A questo proposito mi piacerebbe, è un esempio (ma se ne potrebbero scegliere altri), che, prima di usare in modo improprio o sbagliato, brandendoli come clave, termini quali “restituzione” o “occupazione”, a proposito del Golan, essi compissero un viaggio sull’altopiano: si rendessero conto dell’importanza strategica del luogo per Israele e di quanto esso sia stato amorevolmente curato e fatto prosperare in questi quarant’anni, dopo i venti di totale disamore e incuria siriani.
In una recente intervista il grande architetto, di origine polacca e cittadino israeliano, Daniel Libeskind afferma, da una parte, che il combattere per l’identità ebraica ha sempre fatto parte della sensibilità del popolo di Israele perché significa battersi per una società libera e aperta, e, dall’altra, che i nemici delle democrazie occidentali e degli ebrei vedono in costoro e nelle suddette democrazie un nemico da contrastare con ogni mezzo, proprio perché rappresentanti di una società moderna, illuminista, matura.
Ciò che mi ha impressionato, sopra ogni altro aspetto, in questo Paese è la sua contagiosa, traboccante gioia di vivere. Non sai se è l’entusiasmo di chi si spreme fino in fondo perché sa di essere a rischio, oppure c’è, in tutto ciò, una sorta di fede (religiosa o laica poco importa) nella propria capacità di durare, al di là del drammatico scenario mondiale e dei gravi pericoli. Forse entrambi gli aspetti.
Questa è la grande forza di Israele, sempre diverso, nuovo, con le sorprese ad ogni momento della Storia.
Spero che un giorno, mi auguro, non lontano, i popoli i cui governi sono suoi nemici, lo comprendano appieno. La Speranza e l’Impegno per darle concretezza non costano nulla in confronto al valore della posta in gioco.
25 aprile 2009, Festa della Liberazione