Ed. Millennium, collana Modernità, 2009, pp. 328

 
“….e l’occhio dell’osservatore non sapeva fermarsi sopra un oggetto distinto; ma vagava qua e là per trovare pure qualche cosa che stuzzicasse particolarmente la sua attenzione fra tanta turba di gaudenti”.
 
Siamo in una fredda mattinata di sole, il primo di gennaio 185…..
 
La Casa Editrice Millennium di Bologna, nata nella sua forma attuale nel 2003, promuove numerose iniziative per un pubblico colto ed appassionato (a cominciare dagli studenti universitari), avvalendosi della collaborazione di docenti nei nostri Atenei; sono nate così alcune collane, come, ad esempio: Modernità; Forme; Storicità; Integrazione dei saperi nelle scienze della salute; Piccola biblioteca di geografia; NovaScrittura; Visioni.
La grafica è elegante e i prezzi contenuti; l’interesse dell’editore è volto in primo luogo alla (ri)scoperta e rivalutazione di autori meno conosciuti.
In Modernità (testi e studi di cultura italiana diretta da Nicola D’Antuono) è uscito, lo scorso mese di dicembre, un romanzo storico, finora inedito, scritto nel 1859 da Giovanni Battista Intra, Lia o la fanciulla ebrea.
L’Autore -nato nel 1832 a Calvenzano (Bergamo), morto a Mantova nel 1907-, laureato in lettere a Pavia a nemmeno vent’anni, diplomato in Archivistica, successivamente perfezionatosi in Storia presso l’Università di Vienna, si stabilì ben presto a Mantova, dove risedette per la maggior parte della sua vita. Fu studioso di profonda cultura, in corrispondenza con i maggiori intellettuali contemporanei (a cominciare dal filosofo Roberto Ardigò), autore di numerosi saggi storici, con particolare riguardo ai Gonzaga, nonché “novelliere” dal tratto ricco di immaginazione, con pennellate piuttosto efficaci di là dello stile espressivo generale talora ridondante.
Il presente volume è anticipato dall’ottimo saggio introduttivo Riscoperta di un romanzo storico di periferia (e documentato con la successiva nota bio/bibliografica) di Stefania Segatori, giovane studiosa di letteratura italiana dell’Ottocento, la quale, dopo aver atteso all’ardua opera di trascrizione del manoscritto, ci accompagna lungo il percorso di interpretazione del testo e di inquadramento dello stesso confrontandolo con altre esperienze culturali in ordine ai temi trattati, a cominciare da quella di Ippolito Nievo.
Lia o la fanciulla ebrea, scritto a Mantova, come precisato sopra, nel 1859, dunque sotto il dominio austriaco e alla vigilia della Seconda Guerra d’Indipendenza, successivamente postillato, è anzitutto una preziosa opera di memoria storica poiché offre un rilevante contributo alla conoscenza del mondo ebraico mantovano, riportandoci notizie ed elementi non rintracciabili negli archivi ufficiali.
Mondo ebraico che, presente in città fin dal secolo XII, sviluppatosi lungo l’arco dei secoli successivi nelle diverse branche del sapere -dalla medicina, ai commerci, alla tipografia, fino al teatro e alla musica, attività, in passato, per esso insolite -, grazie alla tolleranza dei Gonzaga, confinato dagli stessi nel ghetto agli inizi del 1600 (su pressioni della Curia romana), può finalmente godere di una, sia pure assai relativa, libertà in forza della cosiddetta Patente di tolleranza, emanata nel 1782 dall’Imperatore Giuseppe II d’Austria, cui Mantova era passata fin dal 1707. Dopo tale provvedimento molti Ebrei iniziano ad uscire dal ghetto, specie i più facoltosi ed intraprendenti; e questo processo di liberalizzazione si intensifica dopo l’Emancipazione, avvenuta con i Francesi nel 1798.
Ai tempi di Giovanni Battista Intra la borghesia ebraica mantovana si segnala con importanti attività, ville, palazzi prestigiosi, oltre che per la rilevante partecipazione al Risorgimento (un dato interessante: quando Mantova è annessa al Regno d’Italia gli Ebrei sono circa 2000).
La trama del romanzo (o “Novella”, questa è la definizione dell’Autore) segue il canone romantico: l’amour passion, reso ancor più forte dagli ostacoli che incontra; la tragedia; il sacrificio redentore finale, attraverso il dolore, la malattia, il pentimento.
La bella Lia, figlia del ricco ebreo Jacopo, abita con il padre in un lussuoso palazzo nel centro città. Ella, per compiacere il genitore, accetta di impegnarsi nel matrimonio combinato col facoltoso cugino Aronne, giovane e intraprendente commerciante, innamorato al punto di compiere ogni sforzo per acculturarsi, onde non sfigurare di fronte a colei -amante della musica e delle buone letture- che ha scelto come donna della sua vita. La ragazza sembra tuttavia non aver fretta di sposarsi, ma Aronne non dispera, poiché, si sa, come scrive l’A., “…in generale le donne sanno nascondere a meraviglia le loro sensazioni…e hanno l’arte di parere indifferentissime per cose che stanno loro assai a cuore” (!).
La storia entra nel vivo con l’apparizione di Adolfo, archivista, giovane imbevuto di cultura classica e di valori cattolici, plurilaureato, il quale, dopo un lungo soggiorno presso gli archivi della corte imperiale di Vienna, giunge a Mantova per completare una ricerca sul Principe Eugenio di Savoia, commissionatagli dall’ambasciatore sardo. Intra non nasconde la propria simpatia per il protagonista maschile, cui presta alcuni tratti autobiografici: un ragazzo povero, che ha potuto studiare grazie ai sacrifici della famiglia d’origine (e qui è evidenziato il contrasto tra il generoso padre di lui e l’arido Jacopo). L’incontro casuale tra Lia e Adolfo è un autentico coup de foudre: agli occhi e al cuore della fanciulla egli sembra dar corpo all’ideale di uomo ricercato nelle sue solitarie letture.
Il giovane cerca in tutti i modi di convincere l’amata della superiorità del Cattolicesimo sulle altre fedi e di come tutto l’universo culturale a lei tanto caro, anche negli aspetti apparentemente lontani, sia in realtà imbevuto di valori cattolici. Ella afferma di conoscere solo “la religione del cuore”, ma, per amore di Adolfo, accetta di convertirsi alla religione di lui. Quando, sia pure con dolore, confessa al padre le proprie intenzioni, ciò comporterà funeste conseguenze.
I due innamorati abbandonano Mantova, ma un tragico destino li attende.
Tragedia che, nelle pagine conclusive della storia, viene purificata dalla presenza trasformata -e sorprendente per la nuova veste assunta- di una figura femminile, una sorta di dark lady, incontrata nella prima parte del romanzo, che esprime e riassume in sé il significato di tutta la vicenda.
L’opera ha una struttura ben definita, suddivisa in due parti: nella prima il lettore è accompagnato alla scoperta dei personaggi con ampi flashback per farceli conoscere nella loro storia; lo stile narrativo è un po’ ridondante con abbondanza di aggettivi in forma superlativa. Siamo di fronte al modello tradizionale di romanzo-storico d’ispirazione manzoniana.
Dal XV capitolo in poi, dopo l’incontro tra i due giovani, il tono della narrazione diviene più serio e misurato, meno enfatico, talora incalzante, con l’uso di una terminologia che fa presagire con efficacia eventi tragici.
Numerose sono le tematiche trattate dalla vicenda, più che mai attuali ancora oggi; è interessante esaminare come esse fossero vissute ed analizzate circa 150 anni or sono e, nella fattispecie, da un Autore il quale, dopo l’Unità, fu al centro di aspre polemiche, poiché venne definito, a più riprese, come “austriacante”. Tuttavia, ci spiega Stefania Segatori nel saggio introduttivo, non fu affatto antinazionale, bensì solo un convinto apologeta della stretta ortodossia cattolica (tra l’altro, vi era stato, negli anni precedenti, un nutrito filone letterario antirisorgimentale e clericale, abituato a toni assai più aspri di quelli usati dal nostro Autore!).
Un argomento che entra in gioco è la questione dei matrimoni misti (tra Cristiani ed Ebrei) e la contrarietà ad essi, in primo luogo, dei Cristiani; ma, in definitiva, pure degli Ebrei, al fine di difendere la propria minacciata identità. Tali unioni sono garanzia certa di infelicità, ci avverte il nostro scrittore; e ciò è attestato non solo dal destino dei protagonisti, ma anche da quello di personaggi di contorno, come la giovanissima cristiana Silene, figlia dello speziale di Quistello, cittadina in provincia di Mantova, innamorata senza speranza di Aronne.
Il dibattito sullo status degli Ebrei mostra -e ciò emerge dalle pagine del romanzo- l’atteggiamento in generale ostile, o almeno diffidente, da parte della maggioranza, che vede la discreta integrazione degli stessi nella società dovuta alla cordialità spontanea e alla tolleranza dei cittadini (sic!) e non certo a meriti degli Ebrei stessi! Essi vengono comunque definiti preparati ed aggiornati, specie in politica ed economia (!).
Giovanni Battista Intra tratteggia con particolare efficacia nelle annotazioni psicologiche le figure femminili, a cominciare dalla bella Lia, fin dal suo primo apparire: “Poteva essa avere circa 24 anni; dunque di una bellezza affatto perfezionata, e senza quell’acerbo che piace e dispiace nello stesso tempo (che contrasto psicologico non presenta mai l’uomo nelle sue azioni!) nelle fanciulle al di sotto dei 18 anni”.
Viene rimarcata l’importanza, nella tradizionale cultura ebraica, della Casa, del Focolare, e dunque della Donna come personaggio che custodisce e trasmette i valori comunitari e dunque l’identità. Ma, nello stesso tempo -ecco un altro tema da esplorare: l’autonomia e l’intraprendenza della donna in un contesto familiare tradizionale: “….non desidero essere invidiata, ma…felice” afferma Lia- la ragazza rappresenta quelle nuove generazioni di Ebrei che, insofferenti per le restrizioni loro imposte, ritengono di acquistare l’agognata libertà uscendo dal -e dunque rinnegando il-  mondo -e i valori- in cui erano cresciuti.
Suggestiva “geografia degli spazi”: i giovani ebrei desideravano uscire dal circoscritto ambiente comunitario per mescolarsi alla più vasta società e inserirsi ai vari livelli, per “confondersi con gli altri”; così scrive Ippolito Nievo, riportato da Stefania Segatori, nel suo “primo saggio drammatico”, L’Emanuele, ispiratogli dalla vicende di un compagno di scuola -e amico- ebreo di Sabbioneta, Emanuele Ottolenghi, cui l’accumunavano sentimenti patriottici e liberali. Nievo denuncia pure i pregiudizi dei quali gli Ebrei sono ancora vittime; quegli stessi pregiudizi che Intra mette in bocca alla domestica cristiana Anna (contrapposta all’ebrea Sara).
Mentre il Nievo non si pone il problema della superiorità di una religione sull’altra e non prende posizione, bastandogli una sorta di religione naturale di “fratelli nell’umanità” -Cristiani ed Ebrei possono entrambi far progredire l’umanità, ciascuno nel proprio ambito, alla luce dei principi affermatisi con le idee riformistiche settecentesche- il nostro Autore ribadisce a più riprese, tramite Adolfo, la superiorità del Cattolicesimo, riprendendo stereotipi, che al pubblico più sensibile di oggi potrebbero apparire superati, ma che, in realtà, resistono tuttora in modo pervicace; pensiamo, se non altro, all’accento posto su ipotetiche caratteristiche fisiche degli Ebrei (anche se il linguaggio qui usato non è particolarmente astioso).
La dialettica del rapporto tra religioni non è affatto sparita ai giorni nostri; anzi è più che mai attuale. Si può parlare di dialogo vero (anche su un piano che prescinda da temi strettamente teologici) tra fedi diverse, quando una di esse rivendica la propria maggior rilevanza sull’altra (o sulle altre), in una visione, per così dire, conversionistica?
Il linguaggio e lo stile usati dall’Autore rientrano nel filone classicheggiante degli anni ’60 dell’800, con una certa rigidità e conformismo narrativi; ma non mancano vivaci descrizioni d’ambiente. Pensiamo alla casa / castello del facoltoso Jacopo (sorta di fortilizio che egli si è costruito per tenere ben al sicuro i propri averi….), con i suoi anfratti; o alle scene d’ambiente, come quella del passeggio al Corso di Pradella, tradizionale luogo di incontro: voci, colori, luci, che fanno da sfondo all’apparire dell’affascinante protagonista. Bozzetto umano ben tratteggiato, con i suoi chiaro/scuri, è il contrasto tra la ragazza sorridente ed ammirata dagli astanti ed il corrucciato, pur orgoglioso, padre, al braccio del quale ella si appoggia.
Lia, amata dall’Autore, potrebbe essere, nei suoi sentimenti e pudori, una Lucia Mondella in versione ebraica, acculturata e ricca (pensiamo alle pagine dell’addio alla città natale), pur non avendo certo l’intensità e la drammaticità del personaggio manzoniano.
Mantova è descritta con attento affetto (anche a Vienna è riservata un’attenzione che richiama la forza dell’Impero e i valzer degli Strauss), come un luogo aperto, seducente, non la plaga insalubre, popolata “solo da fantasmi spaventosi e dalla pallida febbre”, così scrive ironico Intra, sfatando radicati preconcetti.
“…. il miracolo di pietra sorto dalla palude si fa vita, contemplandosi nel lungo tempo del suo esistere, confondendosi con i campi assorti nella pace feconda. E’ un dialogo di vita, di continuità, d’amore. Caldo amore mantovano”, così un illustre concittadino, nostro contemporaneo, il Conte Giovanni Nuvoletti Perdomini, nella sua prefazione all’evocativo volume di Franco Marenghi La cucina mantovana ieri e oggi, Edizioni Edimarenghi, 1996.
La conclusione della vicenda, infine, pur edificante, ma non è affatto scontata, contiene un piccolo coup de théâtre.
Arrivati all’ultima pagina sarebbe un’avvincente sfida “smontare” tutta la storia per ricomporla secondo la sensibilità dei nostri tempi.
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