GECE 2016

 

La GIORNATA EUROPEA DELLA CULTURA EBRAICA è preziosa occasione offerta al grande pubblico d’incontrare e scoprire il patrimonio umano, religioso, storico, culturale, artistico del Popolo Ebraico, grazie all’apertura di sinagoghe, musei, luoghi significativi; con visite guidate, degustazioni gastronomiche, spettacoli, mostre, conferenze, dibattiti, esposizioni di libri da consultare e acquistare. 

Per l’edizione 2016, la 17°, ancora una volta è di eccezionale rilevanza il tema scelto dall’AEPJ (Associazione Europea per la preservazione e la promozione del patrimonio culturale ebraico), con sede a Girona (Spagna), l’organismo che coordina a livello europeo l’iniziativa, insieme con altre istituzioni, tra cui l’UCEI.

Lingue e dialetti ebraici è un argomento che sembra fatto apposta per incoraggiare l’interesse verso un mondo troppo spesso visto in modo monolitico; questo anche a prescindere dall’antisemitismo, tuttora -ahimé- in voga; palese o inconsapevole, poco importa.

Lo stesso titolo sembrerebbe quasi fuorviante; ma subito ci si accorge che non si tratta affatto di contraddizione.

Se uno dei tre pilastri sui quali il Popolo Ebraico fonda la propria Identità (gli altri due sono Popolo e Terra di Israele) è la Torah -fonte di vita e di sapere per l’Ebraismo, nonché riferimento imprescindibile per il mondo dei “gentili”-, scritta nell’ebraico tradizionale, gli Ebrei a seguito delle vicende drammatiche di dispersione vissute nel corso dei secoli, hanno parimenti sviluppato un’incredibile quantità di dialetti, parlate, linguaggi diversi in grado di contribuire, secondo diverse modalità e declinazioni, alla trasmissione della loro preziosa cultura. Oltre che essere gioiosa  miniera per il mondo maggioritario esterno.

Chi conosce, ad esempio, la differenza tra ebraico antico e aramaico; o sa che una stessa parola si può pronunciare in tanti modi diversi o, ancora, che gli Ebrei di Corfù parlavano una sorta di dialetto pugliese e che quelli del Marocco, colà giunti dopo essere stati espulsi dalla Spagna nel 1492, esportarono il loro (chiamato Haketia) fino al Rio delle Amazzoni?

E poi ci sono lo yiddish, la Mamelhoschn (lingua-madre), in uso nei villaggi dell’Est Europa -fonte di una stupenda letteratura diffusa anche in luoghi diversi, a cominciare dagli U.S.A.-; il giudeo spagnolo (o ladino o giudesmo) degli abitanti di Sefarad, cioè della Spagna, senza escludere le parlate di coloro che hanno abitato i Paesi arabi molti secoli prima dell’avvento dell’Islam -anzi, a detta di un amico, pare che l’ebraico parlato dagli ebrei yemeniti, ebrei – arabi per così dire, sia il più bello e musicale-.

E teniamo presente  che l’ebraico, caso davvero unico nella Storia, è pure protagonista di un’autentica rinascita: un idioma antico, pur non scomparso, diviene la lingua nazionale di uno Stato moderno, Israele, grazie all’opera di Eliezer Ben Yehuda e dei primi pionieri.

A proposito del rapporto tra  Israele e yiddish,  giova ricordare come, nei primi decenni di vita dello Stato, parlare e scrivere in questa lingua non fosse visto di buon occhio. Essa era l’idioma della sottomissione, della sconfitta, della morte, della Shoah. Si doveva parlare, scrivere, pensare, vivere in ebraico, in coerenza con la rinascita ad un’esistenza nuova.  Poi, con la riscoperta delle proprie radici, c’è stata una rivalutazione dello yiddish, con autori poeti e scrittori che vi scrivono ; così da non disperdere questo prezioso patrimonio.  Nel 1987 (un po’ tardi, ma lo si spiega) è sorto, anche in Israele, un teatro yiddish.

E, via via, fino all’Italia.

Nel nostro Paese possiamo sbizzarrirci con il giudaico-romanesco, il “bagitto” livornese, il giudaico-veneziano, il giudaico-piemontese. E questi sono gl’idiomi più conosciuti.

Afferma in modo perspicuo Giulio Busi, Professore alla Freie Universitaet di Berlino, dove dirige l’Istituto di Giudaistica:”…..anche se in tutte le culture letterate la lingua è uno degli elementi distintivi, il giudaismo ha la lingua e il testo quale elemento fondativo  e di continuità. Un testo dal quale si irradia tutto il resto, un racconto scritto che è al centro di un’intera cultura. E che si può portare con sé nella diaspora, imparare a memoria, trasmettere  di generazione in generazione“.

 

Insieme con 35 località europee che aderiscono alla Giornata, abbiamo 74 città italiane in collegamento ideale tra loro.

Capofila della presente edizione è Milano, proprio nell’anno in cui vi si celebra il centocinquantenario della locale Comunità, nonché il sessantesimo dalla fondazione del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, indispensabile punto di riferimento per tutti gli studiosi del settore.

 

Per quanto concerne Bologna, fittissimo è il calendario degli appuntamenti, suddivisi tra il Museo e la Comunità Ebraica.

 

 

 

 

In coerenza con le precedenti edizioni, riferirò su alcuni Eventi ai quali ho partecipato; oltre che su iniziative collaterali alla Giornata, precedenti e successive alla stessa.

 

Per non abusare troppo della pazienza dei lettori suddividerò il mio contributo in alcune puntate; anzi lo declinerò secondo la classica struttura che in Musica viene detta Forma sonata; uno dei cui “padri” fu Johann Christian Bach (Lipsia, 1735 / Londra, 1782, ben conosciuto da Mozart), 11°figlio del grande Johann Sebastian e della moglie Anna Magdalena .

Quindi, in sintesi, poiché non ho certo “pretese” musicologiche: I Tema; II Tema; Sviluppo; Ripresa; Coda.

 

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Com’è tradizione da qualche tempo la Giornata ha il suo anticipo in Jewish Jazz, la vivace rassegna musicale inserita nel cartellone di BéBologna Estate 2016 (programma promosso e coordinato dal locale Comune), centrata quest’anno, in coerenza col tema, su Lingue musicali ebraiche tra cabaret, jazz e musica etnica attraverso quattro appuntamenti:

 

Giovedì 8; Domenica 11; Giovedì 15 settembre; con conclusione Domenica 18.

Tutti gl’incontri si svolgono nella suggestiva cornice del cortile di Palazzo Pannolini, di proprietà UNICREDIT, uno degli sponsor di questi eventi, sede del Museo Ebraico a far tempo dal 1999.

 Jewish Jazz 2016

 

 

Giovedì 8 settembre, ore 21:00

Lee Colbert Trio: A Jewish Cabaret con Paolo Cintio (pianoforte) e Gabriele Coen (clarinetto, sassofono).

 

Lee Colbert, nata a New York da famiglia ebraica e cresciuta a Buenos Aires, è illustre rappresentante del repertorio yiddish. Il suo ambito di espressione spazia dalla musica contemporanea al jazz, dalla quella da camera alla popolare, dal tango argentino al tipico registro yiddish.

 

 

Accompagnata per la prima parte dello spettacolo dal pianista, Paolo Cintio, Lee ci propone una sorta di “Cabaret virtuale”, inter-temporale e interlinguistico.

E’ una bella donna con zazzeretta bionda sbarazzina e capacità eccezionale di tenere la scena.

La sua voce potente ci racconta in yiddish, linguaggio drammatico / ironico che si sposa con la Musica in modo perfetto, le avventure di Abramino (Avreml), vero abitante di uno Shtetl dell’est Europa, il quale esige che, sulla sua tomba, un giorno -il più lontano possibile, va da sé…- sia scritto il seguente epitaffio: qui giace il grande ARTIST del…borseggio!

Lee canta e recita mescolando le differenti parlate e gli stati d’animo….Ma è lo yiddish il costante punto fermo, appoggiandosi al quale passa dal tedesco al francese.

Il riferimento, in quest’ultimo caso, è a Parigi dove Kurt Weill [1], uno dei compositori da lei preferiti, si recò, lasciata la sua Germania dopo l’andata al potere dei nazisti.

Parigi appare, ad un primo sguardo, come il luogo della bellezza, degli amori condivisi, della gioia, Youkali viene chiamato; ma quale amara disillusione……

Il brano dice press’a poco così:

“Youkali

È l’adempimento

Di tutte le promesse scambiate.

Youkali

È il paese

dei begli amori condivisi,

È la speranza

che è nel cuore di tutti gli uomini

La liberazione

che tutti aspettiamo per domani.

Youkali

È il paese dei nostri desideri.

Youkali

È la felicità,

È il piacere.

 

Ma è un sogno, una follia:

Non esiste il paese di Youkali!

Ma è un sogno, una follia:

Non esiste il paese di Youkali!”.

 

Con lo shtetl sempre nel cuore, la nostra cantastorie narra la vita del venditore di sigarette, al quale va davvero tutto sorto: nessuno compra la sua merce e, per soprammercato, la sorella tanto amata muore tra le sue braccia. Papirosen, Sigarette, è il titolo di questa struggente melodia.

 

Chi non ricorda L’Opera da tre soldi [2], composta, con musiche di Weill, nel 1928 da Bertolt Brecht, autore ora non più così alla moda e rappresentato come cinquant’anni fa, ma pur sempre di eccezionale suggestione?

Ecco un brano dalle reminiscenze bibliche, recitato / cantato da uno dei protagonisti, Jonathan Jeremiah Peachum. Mi viene in mente il grande Gianrico Tedeschi che vi prestò la sua arte in un’edizione memorabile al Piccolo Teatro di Milano nel 1956, con Tino Carraro nel ruolo di Mackie.

Il titolo è: La canzone sull’inutilità degli umani sforzi

A cosa servirà

la gran filosofia

pidocchi e pulci porterà

il resto è follia.

L’uomo in questa vita

scaltro deve farsi già

vince la sua partita

chi ti sa fregar.

 

Quante suggestioni evoca, nel corso del viaggio, la Rapsodia in blu di George Gershwin, cioè Jacob Gershowitz (1898/1937, l’iniziatore del musical negli USA)…..

Ma anche l’America è un mondo difficile, con le sue disillusioni, da risate a mezza bocca: What ken you makh, Es iz Amerike, Che ci vuoi fare è l’America….Indulgenza mescolata ad amarezza in anglo-yiddish. Fantastico è  il connubio tra yiddishkeit e tradizione musicale statunitense, come Lee ci dimostra.

Con Summertime, cioè Zumertsayt, suonata al flauto traverso, fa il suo ingresso Gabriele Coen, l’anima della manifestazione, sempre presente in tutte le edizioni e consigliere del MEB in materia di Musica, anzitutto ebraica.

Gabriele alterna flauto a sassofono e clarinetto e, quasi senza accorgercene, approdiamo in Argentina con il Tango della Primavera, cioè Friling, in yiddish.

Friling fu scritta da Shmerke Kaczerginski nell’aprile 1943, dopo la morte di sua moglie Barbara nel ghetto di Vilna; il brano, basato su una melodia di tango composta da Avrom Brudno, sprime la tristezza e il senso di disperazione e solitudine dell’Autore.

E ci commuoviamo ad ascoltare la dolcissima nostalgia racchiusa in Speak low, Parla sottovoce (sempre di Weill), resa celeberrima da Barbra Streisand…..Acchiappiamo in fretta la vita perché essa fugge lontano in un attimo.

Molto amato da Lee è Mordechai Gebirtig (autore di veri e propri Lieder, Mayne Lieder, diceva, da lei soprannominato, a ragione, il Franz Schubert, della Yiddishkeit).

 

GEBIRTIG

  Nato il 4 maggio 1877 a Cracovia, nel quartiere ebraico di Kazimierz, Mordechai vi trascorre tutta la sua vita. E’ stato falegname, mobiliere, attore dilettante, militante del movimento socialista, poeta popolare (pensiamo all’ode dedicata alla Ragazza caduta, cioè una prostituta), compositore di canzoni di successo ben conosciute dagli ebrei della sua città, di brani veicolati dal teatro yiddish in ogni angolo della Polonia, nelle terre popolate dagli ebrei dell’Europa centrorientale ed in quelle dell’emigrazione ebraica per il mondo. E’ la voce profetica dell’imminente incendio che cancellerà la nazione ebraica ed il cantore del martirio del proprio Popolo fino alla fine dei suoi giorni. il suo canto,  La città brucia è l’inno dei giovani del  ghetto di Cracovia.

E’ ucciso dai nazisti nella sua città natale, durante la liquidazione del Ghetto il 4 giugno 1942.

Blyb gezunt mir, Kroke! Stammi bene, Cracovia, stammi bene..il nemico feroce mi allontana, come si allontana un cane…con crudeltà mi allontana da te.

 

Non poteva mancare il grandissimo, e tanto caro per me, Lenny, cioè Leonard Bernstein (1918/1990), che non ha bisogno di presentazioni.

Somewhere…Tony e Maria di West Side Story sognano un mondo nel quale si potranno liberamente amare.

Un particolare: lo sapevate che autore della mitica White Christmas, Irving Berlin (uno dei più importanti compositori del Novecento, 1888/1989), si chiamava in realtà Izrail’ Moiseevič Bejlin e proveniva da una famiglia ebraica di Mogilёv in Bielorussia, poi emigrata dall’Impero russo negli USA a fine ‘800?

Magari la sua ebraicità l’aveva un po’ perduta per strada, ma le radici non si possono dimenticare del tutto.

 

Pubblico entusiasta in attesa del secondo incontro

 

 

Domenica 11 settembre, ore 21:00

Quintetto Magnard

Stasera è di scena un altro gruppo insolito e interessante.

Il Quintetto Magnard, costituito all’interno del Conservatorio “G.B. Martini” di Bologna, è formato da studenti e insegnanti della classe di musica d’insieme di fiati. Deve il nome al musicista francese Alberic Magnard (1865/1914), conosciuto soprattutto per composizioni cameristiche [3].

Componenti sono: Razvan Marin (oboe); Roberto Ricciardelli (clarinetto); Antonio Cavuoto (fagotto); Simone Ciro Cinque (corno), accompagnati da Stefano Malferrari, direttore, al pianoforte.

Oggi, sotto l’egida del titolo Dal Classico al Klezmer Tunes, i nostri amici ci propongono un repertorio variegato: dal classico -col celebre Quintetto in mi bemolle maggiore K 452 di W.A. Mozart- a Daniel Galay, una dei più significativi esponenti della musica israeliana contemporanea, in continuità diretta con la tradizione musicale ebraica, in specie dell’Est Europa.

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Il Quintetto in mi bemolle maggiore per pianoforte e fiatiK 452 (una sorta di prova, secondo i musicologi, de Le Nozze di Figaro), fu completato da Wolfgang Amadeus Mozart  il 30 marzo  1784 ed eseguito per la prima volta due giorni dopo al Burgtheater  di Vienna, con lo stesso Wolfgang al pianoforte. Poco dopo il concerto, l’Autore confidò al padre Leopold che lo riteneva una delle cose migliori che avesse mai scritto.

Quest’opera fornì l’ispirazione a Beethoven per il suo quintetto in mi bemolle maggiore per pianoforte e archi, op. 16,  composto in memoria di Mozart nel 1796.

La partitura prevede un pianoforte, un oboe, un clarinetto, un corno e un fagotto.

E’ composta da tre movimenti:

Largo – Allegro moderato

Larghetto

Allegretto

Il primo, Allegro, è in classica forma – sonata, con vari temi che vengono passati da musicista a musicista, da strumento a strumento, solitamente introdotti dal pianoforte che poi accompagna e, per così dire, coordina; mentre oboe, clarinetto, corno e fagotto suonano fantasiose variazioni su di essi.

Il Larghetto, come altri secondi movimenti di composizioni mozartiane, è lieve e gentile.

L’Allegretto è un “rondò” del genere che Mozart era solito usare per il finale di molti concerti per pianoforte da lui scritti in quel periodo, e contiene verso la fine una sezione a mo’ di cadenza.

Tutti suonano con sentimento e precisione, sprizzano Vita ad ogni nota, dialogando e rincorrendosi l’un l’altro. Fanno davvero “Musica insieme” e ci portano a sognare, incoraggiati dal genio del Salisburghese.

 

Veloce salto nell’odierno Israele dove facciamo la conoscenza di Daniel Galay.

gal

 

Nato in Argentina nel 1945, immigrato a vent’anni in Israele, compositore e pianista, ha suonato in numerose orchestre in Patria e all’estero, ottenendo prestigiosi riconoscimenti internazionali.

Studioso della Musica tradizionale ebraica, ha pure rielaborato 18 brani popolari adattandoli agli strumenti classici. Si tratta di musiche suonate nelle più diverse circostanze, per lo più conviviali.

Il Quintetto Magnard ce ne presenta 8, uno più suggestivo dell’altro.

Abbiamo ben presente che pure i compositori più illustri (pensiamo a Bach, ma non è certo il solo) non concepivano solo musica, per così dire, seria, ma anche altra, più lieve, adatta ad occasioni tipiche della via quotidiana.

iIl passaggio dall’ambiente colto settecentesco all’informale universo israeliano non è affatto traumatico, pur nella diversità dei registri: dolore, gioia, riflessione , malinconia, ripianto…

E rievocano immagini lontane…All’oboe di Razvan, fanno eco il fagotto di Antonio, il corno di Simone e….tutti quanti sono in armonia e consonanza.

Ma……Quella Scala Cromatica, “disegnata” alla fine da Stefano sul pianoforte, che cosa intende esprimere?

Serenità assoluta nell’armonia o l’esatto contrario, cioè dolore e tormento?

 

Martedì 13 settembre, ore 18:00

Ci trasferiamo alla Libreria Coop. Ambasciatori

per la presentazione del volume ISRAELE: Diario di un assedio (216, Ed. Proedi, pp. 622, €. 18,00) di Ugo Volli, in collaborazione con la Comunità e il Museo Ebraico di Bologna.

Insieme con l’Autore – Professore ordinario nell’Università di Torino, dove insegna “Semiotica del testo” e “Filosofia della comunicazione- intervengono Daniele De Paz -Presidente della Comunità ebraica bolognese- e Lucio Pardo, membro “consolare” della stessa.

 ISRAELE Diario di un assedio

 

Pubblico folto ed attento. Per fortuna non si fanno vedere i soliti provocatori, tanto prepotenti quanto ignoranti in materia, puntuali in queste occasioni.

Il testo è una selezione del “diario in pubblico”, costituito dagl’interventi apparsi, dal 2009 al 2015, su www.Informazionecorretta.com, Rivista on line (fondata da Angelo Pezzana nella primavera 2001) specializzata nell’analisi della comunicazione giornalistica e mediatica sul Medio Oriente e, in particolare, su Israele. Il titolo sta a dimostrare come: il terrorismo, gli attacchi militari di realtà quali Hamas e Hetzbollah (e pure Fatah), la diplomazia europea e statunitense (soprattutto con la Presidenza Obama), oltre a quella dei ricchi Stati arabo musulmani, l’attività di istituzioni internazionali (quali la UE; l’ONU; l’UNESCO -impegnata, da tempo, nel grottesco passatempo di negare carattere ebraico a luoghi, ricordi, monumenti che sono parte essenziale nella storia e nella vita del Popolo biblico-; la UNWRA, Agenzia ONU creata, unico caso al mondo, ad hoc per i rifugiati palestinesi nel 1949, occhio alle date), la massiccia mobilitazione di sempre crescenti strati di opinione pubblica religiosa, politica e intellettuale cosiddetta progressista (in realtà reazionaria e antidemocratica), tutti costoro convergano in tutto l’Occidente per indebolire, delegittimare, demonizzare lo Stato di Israele.

Questa “attività”, documentata scrupolosamente nel testo, costituisce un autentico “assedio postmoderno” di Israele e degli Ebrei. L’ossessione, drammatica e comica ad un tempo, che prende Israele come obiettivo unico di tutto il panorama politico mondiale, la sua forte violenza, si spiegano solo pensando che l’origine sta in secoli di antisemitismo cristiano e musulmano.

Finalmente, dopo anni di conoscenza per così dire, a distanza, ho il piacere di incontrare Ugo Volli, il quale, tra l’altro, ha trascorso diverso tempo a Bologna (dal 1976 al 2000), quale allievo e collaboratore di Umberto Eco.

Persona amabile, simpatica, egli enuclea, in un linguaggio chiarissimo, alcuni concetti base.

I problemi che, fino a pochi anni fa, ritenevamo tipici dello Stato di Israele, a cominciare dalla continua minaccia terroristica (e dovuti, secondo tanti, ad una sorta di suo vulnus originario), stanno raggiungendo in pieno  le società occidentali.

A ben poco è servito, aggiungo, il tragico campanello d’allarme dell’11 Settembre 2001. Solo, banale considerazione, ad innescare guerre, magari giuste nelle intenzioni, ma del tutto sbagliate nei fini e nella tattica. Compresa, a mio avviso, quella iniziata da Israele nell’estate 2006.

Le società occidentali sono odiate dal mondo musulmano, espresso da una concezione politico / religiosa oggi prevalente, non perché ricche -in termini di reddito pro capite i Paesi arabo  /musulmani produttori di petrolio che finanziano il terrorismo lo sono assai di più-, o perché, in passato, hanno praticato il colonialismo, ma perché democratiche; perché amano l’uguaglianza tra gli esseri umani, in primo luogo riguardo alle donne, il confronto aperto, il dibattito anche aspro, l’errore, la varietà di fedi e culture, il colore. Non accetta differenze la monolitica società islamica. Essa esprime una visione del mondo prevalente oggi, ma che emerge -prima o poi- sempre nella storia dei fedeli di Maometto: ricordiamoci, a parte considerazioni di carattere strettamente religioso che non tratto, come l’Islam non sia passato attraverso le  forche caudine dell’Illuminismo; e, prima ancora, dell’Umanesimo e Rinascimento.

Tutto dev’essere omologato e nero, come il niqab femminile. Ed affermare, mi permetto questa digressione solo in apparenza frivola, che sotto  palandrane  e veli vari, le donne hanno abbigliamenti meravigliosi  e pieni di fascino- quelle che se lo possono permettere, evidentemente-, e che quindi -non si sa in base a quale logica- sarebbero libere quanto le occidentali, è fonte di equivoco; anzi è una stupidaggine bella e buona; un insulto al comune buonsenso. Razzismo mascherato, che manda all’aria due secoli di lotta per i diritti, specie riguardo alla posizione delle donne. Molte delle quali, negli ultimi decenni, pare si siano bevute il cervello.

L’Occidente è del tutto impreparato di fronte a questo…sconquasso. Perché? Perché è assai più comodo, consolante -e pure redditizio- nascondere la testa sotto la sabbia e/o inventarsi una realtà che non esiste. O sostenere le sciocchezze che ho rilevato poche righe sopra. Grave responsabilità assumono (beninteso con le Autorità preposte, a cominciare dai singoli governi europei) gli organi di (dis)informazione, nel nascondere i fatti o, al massimo, sminuirli quali espressioni patologiche individuali; com’è accaduto, primo esempio che mi viene in mente, con gli stupri perpetrati da sedicenti profughi contro donne inermi a Colonia la notte di Capodanno. Silenzio scontato delle femministe occidentali, quelle (o le loro degne figliolette ) che, un trentennio fa, starnazzavano a proposito di un preteso “diritto” di aborto, non  si sa nascente da che -e l’essere cattolici o meno non c’entra niente-; ma tacevano, già allora, sugli orrori commessi da Khomeini, tanto amato dagli intellettualoidi europei.

Tale atteggiamento suicidario occidentale -ed europeo in primo luogo- è un tutt’uno col pregiudizio verso lo Stato di Israele; pregiudizio che ha radici lontane, risalente almeno alla vittoria dello Stato ebraico nel giugno 1967; imprevista e imprevedibile, in grado di sparigliare le carte e spedire definitivamente in soffitta la figura dell’Ebreo sfortunato alla mercé del mondo intero; l’equilibrista sul filo, per ripetere una calzante espressione di Elena Loewenthal.

E Israele è il Paese al mondo dove c’è maggior attenzione giornalistica. Ma non si cerca di capire, sottolinea ironico il Prof. Volli, bensì -salvo rare, lodevoli eccezioni- di ammaestrare i lettori (o gli spettatori, nel caso delle televisioni).

Poco importa che gli uccisi nella guerra civile in Siria (tra cui moltissimi bambini), negli ultimi cinque anni, siano stati 300.000; ciò che conta è focalizzare l’attenzione sulle problematiche inerenti il conflitto arabo/israeliano/palestinese che di uccisi, dal 1948, ne ha avuti, quanto al numero,  1/10!

Israele, Paese grande più o meno come la Puglia, con circa 8 milioni di abitanti (compresi i non Ebrei), all’avanguardia in tutti i campi grazie alle sue sole forze, è, prima ancora della (ri)costituzione, stretto d’assedio sia da un “vicinato terribile”, parole di Volli, sia, a far tempo da alcuni decenni e in modo vieppiù crescente proprio dall’11 Settembre 2001, paradossi (ma non tanto) della Storia, da un’offensiva mediatica occidentale senza precedenti.

L’Autore si sofferma sul rapporto di perversa complicità tra il giornalista, il suo informatore in loco e il pubblico.

Mentre in Israele l’informazione è del tutto libera, nei Paesi vicini -a cominciare dai territori governati dall’ANP o, peggio ancora, da Hamas- occorre adeguarsi alla legge di chi è al potere (lo squallido caso dell’inviato della RAI Riccardo Cristiano insegna; è bene rammentarsi di quanto accadde in occasione del bestiale linciaggio di due riservisti israeliani in una caserma di Ramallah, ottobre 2000). I giornalisti per lo più non stanno sul campo, ma comodamente acquattati nei loro alberghi -ad esempio, il famoso American Colony, situato nella parte orientale di Gerusalemme- per ricevere, magari ai bordi della piscina, la “velina” dai “colleghi” palestinesi, da riportarsi così com’è nell’articolo per il giornale. Dal giornale ai lettori, per catturarne cuore e mente.

Variazione sul tema. Oltre al giornalista e l’informatore in loco ci sono  spesso pure altri soggetti di notevole importanza. Cioè  coloro che, sul campo, preparano gli eventi, chiamati dall’Autore -in modo azzeccatissimo- non fatti, bensì “fattoidi”, fatti costruiti ad arte. Si dispiega un vasto apparato ad hoc, telecamere sui luoghi scelti, cineprese, “attori”  cui si fanno ricoprire  il ruolo di tragiche vittime adulte, in primis donne, o di bambini vessati dal crudele esercito israeliano -pardon sionista; oppure “occupante”, non si sa bene di che, ma è troppo pretendere- secondo la collaudata strategia di Pallywood; espressione il cui significato non necessita di spiegazione. Capita tuttavia che vi siano incidenti sul lavoro.  A parte la nota vicenda, ormai lontana nel tempo, del ragazzino  Muhammed al Durra (autunno 2000), in realtà mai morto, ci sono esilaranti esempi. Come, ad esempio, il “povero” giovane palestinese, “ucciso” dai militari israeliani, del quale si celebra il funerale -con corredo di urla, strepiti, maledizioni, seguito dalle telecamere-, ma che, fuori dallo sguardo delle stesse, si alza rapido e corre via.  O le foto di bambini uccisi perché vittime di bombardamenti dell’aviazione con la “Stella di David”. Il contesto dovrebbe essere estivo, poiché siamo nel luglio 2014, in Medio Oriente, per di più, dove il caldo infernale si spreca. Peccato che i piccoli siano vestiti con pesanti cappotti. Si tratta di immagini risalenti all’inverno precedente e relative alla guerra civile in Siria -dove, mannaggia, Israele non è coinvolto-.

Al di là di simili smagliature (la perfezione non è di questo mondo, lo sappiamo)  è una strategia che funziona a meraviglia, almeno in Europa. Qui si sprecano le prese di posizione in favore di uno Stato palestinese, dogmaticamente definito indispensabile per la pace -quale?-, senza contropartite (sappiamo quali garanzie fasulle verrebbero date…La storia è antica, più che vecchia), tramite documenti zeppi di retorica e ovvietà, sottoscritti da personaggi di punta, anche appartenenti al mondo ebraico. Mi ha sempre colpito il fatto  che le persone, per così dire, di cultura, a partire dal solito 1967,  siano per lo più, in ottemperanza matematica ad una sorta di dovere d’ufficio, contro Israele e a favore dei suoi nemici -magari, nella migliore delle ipotesi, lasciandosi andare  a poco convinte ed ipocrite condanne degli attentati terroristici, che si potrebbero risparmiare, se non altro per onestà-. In queste consorterie di anime pure  viene arruolato a tamburo battente l’illustre intellettuale israeliano di turno.

Qui la differenza tra Israele e l’Europa. Il primo si difende perché ha un forte ethos nazionale, pur nell’estrema varietà delle posizioni politiche;  basti pensare appunto agli scrittori, molti dei quali tradotti  in tutto il mondo. E ben conosciuti da noi; almeno per quanto concerne gli articoli che scrivono sulle nostre testate. Per la verità di rado lucidi, mi si consenta.

La seconda sta ha disperdendo la propria identità democratica -il proprio patrimonio, le proprie radici ebraico/ cristiane il cui rifiuto di menzione nella Costituzione europea, anni fa, fu un errore madornale che scontiamo ora e che sconteremo in futuro ancora di più, se la “musica” non cambia-  in favore di una sudditanza assurda nei confronti dell’Islam; ciò è stato preparato da un laicismo becero (non laicità sana, beninteso) che non conosce valori, il quale ha creato quel vuoto totale che “altri” sanno riempire senza fatica. E con ragione, dal loro punto di vista.

Qualunque voce dissidente si tenta di silenziarla; compresa quella -oasi di frescura in un arido deserto- dei pochi dissidenti dei Paesi musulmani: abbandonati, ignorati, derisi. Peggio di quanto accadeva con quelli dell’Impero sovietico di buona memoria.

E Israele, il quale osa difendersi, è messo alla gogna; con qualunque mezzo, a cominciare dalla plateale menzogna mediatica. Più che necessario dunque, pur nella consapevolezza dell’incredibile disparità delle forze in campo (a cominciare da quelle finanziarie), è impegnarsi nella controinformazione.

Per questo è nata Informazione Corretta. Una volta Angelo Pezzana osservò: “Ci ignorano [i giornaloni, come li chiama], ma ci leggono”.

Il volume, ponderoso, ma scritto in una prosa lucida, senza infingimenti, espressione di un notevole coraggio morale e di onestà culturale che trovi di rado, è una preziosa guida per conoscere Israele e i termini della posta in gioco.

La dedica di Ugo è alla sua mamma, Chana Wolf Volli z”l, che gli ha “instillato la fierezza dell’Ebraismo” più di quanto loro stessi ne fossero consapevoli.

 

Qual è la posta in gioco? La difesa della democrazia contro il totalitarismo e terrorismo islamista che, nel caso palestinese, noi europei finanziamo direttamente da anni tramite il prelievo fiscale che i governi (a prescindere dal colore politico) effettuano sui cittadini.

Segue  la domanda: esiste un diritto di Israele ad esistere come Stato Ebraico?

Il mondo arabo, tutto, a cominciare da quello palestinese, nega con forza tale diritto.

E l’Europa, con gli USA “Modello Obama”, ha, come minimo, un atteggiamento equivoco su questo punto.

L’opera è anticipata dalla Premessa: come ogni overture che si rispetti, essa sta sì all’inizio, ma è composta dall’Autore alla fine (gennaio 2016) e dà significato al tutto.

Corredo eccellente le utilissime mappe.

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[1] (Dessau, 2 Marzo 1900 – New York, 3 aprile 1950), musicista e compositore tedesco, tra i più illustri e popolari del Novecento. Nato con la Musica perché suo padre era primo cantore della Sinagoga di Dessau.

[2] (Die Dreigroschenoper) è rielaborazione del Beggar’s Opera di John Gay (poeta e drammaturgo britannico: 1685/1732): si svolge nel contesto della malavita londinese e dei mendicanti, ma mette in scena, in realtà, il cinismo aristocrazia, con i suoi affari, i suoi interessi, i suoi intrighi. L’opera da tre soldi fu rappresentata per la prima volta nel’agosto 1928 al teatro Schiffbauerdamm di Berlino (in seguito divenuto il Berliner Ensemble). Lo scrittore ci narra un universo di emarginati e di esclusi, ma con intenzione provocatoria nei riguardi del pubblico borghese, che avrebbe dovuto scandalizzarsi di fronte a tale ambiente, ai personaggi e al loro linguaggio. Invece: il pubblico ideale, cioè i lavoratori -tant’è vero che nel titolo (“da tre soldi”) era ironicamente indicato il prezzo di entrata- non vi badarono e il successo fu decretato proprio di borghesi, con disappunto e meraviglia dello stesso Brecht.

[3] Albéric Magnard (Parigi, 9 Giugno 1865/ Baron 3 Settembre 1914) ebbe una vita solitaria e isolata, impegnandosi totalmente alla composizione. Fu ucciso dalle truppe tedesche, nel tentativo di difendere la propria abitazione situata a Baron, nei pressi di Senlis.

Tra le sue composizioni, si ricordano : 4 sinfonie; una suite in stile antico; Chant funèbre, Ouverture, Hymne à la Justice; le opere teatrali Yolande, Bérénice; musica da camera; liriche vocali da camera; pezzi per pianoforte.

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