(Titolo originale LEBANON; Germania / Israele / Francia / Libano, 2009 Genere: Drammatico)
Vincitore del Leon d’Oro alla 66° Mostra del Cinema di Venezia il film Lebanon dell’israeliano Samuel Maoz ci racconta la vicenda di quattro soldati di Israele bloccati all’interno del loro tank (il “Rinoceronte”), impantanato in territorio nemico, il primo giorno della guerra iniziata in Libano nel giugno 1982.
I protagonisti si chiamano Assi (il comandante), Yigal (il guidatore), Herzl (l’addetto al caricamento dei fucili), cui si aggiunge Shmulik, l’artigliere. Il compito loro assegnato è di scortare un’unità scelta di paracadutisti verso un villaggio libanese, già martellato dall’aviazione, per “ripulirlo” da eventuali sacche di resistenza. Un’operazione di routine, insomma.
Ma, come spesso accade, specie nelle circostanze drammatiche della vita, l’imprevisto entra in scena. Un’automobile avanza verso la pattuglia -e il carro armato-, Shmulik esita a sparare, turbato perché ancora non ha ucciso, e un paracadutista è colpito a morte; l’ordine superiore è di caricarne il corpo sul tank, in attesa dei soccorsi. In breve tempo la missione sfugge di mano al comandante e il gruppo si trova isolato. Per di più viene raggiunto il villaggio sbagliato (controllato dai siriani), dove un pugno di terroristi ha sequestrato dei civili facendosene scudo contro il nemico, secondo un collaudato modo di procedere. Nella battaglia che ne segue una famiglia viene massacrata; sopravvive solo una giovane madre, che si scaglia con la forza della disperazione contro i soldati israeliani, dai quali poi si lascia mettere al sicuro. Durante l’operazione viene catturato un soldato siriano, condotto come ostaggio sul carro armato, dove egli osserva spaventatissimo ciò che accade in quel piccolo ambiente. La paura diventa autentico terrore allorché sopraggiungono alcuni falangisti -cristiani libanesi, i tristemente famosi alleati di Israele- uno dei quali, entrato con aria strafottente nel carro, rivolge all’indirizzo del prigioniero tremende minacce di tortura e morte che solo il pubblico, oltre l’interessato, può capire, poiché nessun membro dell’equipaggio parla l’arabo.
La tensione cresce, per così dire, su se stessa ad ogni istante; il carro armato all’improvviso si ferma e pare non abbia intenzione di ripartire; indi, in un supremo sforzo, i soldati riescono a sbloccare il mezzo, il quale, tuttavia, sembra non avere più una meta precisa…fino alla scena finale che ci riporta, in modo circolare, a quella iniziale: un vasto campo di girasoli.
La pellicola si svolge tutta all’interno del carro armato, luogo del vissuto di quattro giovani dai 20 ai 30 anni, catapultati in un mondo assurdo di guerra e morte. L’interno del mezzo è stato ricostruito in un teatro di posa, ma il senso di soffocamento e angoscia vengono ben presto trasmessi allo spettatore: c’è caldo, puzzo di sudore, di carburante; e pure di urina, ad un certo punto.
In una versione teatrale ben allestita l’opera non perderebbe la suggestione.
Il mondo là fuori appare filtrato dal periscopio di Shmulik, che inquadra ora qua, ora là, a strappi, muto o quasi: lo sguardo rassegnato di un mulo morente, le urla disperate della giovane madre, il terrore di un ragazzino siriano che fugge più in fretta che può dal pericolo.
Lebanon, pur non riuscendo, secondo la mia sensibilità, a trasmettere tutto il senso tragico della guerra come altri film del genere -pensiamo, uno per tutti, a Saving Private Ryan di Spielberg- (peraltro non è facile operare una classificazione di “generi” cinematografici), tuttavia sa esprimere l’umanità e la quotidianità di sentimenti dei giovani protagonisti, le loro debolezze e paure (le stesse che hanno angosciato per anni il regista, che combattè giovanissimo in quel conflitto ). Essi non sono né -cavalieri-senza-macchia-e-senza-paura votati alla morte, né feroci macchine da combattimento prive di coscienza, come vorrebbero recenti rapporti approvati dall’ONU, bensì antieroi alle prese con i problemi nascenti dal contesto nel quale si trovano a vivere: Assi è un comandante che fatica ad imporre la sua autorità sugli altri, soprattutto su Herzl, contestatore nato; Yigal, è figlio unico di genitori un po’ in là con gli anni: desidererebbe tornare presto da loro e chiede, in un primo momento senza risultato, che essi siano rassicurati sulla sua incolumità. Infine Shmulik, nel quale forse Maoz ha messo una parte di se stesso maggiore che negli altri, tormentato dal pensiero di dover uccidere un essere umano; tormento che lo porterà, dopo il primo fallimento, paradossalmente a sparare non su di un nemico individuato, ma, a caso, su un povero contadino alla guida di un veicolo pieno di galline. Dilemmi gravi di coscienza, che qui prendono il nome terrificante di “bombe al fosforo”; e non consola certo ridenominarle “fumogeni”.
I racconti della vita civile, ora tanto lontana, come, ad esempio, la morte del padre o, struggente ironia, la prima eccitazione sessuale -proprio in quel giorno di lutto!- per merito di una fascinosa insegnante. O un gesto di aiuto semplicissimo e comune, che fa nascere quasi una sorridente complicità con il nemico di qualche istante prima.
Ma, si sa: “L’uomo è d’acciaio. Il carro armato solo ferraglia”; così sta scritto sulla fiancata del tank.
LEBANON è un’opera che fa discutere.
Riporto qui di seguito il parere di un amico, appassionato di cinema, che ho il piacere di annoverare tra i miei lettori.
Cara Mara,
grazie sempre delle tue mail.
A me Lebanon è piaciuto. Pur non essendo un capolavoro, mi ha trasmesso l’idea dell’orrore della guerra,
della paura, della solitudine del soldato, della angoscia e della impotenza, e pure della forza del dovere. Come Fabrizio Del Dongo a Waterloo, anche qui i soldati sono in mezzo ad una guerra, ma non capiscono a che punto è, né dove debbono andare, né cosa sta succedendo là fuori. E’ diverso dal soldato Ryan, certo: ma qui il film è su una guerra vicina, che non è ancora diventata epica nel ricordo collettivo, come lo sbarco in Normandia. è un film girato vent’anni dopo, e concepito ancora prima; mentre Ryan è venuto cinquant’anni dopo, ed è fatto necessariamente da soggetti che quella guerra non l’avevano combattuta.
Insomma, non mi è dispiaciuto.
Cari saluti
Giuliano (13.11.2009)
Da: Mara [mailto:mara.1948@alice.it] Inviato: lunedì 2 novembre 2009 0.19
A: BERTI ARNOALDI VELI Avv. Giuliano
Oggetto: Lebanon
Caro Giuliano,
Abbiamo visto ieri sera Lebanon e, per la verità, pur non essendo affatto male, anzi ha una notevole onestà intellettuale (qualità assai rara) ed accuratezza, mi aspettavo di più, tenuto conto del Premio ricevuto.
Sai, certi grandi amori non si dimenticano ed io sono rimasta legata a Saving Private Ryan!
Ecco comunque il commento.
Un caro saluto.
Mara