(Titolo originale Le Concert; Francia /Russia / Romania / Belgio, 2009 Genere: Drammatico, ma anche Commedia)
“Questo Concerto è come una confessione…in ogni nota c’è la vita…”
Andrei Semionovic Filipov era un illustre direttore d’orchestra del Bolshoi di Mosca; all’apice della gloria, Leonid Brežnev lo fece cacciare dall’incarico, insieme a tutta la sua compagine musicale, senza tuttavia riuscire a fargli dimenticare la grande passione della sua vita, Tchaikosky.
Dopo circa un trentennio egli si trova ancora alle dipendenze del celebre teatro della capitale, ma -massimo sadismo- come….uomo delle pulizie. Per sovrammercato gli è severamente proibito assistere, fosse anche dal loggione, alle prove dell’orchestra, ma egli riesce talvolta ad aggirare il divieto, pur pagandone le conseguenze. L’uomo trascina l’esistenza cercando di affogare i suoi dolori nell’alcool, mentre la moglie Irina, che non ha mai smesso di amarlo, contribuisce al bilancio familiare ingaggiando manifestanti a pagamento per le assemblee, peraltro ora assai poco frequentate, dei militanti comunisti.
Ma quale fu la causa dell’ignominiosa cacciata, seguita da immediata degradazione, di Andrei?
Egli si era rifiutato di espellere dalla propria orchestra i musicisti ebrei, così come esigeva il subdolo antisemitismo di Stato vigente ai tempi dell’Unione Sovietica.
Un giorno, mentre spolvera la scrivania dell’attuale (e ottuso) direttore del teatro, sperduto nei consueti cupi pensieri, gli capita tra le mani un fax appena giunto dallo Châtelet di Parigi, il cui sovrintendente, Olivier Duplessis, chiede l’onore di ospitare per un concerto l’orchestra dell’illustre istituzione moscovita.
Andrei ha un sussulto: IDEONA! Decide di nascondere quel foglio di carta, che sembra ridargli la vita, e rimettere insieme i vecchi orchestrali per andare tutti insieme a Parigi e suonare in quel prestigioso teatro, al posto dell’orchestra del Bolshoi, tanto ufficiale quanto poco talentuosa.
Radu Mihăileanu, 52 anni, regista rumeno naturalizzato francese, rivelatosi circa un decennio fa con il capolavoro Train de vie, ci dona un nuovo splendido film, Le Concert (“Il Concerto”), uscito in questi giorni nelle sale italiane, dopo essere stato presentato in autunno, fuori concorso, al Festival Internazionale del Cinema di Roma.
Scambio di identità, Capovolgimento delle Sorti: temi cari alla cultura ebraica, ma anche all’opera del regista, oltre che presenti nella sua autobiografia. Radu, nelle cui vene scorre pure sangue gitano, è infatti figlio di un giornalista ebreo comunista, Mordachai Buchman, perseguitato e imprigionato dal regime di Ceausescu. Uscito dal gulag, egli cambiò il proprio nome -per così dire, troppo caratterizzato- nel più anonimo Ion Mihăileanu, modifica che tuttavia non bastò ad assicurargli una vita tranquilla.
Se in Train de vie gli abitanti di uno shtetl dell’Europa orientale, per sfuggire alle deportazioni tedesche, organizzano, insieme ad alcuni zingari, un treno dove c’è chi recita la parte del prigioniero e chi quella del feroce nazista, anche in Le Concert ognuno ruba, a fin di bene, la vita di qualcun altro (impossibile non pensare, pur nella diversità del contesto, a Giorgio Perlasca che si finge ambasciatore spagnolo per salvare vite umane).
Andrei corre con pervicacia a scovare i suoi vecchi suonatori, ora ridotti a cavarsela come possono: chi a fare il cameriere, chi il doppiatore di film pornografici, chi a cimentarsi in traffici di piccolo cabotaggio; in tale attività di recupero del passato lo accompagna il fedele Sasha Grossman, una sorta di gigante buono, un tempo suonatore di strumenti a percussione, ora autista di ambulanza; Sasha, sulle prime riluttante, è sempre pronto a dargli man forte e a spronarlo ad andare avanti quando le troppe difficoltà del folle progetto sembrano destinarlo al naufragio.
Ma quale sarà l’opera che la ricomposta orchestra suonerà nella capitale francese? Il Concerto in re maggiore n. 35 per violino e orchestra di Pëtr Ilyich Tchaikosky, la grande passione di Andrei, la colonna sonora della sua drammatica esistenza, nella quale la ricerca dell’Assoluta Perfezione è rimasta l’obiettivo ultimo, nonostante tutto.
Egli non ha dubbi su chi sarà il violino solista che accompagnerà l’orchestra, arricchita da alcuni suonatori zingari, capaci di fantastici virtuosismi: Anna Marie Jacquet, giovane e già famosa artista, una ragazza dolce e sensibile, orfana dei genitori, che vive a Parigi con Guylène de la Rivière, che le fa da severa agente e da…madre adottiva. Ma chi è, in realtà, Anne Marie?
Lascio al lettore il piacere di assistere alla vicenda, ora commovente, ora ironica, ora tragica, ora comica.
Il regista gioca su diversi piani, a cominciare da quello della ricchezza offerta dalla mescolanza di culture ed esperienze: anche in questo film, come in Train de vie, compaiono i gitani, popolo dai tratti comuni con gli Ebrei: “l’amore per la libertà, l’erranza, l’arte…abbiamo condiviso le stesse tragedie….non vogliamo integrarci e nessuno sopporta la diversità”, così Mihaileanu in una recente intervista. E la musica; la hora, la celebre danza ebraica, tanto popolare in Israele, mi ricorda certi balli degli zingari.
Evidente è la sopravvivenza di stereotipi legati al passato sovietico -a cominciare dal fatto che a nessuno è venuto in mente di riabilitare il nostro musicista- uniti oggi ad un’anarchia generalizzata.
Gioco di contrasti e di contrappasso: colui che aveva contribuito in modo essenziale alla cacciata di Filipov, il ligio funzionario di partito Ivan Gavrilov, caduto in disgrazia da tempo, viene rispolverato da Sasha e Andrei perché ritenuto abilissimo a trattare con i francesi, assai “più dello Zar Alessandro”. E Gavrilov si presta a vestire l’abito del grande impresario, sia perché colto da resipiscenza postuma, sia perché la trasferta all’estero gli consente di rivedere un antico, scalcagnato compagno comunista, raffigurato in un indovinatissimo phisique du rôle! Lo stesso Gavrilov, poi, saprà, da par suo, neutralizzare il direttore del Boshoi, giunto a Parigi in vacanza con moglie e rampolli vari.
Un profondo umorismo pervade la pellicola: dall’entrata in scena dei mafiosi russi con tanto di matrimoni in stile Padrino, esibizione di mascelle quadrate e kalashnikov a tutto spiano; al ritratto del riccastro che vorrebbe farsi passare per amante della musica, mentre la madre virago ha in testa un solo pensiero spasmodico: far giocare nel gruppo d’attacco della squadra di calcio di famiglia il fuoriclasse argentino Lionel Messi; ai vari quadretti sull’eterna capacità degli Ebrei di sapersi trarre d’impaccio alla grande nelle situazioni più difficili.
Il nucleo centrale del film è l’intesa magica che si crea tra il maturo Andrei e la giovane Anne Marie, tra il passato tragico e il presente ricco di promesse; ma la fanciulla non ha, rispetto all’uomo, il rapporto che si potrebbe, in un primo momento, immaginare.
L’enigma si scioglie alla fine, sulle ali della musica universale e travolgente di Pëtr Ilyich.
Gli attori sono tutti ben calati nella parte, a cominciare dal grande protagonista, Alexej Guskov, attore superbo, e dall’intensa Mélanie Laurent, un’appassionata Anne Marie.
Poco felice, a dir la verità, la scelta di doppiare, in italiano, i russi con buffo accento russo; una caduta di stile che induce a valorizzare la versione in lingua originale sottotitolata; faticosa operazione assistervi, ma ritengo ne valga la pena.
In un “cammeo” c’è una nota attrice britannica (scozzese, per l’esattezza), ringraziata al termine della proiezione: la riconoscete?