(Titolo originale A Perfect Peace, 1982)

 

Trad. Elena Loewenthal, Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, Febbraio 2009, pp. 350

 

“La quiete domestica sarebbe stata perfetta se dalla casa dei vicini non si fosse udito il pianto di un bambino”.   “Uno strano, turbolento incantesimo esercitavano ora su di lui le parole del deserto…”

 

Scritto agli inizi degli anni ’70 (poi ripreso nel decennio successivo), uscito a febbraio scorso con Feltrinelli -nella traduzione di Elena Loewenthal-, questo romanzo di Amos Oz narra il tentativo, operato da un giovane uomo, di ritornare alle origini, di ricominciare dopo aver lasciato -sia pure solo per il tempo necessario- la realtà scontata in cui è nato e cresciuto.
Teatro della vicenda è un kibbutz chiamato Granot, posto tra le colline della Galilea; l’epoca è l’inverno del 1965 (quindi qualche tempo prima della cosiddetta “Guerra dei Sei Giorni”); un inverno triste, caratterizzato da piogge interminabili; un inverno, come chiosa l’Autore, “tra una guerra e l’altra”.
Facciamo la conoscenza di due coppie di coniugi.
Yolek e Hava Lifschitz sono immigrati dalla natia Polonia nei decenni precedenti la costituzione dello Stato di Israele.
Lui, il segretario del kibbutz, massiccio e tarchiato, “peloso fin dentro le orecchie”, abilissimo a tener nascosti i suoi reali pensieri e sentimenti, è dotato di quell’intelligenza “politica” in grado di consentirgli di costruire vigorose frasi ad effetto per stupire l’uditorio; ha un passato di esponente del partito laburista, nonché ministro in uno dei primi governi presieduti da David Ben Gurion e intrattiene rapporti cordiali col Premier e Ministro della Difesa in carica, Levi Eshkol.
Lei, Hava, è “….piccolina, energica, coi capelli grigi tagliati corti, alla maschietta”; una donna passionale, talora rabbiosa.
Tra i due emergono spesso rancori antichi, risalenti ad una vicenda lontana, la quale, pur in sé drammatica, è narrata da Oz con la consueta, vellutata ironia.
Spirito inquieto è il figlio della coppia, Yonathan (Yoni), 26 anni, che vive insieme alla moglie Rimona a poca distanza dai genitori. Il giovane è stanco della vita di kibbutz, così programmata e prevedibile, scandita da discussioni politiche tanto interminabili, quanto inutili. Sogna la fuga (attorno a questo tema ruota tutto il romanzo), fuga verso il deserto, con la sua forza rigeneratrice perché non appartiene ad alcuno in particolare; verso la città, dove si svolge la vita “vera”; in più, egli sente il peso,  morale e ideologico, della generazione che lo ha preceduto, di coloro che hanno fondato il kibbutz -e lo Stato-, dopo essersene andati dai luoghi natii dell’Europa orientale, Polonia, Russia, Ucraina.
Yoni sembra non amare più la moglie Rimona. Costei è una biondina, tranquilla; ma con una tormentata vicenda personale alle spalle. La sua apparente calma è percepita dal marito come freddezza. La donna vive in un mondo tutto suo, a causa in primo luogo della difficoltà a diventare madre; l’unico figlio che è riuscita a mettere al mondo (una bambina, Efrat) è nato morto. Questo dramma, anziché avvicinare i due, li ha allontanati.
Ella trova un mendace conforto nella lettura di libri su strani riti africani (le “magie del Ciad”), espressione, a suo sentire, dello stretto rapporto di queste popolazioni con la natura incontaminata. Ancora una volta Oz ci regala personaggi femminili di grande impatto emotivo.
Yoni non si decide a partire, ogni pretesto è valido per rimandare tale passo; con grande fatica riesce a confidare a Rimona il proprio progetto, senza peraltro che ella vi opponga reazioni apprezzabili.
In questo clima di freddo fisico e psicologico, irrompe un giorno (anzi una notte) Azariah Gitlin, un giovane originario della Russia: ha appena terminato il servizio militare e afferma di essere animato da grande interesse per il movimento kibbutzistico. E’ imbevuto di entusiasmo e di sogni; scrive poesie e saggi politici; suona alla perfezione la chitarra e dichiara di essere seguace della filosofia di Baruch Spinoza. Logorroico, saccente -puntualissimo nell’illustrare i proverbi russi-, guascone (e pure un po’ ruffiano), ispira al prossimo sentimenti contrastanti: simpatia, perché, col suo modo di fare, facilita le confidenze, ma, nello stesso tempo, fa nascere ostilità e gelosia in coloro che si ritengono esclusi dalla sua attenzione.
Egli vagheggia una perfetta pace tra gli uomini e l’ambiente circostante: il kibbutz anzi è l’ambiente ideale per la realizzazione di questo alto valore: “Il kibbutz è…come un miracolo capitato agli ebrei dopo le sofferenze…è un miracolo che esista uno stato e un esercito…dobbiamo imparare a rappacificarci con questa buona terra e.. con gli alberi…e con gli arabi, perfino con il deserto…E anche gli uni con gli altri…”
La sua esuberanza, quel suo voler farsi accettare dal prossimo a tutti i costi nasconde la profonda sofferenza patita negli anni della guerra, di ragazzo in fuga tra le foreste dell’Europa orientale.
Grazie all’indubbia abilità, Azariah viene assunto come addetto all’officina del kibbutz, nella veste di aiutante di Yoni, con il quale stringe fraterna amicizia; nasce anche un’immediata simpatia tra lui e Rimona, infelice perché tra lei e il marito sembra essere calato un gelo insanabile. Anzi, dopo una prima fase in cui aveva abitato vicino ad uno strano personaggio (un ex galeotto dalle mani d’oro, Bolognesi), il nuovo arrivato si sistema nella casa dei due coniugi, dando così vita ad un insolito ménage à trois.
Ma è proprio grazie alla presenza trascinante di Azariah -a mio parere il personaggio più riuscito del romanzo; una sorta di deus ex machina della vicenda, privo tuttavia di alcunché d’artificioso- grazie ai suoi slanci, pur talora esagerati, che la “calma piatta” dell’universo di Granot pian piano saprà sciogliersi e ognuno, non solo Yoni e Rimona, troverà il coraggio di voltar pagina ed operare le proprie difficili scelte di vita. Da “Inverno” a “Primavera”.
Scritto, come precisato sopra, all’inizio degli anni ’70, uscito in Israele nel 1982, questo romanzo è tra le prime opere del grande autore israeliano: interessante proprio perché vi si trovano, per così dire, allo stato nascente, tante tematiche, tanti accenti, tante modalità espressive che egli saprà sviluppare nel corso del tempo, fino al culmine -raggiunto al momento; ma il futuro riserva sempre sorprese!- di “Una storia di amore e di tenebra”.
In primo luogo c’è l’ironia benevola con la quale lo scrittore accompagna gli attori della vicenda in circostanze le quali, pur in sé drammatiche, finiscono per assumere una dimensione comica. Un esempio per tutti: il fallito tentativo di doppio omicidio operato, diversi anni addietro, da certo Benya Trotsky (il nome è tutto un programma…) in una stalla del kibbutz. Benya è presente in controluce lungo tutto lo snodarsi della vicenda; con lui gli altri finiscono spesso per fare i conti.
Mentre delinea i diversi tipi umani, dai protagonisti alle figure di minor rilievo, grazie alla forte capacità di introspezione psicologica, Oz attraverso i loro caratteri, è in grado di esprimere il clima di un’epoca. Il romanzo si svolge, come detto, alla vigilia della “Guerra dei Sei Giorni” del giugno 1967; e dunque ci coinvolge con le angosce e le speranze di quel periodo storico. I primi decenni di vita dello Stato ebraico; la consapevolezza del pericolo sempre presente e la tensione nel farvi fronte, come quando, tra i “si dice”, diffusi qua e là, spicca la voce di un attacco preventivo israeliano.
Ritroviamo i sentimenti dei sopravvissuti alla Shoah, che non sanno superare il trauma della tremenda esperienza vissuta (e, per lo più, sono restii a parlarne).
Il dramma di un Paese in guerra fin da prima della sua nascita; con il dolore che ti brucia dentro ogni volta che ricordi quando, per la prima volta, hai ucciso un uomo.
I contrasti tra le generazioni, con la sfiducia reciproca tra padri e figli: i secondi che sentono un’insopprimibile ansia di libertà autentica; mentre i primi mescolano ad un atteggiamento giocoforza disincantato verso il sogno sionista non più in grado di suscitare le passioni dei primi tempi, una serrata critica della presunzione e delle tendenze “americaneggianti” (capelli lunghi, tamburi da jungla e rock and roll) in voga tra i giovani. Forte è il modo con cui l’Autore mette questi pensieri in punta di penna all’anziano Yolek allorché questi, preso dalla disperazione per la partenza del figlio, le cui motivazioni non riesce a comprendere, scrive una lunga lettera al vecchio amico Levi Eshkol.
La natura - un motivo presente nel nostro Autore fin dall’inizio della sua opera- assunta a ruolo di personaggio, vivo e palpitante, espressione dello stato d’animo dei protagonisti, percepita da essi talora partecipe alle loro sofferenze, talora ostile, come quel villaggio arabo in rovina, Sheikh Dehar, posto non lontano da Granot, distrutto dagli israeliani durante la Guerra d’Indipendenza del 1948. Sulle rovine della casa dello sceicco fiorisce una buganvillea fiammante, ma, sovente, par di udire urla terribili provenire da quel luogo. Un “lungo grido cattivo che fende [va] il silenzio di miele”.
Natura a volte insensibile. “Tutto è vano” riecheggia la Bibbia “C’è freddo nell’universo. E vuoto. Se esistono altri mondi, saranno certo come qui, in fondo al balcone….”
Questo tessuto narrativo si avvale di accorgimenti letterari tali da rendere l’opera ancor più ricca di significati e segreti: come, ad esempio, quando l’Autore si fa all’improvviso da parte e lascia parlare in prima persona i diversi personaggi; a volte all’inizio di un capitolo, a volte all’interno dello stesso. Un effetto sorpresa di straordinaria suggestione.

 

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