(Titolo originale Der Staat gegen Fritz Bauer, Germania, 2015; Genere: Drammatico)
“Che cosa intendi fare?” “Farlo processare in Germania!”
“Il Procuratore sta andando in Israele!” “ Ahhh, dove vanno tutti gli Ebrei…”
Siamo nel 1957 a Francoforte sul Meno, Repubblica Federale Tedesca.
A dodici anni dal termine del secondo conflitto mondiale la Germania sta rinascendo anche sul piano economico e ha premura di lasciarsi alle spalle il suo terribile passato. Sembra quasi che il processo di Norimberga, celebrato dagli Alleati nel 1946 e che ha visto la condanna a morte dei principali esponenti del Terzo Reich, sia stato sufficiente a chiudere i conti con il Nazismo.
Purtroppo non è così. Nel giro di pochi anni diverse persone, magari membri non di primo piano del passato regime, tornano a ricoprire cariche di responsabilità nell’apparato del costituito nuovo Stato democratico. E, di conseguenza, anche l’opera di denazificazione delle coscienze è alquanto superficiale. Non è il caso di andar troppo per il sottile, si rinbadisce: nuove priorità debbono essere affrontate, nell’ambito di uno stretto legame con gli Stati Uniti d’America, prime fra tutte quelle legate alla cosiddetta Guerra Fredda con l’URSS.
Ma c’è qualcuno che non accetta tale equivoca situazione ed è fermamente convinto di ciò: non ci si deve accontentare del miracolo economico, di migliorate condizioni di vita. Occorre rendersi conto fino in fondo che la Germania non è solo la patria di Goethe e di Beethoven, ma pure il Paese di Hitler e Eichmann.
Ha idee chiare Fritz Bauer, Procuratore Generale dell’Assia da un anno.
Nato a Stoccarda nel 1903 da famiglia ebraica -pur dichiarandosi, lui, ateo-, studi di diritto ed economia presso prestigiose università tedesche, socialdemocratico, diviene ben presto il più giovane procuratore distrettuale della Germania. Nel 1933 viene arrestato dalla Gestapo per aver indetto uno sciopero generale contro i nazisti ed imprigionato otto mesi nel campo di concentramento di Heuberg (Baden Württemberg). Nel 1936, la fuga: dapprima in Danimarca; indi in Svezia e, nel 1949, il ritorno in patria. Dopo alcuni anni è nominato Procuratore Generale dell’Assia, carica che ricoprirà fino alla morte, avvenuta nel 1968.
In questa veste inizia ben presto le indagini sul conto di Adolf Eichmnann, il tenente colonnello delle SS, principale organizzatore logistico, col grado di SS- Obersturmbannführer, della deportazione di milioni di Ebrei. A conflitto appena concluso, l’uomo -grazie agli appoggi di cui dispone- si è rifugiato in Argentina sotto falso nome (con falsa carta di identità e passaporto intestato a certo Ricardo Klement, altoatesino), vive a Buenos Aires ben protetto dai vertici della casa automobilistica Mercedes-Benz, presso la quale si dice lavori. Come del resto diversi altri nazisti là nascosti.
Il sospetto che pure in Germania conoscano perfettamente tale situazione diviene via via una certezza per il nostro magistrato, venuto a conoscenza di precise notizie su Eichmnann grazie alle proprie accurate ricerche. Purtroppo però egli non trova alcuna collaborazione: né dai colleghi, né dalla polizia, né dal governo. Per alcuni è un seccatore fanatico, per tanti, troppi, un elemento pericoloso: le posizioni di potere sono di nuovo occupate da (ex) nazisti, i quali non hanno alcun interesse a che la verità sul passato venga alla luce. Arrestare Eichmann per processarlo nel suo Paese metterebbe a rischio le carriere di molti e porterebbe finalmente la Germania di fronte alle proprie responsabilità. Mentre questo è proprio il fine di Bauer, la sua ragione di vita.
E ora l’avversario non è più il Reich hitleriano, bensì l’apparato pubblico tedesco, che non intende affatto fare una seria pulizia. Che fare dunque? Rinunciare alla caccia oppure, davanti all’ostilità palese delle autorità nazionali, rivolgersi al Mossad, il servizio segreto israeliano, incorrendo così nel reato di alto tradimento? Lo Stato di Israele, (ri)costituito da pochi anni, sta cercando, a sua volta, il criminale, che mai si è pentito delle azioni commesse, anzi si rammarica di non aver compiuto fino in fondo il suo “lavoro”. In diverse circostanze egli aveva infatti dichiarato, con tranquillità, venata da un certo rammarico: “ Se avessimo eliminato 10 milioni e 300.000 ebrei mi riterrei soddisfatto e mi direi: bene, abbiamo compiuto il nostro lavoro!” E si doleva, giudicandosi inadeguato, di non averlo portato a termine, quel…lavoro.
Bauer decide di saltare il fosso e di recarsi in Israele per incontrare i vertici del Mossad e metterlo sulle tracce del criminale nazista. Se vuoi salvare il Tuo Paese, riflette, a volte sei costretto a tradirlo.
La situazione è molto rischiosa, anche perché, a complicare il tutto, c’è un elemento riguardante la sua persona: egli è omosessuale dichiarato e ciò, in quegli anni, è reato in Germania, secondo quanto previsto dal Codice penale tedesco, art. 175 (e lo restò, assurdamente, fino al 1994!).
Lo scrittore e giornalista francese Olivier Guez (nato a Strasburgo nel 1974), alcuni anni fa, in occasione di una ricerca sul ritorno degli ebrei tedeschi in Patria (sfociata in un saggio, edito da Flammarion nel 2007 col titolo L’impossibile ritorno, storia degli ebrei in Germania dopo il 1945), s’imbatté nella figura di quest’uomo coraggioso che seppe vincere timori e minacce, accettando l’isolamento e correndo gravi rischi personali. Il fatto non è noto, ma è proprio grazie alle informazioni di Fritz Bauer che il Mossad riuscì a mettere a punto con successo l’operazione del rapimento di Eichmann in Argentina (1960), processato poi a Gerusalemme ed impiccato -caso unico nella storia di Israele dove, contrariamente agli Stati limitrofi, non vige la pena di morte- nella prigione di Ramla il 31 maggio 1962.
Dopo l’uscita del libro Guez fu contattato dal regista Lars Kraume, con l’intento di girare un film sulla figura di Fritz Bauer per toglierla dall’oblio e renderle così giustizia.
Nato a Chieri nel 1973, ma cresciuto a Francoforte sul Meno, Lars Kraume appartiene a quella generazione di tedeschi sui 40 / 50 anni che hanno il coraggio di affrontare una realtà dura che i loro padri hanno rimosso. La vera consapevolezza, per la Germania, arriverà solo alla fine degli anni ’70 / inizi anni ’80 del Novecento, allorché, spiega Guest in una recente intervista, la “generazione della guerra” andrà finalmente in pensione.
L’opera di Kraume può essere accostata a quella di un altro regista di origine italiana, Giulio Ricciarelli del quale, nei mesi scorsi, abbiamo visto l’emozionante Il labirinto del silenzio, sulle stesse tematiche, trattate dal punto di vista di un magistrato giovane [1]. Per di più anche in quella pellicola compare Fritz Bauer, il quale incoraggia il protagonista Johann Radman a non demordere nella sua opera di giustizia, che porterà al cosiddetto “secondo processo di Auschwitz”, iniziato nel 1963.
Dalla collaborazione tra Kraume e Guest (cosceneggiatore) è nato Lo Stato contro Fritz Bauer, bellissimo e coraggioso film in questi giorni nelle nostre sale, distribuito da Cinema di Valerio De Paolis. La pellicola è stata presentata in anteprima mondiale al Festival di Locarno del 2015, dove ha vinto il Premio del pubblico UBS; indi ha riscosso un notevole successo nella Selezione Ufficiale al Festival del Cinema di Toronto.
L’opera si avvale dell’interpretazione magistrale del protagonista, il celebre attore berlinese Burghart Klaußner; fantastica la somiglianza col vero Bauer.
In un linguaggio semplice e asciutto, vengono espressi gli stati d’animo, le tensioni, la febbrile lotta tra inconfessabili rimozioni e viltà, da un lato, e l’esigenza di giustizia, lontana dai giochi della politica, dall’altro.
Bauer s’impegna, con tutte le sue forze, aiutato da un giovane collega (Karl Angermann, interpretato da Ronald Zehfeld) affinché Eichmann, cittadino tedesco, venga processato in Patria: sarà l’inizio del riscatto nazionale. Ma ignora le terribili esigenze della Realpolitik di quegli anni. Israele, nato da un decennio, necessita di tecnologie e di armi per far fronte alle continue minacce di distruzione provenienti dai Paesi vicini; mentre la Germania ha bisogno di Israele per rientrare nel novero delle nazioni civili. Non è dunque concepibile che essa ostacoli il desiderio dello Stato del Popolo Ebraico di processare colui che si è macchiato di crimini indicibili nei suoi confronti. Di conseguenza il Cancelliere Konrad Adenauer non chiederà al Presidente David Ben Gurion l’estradizione del criminale nazista, come Bauer spera ardentemente.
Inoltre, un processo in Germania avrebbe messo in crisi il governo di Bonn, fatto che, in piena guerra fredda, con i sovietici sempre pronti a cogliere ogni minimo segno di debolezza occidentale, gli USA non avrebbero permesso mai.
Quindi la ragion di Stato prevale. Ma l’opera di Bauer sarà utile poco dopo, perché, grazie ad essa, sarà possibile istituire il “secondo processo di Auschwitz” del 1963, citato sopra, che porterà alle sbarra diverse brave persone comuni.
Molto significativi sono pure aspetti per così dire, collaterali rispetto al centro del film; ma non meno stimolanti, specie per chi è appassionato di tematiche inerenti le sempre -oggi, come ieri- problematiche relazioni Israele / Diaspora ebraica. Come, lo vediamo nel film, il rapporto non certo facile, anzi di malcelata ostilità reciproca, tra l’ebreo tedesco Bauer e i vertici del Mossad israeliano.
Il primo proviene dalla borghesia colta, laica, integrata, che si sente al sicuro ritenendosi parte imprescindible della Germania, parla tedesco e rifiuta quel dialettaccio chiamato yiddish. E figuriamoci, aggiungo, l’ebraico; non sia mai!
Gli Ebrei che abitavano la Terra dei Padri provenivano dai Paesi dell’Est Europa, in specie dall’Impero russo (come, più tardi, dall’Unione Sovietica) del quale non si erano mai considerati parte, perché sempre vessati e perseguitati. Per lo più non era affatto religiosi, ma in loro era presente un fortissimo sentimento di Nazione.
Pure gli Ebrei di Israele, specie in quei primi decenni di vita dello Stato, rifiutavano lo yiddish -infatti stupisce l’idea, nel film, di metterlo in bocca ad un israeliano, per di più alto esponente del Mossad-, ma solo perché era percepita come la lingua del pianto, della disperazione, della morte, di chi, secondo l’iconografia tradizionale, si fa condurre come pecora al macello. L’ebraico, al contrario, è la lingua della rinascita, del riscatto; dell’orgoglio di essere Ebrei.
Sarà proprio il processo Eichmann a far sì che le due parti del Popolo Ebraico si guardino finalmente l’un l’altra negli occhi. Scrive Fiamma Nirenstein in un illuminante libretto uscito giusto vent’anni fa, per tanti aspetti attualissimo [2] “In tribunale Ben Gurion costruì un indispensabile psicodramma: l’identificazione della concretezza del male, la sua dinamica storica, e il fatto che Israele potesse compiere un gesto di punizione contro il persecutore e di riparazione nei confronti delle vittima, fece sì che finalmente il sionismo si facesse erede dell’ebraismo diasporico; che lo piangesse, lo facesse suo; che la continuità fosse ristabilita”.
[1] V. mia recensione su questo sito (Gennaio 2016).
[2] Fiamma NIRENSTEIN, Una pace in guerra, il Mulino / Contemporanea 89, Giugno 1996, pp. 136, £. 16.000.