Ed. Lindau, Settembre 2009, pp. 352
 
“Una delle più grandi vittorie del terrorismo è stata la cancellazione delle vittime. Parlare nuovamente di loro è una vendetta contro i crimini perpetrati su donne, vecchi e bambini ebrei. E’ il significato più puro e intangibile della memoria” “La gente del mondo non sa che cosa è successo ai nostri figli”  “Israele è un Paese di immigrati, sebbene abbiamo abitato questa terra per migliaia di anni”.
 
L’associazione verbale “Martire” / “Israele” fa inevitabilmente pensare, per una sorta di riflesso condizionato, ai terroristi suicidi islamici, denominati -a Occidente- “Kamikaze”, in modo improprio, e -nei Paesi musulmani-“Martiri”. Difficile invece mettere in connessione, per così dire, positiva, “Martire” con “Cittadino israeliano”.
Giulio Meotti, giovane giornalista (redattore dal 2003 del quotidiano il Foglio), ha compiuto un’operazione tanto insolita quanto coraggiosa.
Con questo saggio, uscito a inizio autunno con Lindau, egli ha inteso dar volto e voce ai circa 2000 israeliani uccisi dalla furia genocidaria del terrorismo islamista durante gli anni della c.d. “seconda Intifadah”, in realtà vera e propria guerra, cioè dal settembre 2000 in poi. Guerra, quella mossa dal terrorismo, definita da Giulio “a fari spenti”, termine assai più significativo dell’asettico “guerra asimmetrica”, caro ai politologi.
Nella sua introduzione l’A. spiega come, da parte dell’integralismo islamico, sia in atto, e non da ieri, il tentativo di annullare gli Ebrei, in quanto Ebrei, e di conseguenza in quanto Stato -nonostante i sofisticati “distinguo”, veri pret à porter ad uso e consumo degl’ingenui-; Stato democratico, unico nel Medio Oriente, del quale dev’essere nullificata la vita, la storia. La parabola esistenziale di Israele è negata come dato di fatto, al punto da volerne cancellare addirittura il nome. Quel terrorismo che, paradossalmente rafforzatosi dopo l’11 settembre 2001, ha come scopo precipuo l’eliminazione dell’EBREO, ovunque questi si trovi.
Peraltro tale tentativo, forte di robuste e lontane radici, in larga parte, non è adeguatamente ostacolato dal mondo occidentale, poiché in quest’ultimo sono sempre vive, magari sottotraccia, forze che, avendo sempre perseguitato il popolo ebraico fino all’estremo della Shoah, hanno operato quella falsificazione (storica, politica, mediatica) che consente loro di rimuovere la colpa inventando crimini commessi, oggi non tanto dagli Ebrei, come singoli, bensì dagli Ebrei come collettivo, cioè come Stato di Israele. Tale falsificazione, poi, ha un’efficace ricaduta sul comune sentire, sulla pubblica opinione, distratta e poco incline a indagini serie ed approfondite.
Se il fine ultimo dell’istituzione “Yad Vashem” è ridare esistenza e nome a coloro che ne erano stati espropriati nell’anonimato dei campi di sterminio; così, col suo libro, Meotti ha inteso (ri)dare un nome, una vita palpabile alle vittime israeliane del terrorismo, troppo presto dimenticate, complice il clima di odio nei confronti del loro Paese. Dunque uno…Yad Vashem a forma di libro, per non dimenticare.
Nel ricomporre ogni figura, raccogliendone con rispetto e amore ciascun frammento, attraverso gl’incontri con familiari e amici, ricostruendo, fino all’ultimo tragico istante, quelle presenze spezzate, Giulio ci narra una cinquantina di storie (tutte emblematiche per diversi aspetti), talora intrecciate l’una all’altra, per lo più legate da un filo d’Arianna paradossale, che porta, in un tragico cammino a ritroso, alla Shoah, vissuta direttamente dagli uccisi o dai loro congiunti.

 
Egli non si addentra in disquisizioni di carattere politico su un tema i cui aspetti di fondo non sono di carattere territoriale, bensì religioso e direi esistenziale; tuttavia compie una precisa scelta di campo, senza timore di apparire politicamente scorretto.
Nondimeno nel libro non vi è una riga, come afferma l’A.,”discriminatoria o contro i palestinesi. Non è un libro contro”. E’ un’opera di giustizia nei confronti di un attore della vicenda, il popolo israeliano, per lo più trascurato dagli organi di informazione. Il giornalista svolge il suo compito con la passione di chi non è parte per nascita di quel mondo al quale si è avvicinato per scrivere quest’opera, tra l’altro documentatissima e ricca di significative immagini, frutto di una ricerca durata cinque anni. Non me ne voglia Meotti se affermo che il suo stupendo entusiasmo (da me condiviso) contrasta un poco con lo spirito ironico e smitizzante, tipico degli israeliani nel loro complesso, perfino nei momenti più drammatici (e non prerogativa di questo o quello scrittore). 
“Martiri” perché testimoni del loro impegno nella quotidianità: andare in bus a scuola o al lavoro, gioire perché sono in arrivo due gemelli, far due chiacchiere al caffè con la figliola in procinto di sposarsi, celebrare il Seder di Pesach, studiare, esplorare le grotte vicino a casa, dormire nel lettino col succhiotto in bocca, compiere il dovere di soldato….quella vita normale che il nemico vorrebbe toglierti per sempre. Ma è proprio tale spirito smitizzante -unito ad un ethos nazionale in grado di far sì che le tante “tribù”, sovente in contrasto tra loro, di cui è composto il Popolo di Israele riescano ad essere un tutt’uno- che consentirà di continuare a danzare, com’è scritto sul monumento commemorativo dei 21 adolescenti immigrati dalla Russia, uccisi, la sera dell’1 giugno 2001, davanti alla discoteca sul lungomare di Tel Aviv: “Scegli la vita, non smetteremo di danzare” “Lachaim, lo nafsik lirkode”.
 
 
RIFLESSIONI
Tra la varia documentazione raccolta da me in quegli anni terribili vi sono due fotografie che accompagnano un articolo di Fiamma Nirenstein, apparso sul quotidiano la Stampa del 21 maggio 2001.
 

Ciascuna di esse rappresenta senza infingimenti come il lutto, il dolore vengano vissuti ed espressi in due contesti che più lontani tra loro non potrebbero essere.

La fotografia posta sul lato destro della pagina ritrae le esequie di una vittima israeliana di un attentato perpetrato a Netanya; quella posta sul lato sinistro il funerale di un giovane palestinese ucciso a Nablus.
La prima immagine, in dimensione verticale, ha quale centro una giovane donna inginocchiata. Pantaloni e maglietta, occhiali scuri, mani intrecciate come in preghiera, questa moderna Madonna è abbracciata da un uomo anziano con la kippah, chino accanto a lei con atteggiamento di protezione, impegnato nel vano tentativo di consolarla. Lo sfondo è costituito da alcune persone: un’altra donna con i capelli sciolti, una ragazza, un uomo con testa reclinata e braccia conserte; dietro di loro poi si intravedono altri partecipanti. Tutti convergono verso la figura in primo piano. Sono schiantati dal dolore, quasi attoniti, ma non leggi una goccia di odio nei loro sguardi, ben visibili, pur velati dagli occhiali scuri.
La seconda immagine, in dimensione orizzontale, mostra come protagonista non sia il giovane ucciso, la cui sagoma pure si intravvede in primo piano, bensì la rabbia dei presenti. Essi non si curano di lui, non merita nemmeno uno sguardo addolorato: sono troppo impegnati a urlare odio e a giurare vendetta. Una scena, per così dire, centrifuga, dove il morto è solo un pretesto.
Non vedi nemmeno una donna. Dove sarà la mamma di questo ragazzo? Forse si tratta di una di quelle donne palestinesi, sorriso fiero, ritratte, col loro consenso o meno poco importa, accanto al figlio poco prima che questi si faccia esplodere per uccidere, insieme a se stesso, quanti più ebrei possibile. Terminato il compito, esse, delle quali nessuno s’interessa, debbono rientrare nel nulla da cui sono state fatte emergere per poco. I lauti compensi corrisposti alle famiglie dei “martiri” non conferiscono dignità al lutto.
O forse è solo la madre di un giovane incolpevole, abbandonata da tutti nel suo dolore ancor di più della prima, in una società crudele ed immatura perché ha come valore supremo la “santificazione” della morte e non la celebrazione della vita.

UN INCONTRO
Ho letto e riletto le storie rese familiari da Non smetteremo di danzare; tutte emozionano e commuovono e non è possibile operare una “graduatoria” tra quelle che hanno lasciato una traccia più profonda nell’anima.
Ce n’è però una che è stata al centro di un incontro avvenuto nel giugno 2002, quando ero membro dell’Associazione Italia/Israele di Bologna. Un’esperienza importante, dalla quale scaturirono alcune note redatte sotto forma di Diario, che vorrei riportare qui, non certo con la presunzione di accostare la mia prosa di scrittrice dilettante a quella di un professionista qual è Giulio Meotti, ma per ricomporre, sia pure nell’intimo del cuore, una vita piena di entusiasmo frantumata dall’odio.
 

Diario


Quando, poco prima delle 20.00, ha squillato il campanello, il cuore mi si è messo a battere all’impazzata
……..

Insieme ad altri soci volonterosi, che erano riusciti a sensibilizzare altre associazioni culturali e a coinvolgere la stampa, e con l’inseparabile Giorgia, stavamo finalmente dando vita ad un’iniziativa che avrebbe avuto risalto al di fuori della ristretta cerchia dei soliti amici.
Alcune settimane prima la Presidente nazionale Lucia Scarabello, con un messaggio indirizzato a tutti i componenti della sua mailing list aveva annunciato: “Nel mese di giugno sarà in Italia per incontrare le Associazioni Italia/Israele interessate il Dr. Doron Menchel di Haifa, la cui figlia Danielle è stata uccisa in un attentato terroristico suicida palestinese lo scorso mese di marzo presso il ristorante Matza….” seguiva il logico invito a dare una rapida adesione onde consentire all’Ambasciata di Israele a Roma di organizzare il viaggio per il meglio.
Conoscevo la storia dei Menchel, poiché l’avevo letta sul sito web del Ministero degli Esteri israeliano. Sapevo che c’è una mamma come me, Nurit, due fratelli più piccoli, Assaf e Roni, che il padre, Doron, aveva studiato Medicina all’Università la Sapienza di Roma (per questo parlava bene la nostra lingua), che Danielle, la figlia maggiore di 22 anni, era cresciuta nella nostra capitale, dove le sarebbe piaciuto ritornare, magari a specializzarsi, che era una ragazza in gamba perché si manteneva da sola, che era felice ed innamorata…..Tante volte ho guardato, e guardo, ho letto, e leggo, le foto e le biografie delle vittime del terrorismo suicida….Donne, uomini, tanti bambini e ragazzi, nonni e nonne che si erano salvati alcuni decenni fa dai nazisti tedeschi, ma ai quali, oggi, i nazisti arabi fanno pagare il fio mentre gustano un gelato o celebrano il Seder di Pesach; volti che mi sorridono dai siti internet o da quei grandi manifesti di Jerusalem Post o Ma’ariv dove essi sono raggruppati in ordine sparso sotto la scritta: “Quanti ne dovranno ancora essere uccisi prima che il terrorismo sia fermato?
Danielle: il viso dalla forma un po’ allungata, il sorriso pulito, gli occhiali da sole in cima alla testa. Il suo papà andava accolto come si deve.
In un ristretto gruppo di volonterosi abbiamo spedito un altissimo numero di lettere/ invito; sensibilizzato alcune persone che sapevamo avere un filo diretto con gli organi di informazione –come da tradizione, accentuatasi tuttavia, e per assurdo, dal settembre 2000, sensibili alla causa palestinese, ma distratti, o peggio, nei confronti di Israele-; raccolto tanto materiale sulla guerra in Medio Oriente, ben consapevoli che la cosiddetta pubblica opinione è cresciuta a disinformazione, pregiudizio e ignoranza.
Una gentile signora, Presidente di un circolo culturale cittadino, familiare e raccolto, ma in grado di accogliere nella sua sede un vasto numero di persone, il nome suggestivo: Cabaret Voltaire, ci aveva offerto la sua ospitalità.
Avevamo anche predisposto un rinfresco/dopo conferenza con dolci, salatini e soprattutto bevande fresche, dato l’improvviso caldo incombente.
Così avevo passato il pomeriggio del giorno dell’incontro occupata tra il buffet e l’allestimento della documentazione seria da distribuire agli intervenuti.
Col il mio consocio Yossi (Yosef), forbici e scotch in mano, attaccavo alle pareti del Cabaret Voltaire i manifesti con i volti delle persone uccise -ecco Danielle; so bene chi è, ormai- e le immagini dei bus inscheletriti e i giovanissimi in uniforme falciati da bombe e kalashnikov e il macello del Caffè Moment e….pensavo. Chiedevo a me stessa: che cosa faresti TU se TUO FIGLIO……
Che cos’è quel peso che ho sul cuore da quasi due anni, da quando l’uomo furbo e crudele con la kefiah, osannato da troppi occidentali, scese la scaletta dell’aereo facendo il segno di vittoria con le dita, mentre Barak ritornò a casa come un cane bastonato? Ricordo d’aver subito pensato qui succederà il finimondo.
Yossi beviamo un bicchier d’acqua, che ne dici?
Cercavo di distrarmi chiacchierando con la segretaria del circolo, una signora giovane, con pantaloni e casacca sportiva a quadri, sorridente, ma che sembrava portare nell’anima una pena segreta. Più tardi mi confiderà: “Sa, mia sorella, aveva l’età della figlia del signore che verrà stasera, è stata uccisa da un balordo, che nemmeno conosceva, così per una fatalità assurda……”
 Ero molto emozionata al pensiero di conoscere Doron.
“Ma, dimmi, che persona è?” avevo chiesto a Yossi che lo aveva accolto dall’uscita del casello autostradale di Bologna -proveniente in automobile da Roma dov’era arrivato con l’aereo il giorno prima- e si era recato con lui a colazione.
Yossi aveva sorriso “Sono stato con lui per ore. Non preoccuparti: è uno con una grande forza morale, una persona a posto, lucida. Parlerà di terrorismo”.
Benissimo, d’accordo. Ma io sarò alla sua altezza?
Non avevo preso nemmeno un istante in considerazione l’ipotesi di presentare l’ospite agl’intervenuti. Già non sono disinvolta nel parlare in pubblico, poiché preferisco il computer al microfono; inoltre ero sicura che, dopo le prime espressioni di cortesia, non appena avessi accennato all’uccisione di Danielle, la voce mi si sarebbe incrinata. Meglio passare la mano.
Claudia, moglie di Yossi, abile psicologa, mi aveva proposto, quando mi accingevo a scrivere la lettera/invito ai soci: “Perché non fai presentare il Dr. Menchell da Tuo marito? E’ un docente universitario, abituato alla platea, mi sembra abbia notevole facilità di parola”.
Mi ero schermita all’inizio, poi avevo chiesto un paio di giorni per persuaderlo: so che non fa il “prezioso”; se declina una richiesta la ragione sono i numerosi impegni.
Alla fine disse di sì. Partiamo.
Le persone, numerose, iniziano ad affluire ben prima dell’ora stabilita, le consuete 21.00.
C’è un giovane in bermuda e casco da motociclista, inviato di un quotidiano locale, c’è un giornalista della RAI (TG 3), con aria professionale.
Manca poco alle 20, suona il campanello.
So che Giorgia è andata a prelevare il nostro ospite in albergo per condurlo qui.
E infatti eccola, saluta ed entra facendo strada; mentre una figura maschile, alta, appare sul vano della porta. Doron. Lo intravvedo appena, poiché subito viene catturato da Yossi, che lo presenta alla stampa. I giornalisti non possono aspettare.
Giorgia mi si avvicina, visibilmente emozionata. “Difficile, molto difficile.” mormora e spiega “Durante il tragitto dall’albergo a qua ho parlato quasi sempre io; ma confesso che ogni sillaba che pronunciavo mi pareva una banalità prima ancora che mi uscisse di bocca”.
Approfitto di un istante in cui l’inviato RAI predispone microfoni ed altro per avvicinarmi, ben conscia di snocciolare, a mia volta, il solito “rosario” di banalità.
Tendo la mano: “Caro Dr. Menchel, è per noi un grande onore averLa qui!”.
E’ un bell’uomo, in pantaloni sportivi e maglietta beige, capelli rasati, viso tondo: si vede che è giovane. Ha occhi chiari, profondi. A sua volta mi stringe forte la mano e mi risponde con un grazie, che significa bandiamo i convenevoli, non sentirti, non sentitevi, in imbarazzo. Il mio dolore è indicibile: non sono venuto per parlarvi di esso, se vi trovate qui significa che mi siete vicini e questo mi basta. Non sono venuto a parlarvi del mio dolore personale, se non per poco.
L’ambiente si riempie di gente, incuriosita da quel signore che conversa con i giornalisti, ma rispettosa. Alcuni giorni prima avevo anche avvisato un funzionario della DIGOS, sempre meglio essere prudenti. Un’auto della polizia sosta fuori, nel cortile.
Saluto quel magistrato, persona colta e sensibile, che non manco d’invitare quando abbiamo ospiti di particolare rilievo; abbraccio l’amica professoressa universitaria, madre di quattro figli, la quale ha aderito alla serata con entusiasmo (“Non so nulla di storia del Medio Oriente” mi aveva confessato “ma questa esperienza di vita vissuta la voglio ascoltare”).
Inizia l’incontro, con la sala gremita.
Mauro, mio marito, fa l’introduzione alla serata con parole sobrie (lo ringrazio, intanto, fra me e me) e presenta il Dr. Menchel, mentre un caro amico, simpatizzante di Israele, Giancarlo Fanzini, avvocato e studioso di storia, sintetizza le origini e gli sviluppi ultimi del fondamentalismo islamico.
“Da quando Danielle è stata uccisa” esordisce il suo papà “la vita in casa nostra è divisa in due: la vita ‘prima’ e la vita ‘dopo’. Danielle era felice. Lavorava per ragazzi disadattati, aveva un nuovo amore. Quel giorno era andata al ristorante, dopo la lezione di matematica, con un’amica, il ristorante dove eravamo stati tante volte… Là un terrorista suicida si è fatto esplodere e si è portato via la vita di mia figlia, insieme a quella di altre 16 persone”.
La voce di Doron è limpida; tutto il dolore del mondo che egli ha sulle spalle è composto, di una dignità che ti fa sembrare piccina. Mi ricorda…ecco chi mi ricorda, quella dignità: Rita Borsellino, sorella di Paolo, o Antonino Caponnetto, il capo del pool antimafia di Palermo, che considerava suoi figli gli eroici magistrati fatti a pezzi da Cosa Nostra. 
“Pochi giorni dopo morì anche mia madre di 85 anni. Vissi così 14 giorni di shivah, di lutto, seduto su un divano, occhi sbarrati, a ricevere il conforto di parenti e amici. Ho avuto a lungo la tentazione di lasciarmi andare, di sprofondare nella fossa che mi si era aperta nel cuore”. Nella sala, dove non troveresti un angolo vuoto, non si sente nemmeno il respiro dei presenti. “Poi decisi che dovevo spiegare al mondo la situazione in cui vive Israele, perché credo che la pubblica opinione europea non sia sensibile al dramma del popolo israeliano. Sono qui per dare un nome e un volto a semplici statistiche. All’inizio questo mio impegno è stato una sorta di psicoterapia, ora lo considero un dovere civile.” Doron non crede che l’informazione da noi sia imparziale: “..in un Paese dove vivono tanti miei amici e al quale sono molto legato, mi rendo conto come l’informazione sia distorta e distante; si informa soltanto perché lo si deve fare. Israele è diventato, per la stampa, una sorta di Golia. Perché? Nella guerra delle immagini, che il nostro nemico conduce con abilità, ecco emergere il carro armato israeliano che si scontra con la vecchietta palestinese inerme. Questo è ciò che appare. La realtà è diversa; la realtà vera è: il carro armato, alle cui spalle sta uno Stato democratico esteso quanto la Puglia, con un forte dibattito interno, che si scontra col vasto mondo arabo, che di democrazia sa ben poco, pieno di animosità distruttrice. Il vero David è sempre Israele.”
Mi guardo attorno. So che, oltre agli amici e simpatizzanti di Italia/Israele, vi sono persone che non hanno dimestichezza con gli argomenti che si stanno trattando, o meglio persone che oscillano, paradossalmente e a seconda delle circostanze, tra la posizione tradizionale di sinistra, antisraeliana per partito preso, in stile “Michele Santoro”, con variazioni sul tema; e quella del fronte opposto, diciamo: i c.d. “benpensanti”, di chi, per intenderci, “ama” tutti gli Ebrei, tranne quelli che vivono in Israele. Quando non si conosce una realtà, quanto più essa è complessa e difficile, tanto più ci si rifugia nei luoghi comuni. E’ un meccanismo di rifiuto, consolatorio, che, mi pare, abbia acquisito ancora più vigore dopo gli attentati dell’11 settembre scorso, anziché condurre ad una maggiore consapevolezza. Questa almeno è la mia impressione. Misteri della psiche umana.
Comprendo che le parole di Doron sono macigni, al di là del tono calmo con cui vengono pronunciate. Colpisce me, ma credo anche gli altri, che in quest’uomo, al quale hanno distrutto la vita (che c’è di più contronatura dell’uccisione di un figlio?), non ci sia mai, neppure per un istante, un grammo di odio. Dolore straziante e incommensurabile, ma odio, mai. Nemmeno per gli assassini di Danielle. L’ho capito in questi due anni di guerra, ascoltando direttamente voci, osservando volti ed immagini, leggendo pagine su pagine di racconti e confessioni. La forza dei figli di Israele. Un solco incolmabile li separa dalle parole di quello psicologo (?) egiziano che descrive l’attimo in cui un terrorista suicida si fa deflagare come un “momento di massima felicità, di estasi totale”. Follia? No, a mio parere, bensì lucido progetto di sterminio.
Doron è inesorabile “Voglio che l’Europa capisca il pericolo rappresentato dal fondamentalismo islamico, prima di provarlo direttamente sulla propria pelle. Deve comprendere che è in atto una crociata, una ‘mezzalunata’ (precisa, con un certo spirito), contro l’intero mondo occidentale, i cui valori sono disprezzati dall’Islam fondamentalista, dove il dialogo e la comprensione sono ritenuti segni di debolezza e non espressioni positive……I mandanti degli attentati si arricchiscono con gli aiuti che l’Occidente invia alle popolazioni palestinesi. In cinquant’anni sono stati stanziati oltre 4 miliardi di dollari a sostegno delle sofferenze dei profughi. Quel danaro anziché servire alla costruzione di scuole, ospedali o a realizzare posti di lavoro, è finito nelle tasche dei signorotti della guerra, che l’hanno utilizzato per sé e per comprare armi. E’ stata creata un’economia di guerra funzionale alle élites del terrore. Per liberare dalla paura coloro che, tra i palestinesi, desiderano vivere in pace è necessario che l’Occidente, anzitutto l’Europa, si dimostri decisa a bloccare i flussi ingenti di danaro che consentono l’acquisto, sempre più massiccio di armi.
Questo deve capire l’Europa. Se si nega un problema, questo riapparirà, più grave ancora.”
“E’ come con un tumore” usa un paragone medico “bisogna impedire la formazione di metastasi”.
E conclude con un appassionato “Se vogliamo assicurare un domani ai nostri figli, ai figli dei palestinesi, ai figli degli europei, dobbiamo, senza infingimenti, lottare il fondamentalismo islamico”.
Non darò conto del dibattito vivace che è seguito a questa che chiamerei “Orazione per la vita in memoria di mia Figlia Danielle”, Danielle che, in un’altra foto, ti osserva da sotto in su, come fanno spesso i ragazzi, sguardo divertito e una bourekas in mano; Danielle, figlia di Nurit e Doron, ma anche figlia nostra.
Posso solo dire che i presenti hanno ricevuto una grande lezione morale, al di là delle diverse opzioni politiche e culturali; anzi, nei giorni successivi, sia il magistrato bolognese, cui accennavo sopra, sia la mia amica professoressa mi hanno confessato di prestare alle vicende tragiche che si svolgono in Israele un’attenzione nuova e diversa, proprio dopo l’incontro col “Dottore di Haifa”.
Cosa Nostra mediorientale non avrà l’ultima parola.

Bologna, 26 giugno 2002

 
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