luzern 7 AGOSTO, Mattina, LUNEDI’

Stamani siamo di partenza. Queste giornate lussemburghesi sono davvero volate. Facciamo colazione tutti insieme; poi…Noi carichiamo i bagagli, mentre i ragazzi si preparano ad una giornata di lavoro: Natalia, in sobrio, ma elegante, abito senza maniche, scarpe col tacco, borsetta; Marco, camicia bianca, pantaloni e giacca scuri, zaino contenente il computer portatile.

Abbraccio affettuoso con la promessa, da parte loro, di darci notizie non appena saranno arrivati a Shangai alla fine di questa settimana. Mancano ancora alcuni giorni alla partenza; ma, si sa, le madri amano far le cose per tempo!

C’è un pizzico di malinconia ogni volta che ci separiamo dal nostro figliolo, ma prevale la gioia di saperlo ben collocato, sia dal punto di vista affettivo che da quello professionale, in un Paese in grado di valorizzare le energie giovanili, dalla pressione fiscale accettabile, con un certo welfare di attenzione alle esigenze delle famiglie, sensibile alla tutela dell’ambiente.

La perfezione non è certo di questo mondo e i confronti non sono mai piacevoli, specie con la propria Patria, ma qui fila tutto liscio a puntino, la gente appare serena, di ottimo umore; non spreca il proprio tempo in chiacchiere inutili ed esibizionistiche al cellulare, come vedi di continuo da noi.

Riprendiamo, in senso inverso, l’itinerario compiuto alcuni giorni prima e imbocchiamo la via della Francia. Preparo, durante il percorso, una sorta di (pre) itinerario per un futuro viaggio in questi luoghi.

Nomi poetici di villaggi segnalati dai classici cartelli su sfondo marrone a lato dell’autostrada: piccoli, significativi centri, come Phalsbourg (5000 abitanti), a proposito della quale leggo sulla Guida verde del Touring essere antica cittadella fortificata nel 1600 da Vauban [1], l’architetto del Re Sole, con due monumentali porte d’accesso.

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  Entriamo nel Dipartimento del Basso Reno, Strasburgo non è lontana, ma, per questa volta, la trascureremo. I cartelli color marrone ci indicano ora i cosiddetti passages à gibiers, cioè “corridoi di passaggio riservati alla selvaggina” per salvaguardarla dall’ingordigia dei cacciatori.

Belle foreste e posti incantati dei quali non avresti immaginato l’esistenza.

E c’è Schirmeck, dove si può visitare il Mémorial de L’Alsace Moselle.

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L’Alsazia e la regione della Mosella hanno vissuto e sofferto un destino tragico, poiché hanno cambiato nazionalità per ben quattro volte. Il Memoriale è centro d’interpretazione storica delle vicende che hanno interessato quei luoghi dal 1870 ad oggi e, in particolare, nel periodo 1939/1945. E’ sito di memoria locale, di storia generale, di conformazione ai valori del rispetto e della libertà; valori democratici ed europei; sarà bene ricordarlo oggi, in tempi grami di interessato -e lucroso- relativismo politico ed etico.

Non lontano vi è pure Natzweiler, a 50 chilometri da Strasburgo, dove si può visitare l’ex campo di concentramento e di sterminio. Dopo l’annessione dell’Alsazia e Lorena al Terzo Reich (Giugno 1940) 300 deportati provenienti da Sachsenhausen costruirono in questo luogo un campo, l’unico in territorio francese. Esso fu operativo dal maggio 1941 al settembre 1944, allorché fu evacuato dalle SS (e liberato dagli USA un paio di mesi dopo). Vi furono internate circa 40.000 persone, provenienti da Polonia, URSS, Paesi Bassi, Francia, Germania, Norvegia. Era essenzialmente un campo di lavoro, ma vennero costruite anche una camera a gas e un crematorio; si stima che vi siano state uccise circa 25.000 persone.

I responsabili furono giudicati a Norimberga -chi condannato al carcere, chi a morte-.

Una viva testimonianza sul campo di Natzweiler-Struthof ci è stata lasciata dallo scrittore triestino di lingua slovena Boris Pahor, nel romanzo autobiografico Necropoli (Nekropola, 1967).

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  Altra tappa notevole di un prossimo viaggio può essere Mont S. Odile, uno dei luoghi emblematici del cattolicesimo alsaziano, insieme alla cattedrale di Strasburgo.

Situato a 750 metri d’altezza, in un contesto naturale e storico di eccezionale bellezza, è l’occasione per una sosta durante la quale meditare, pregare, ritrovare se stessi.

Il nome deriva da S. Ottilia, patrona dell’Alsazia, che ivi fondò nel VII secolo un’abbazia di notevole importanza, dalla lunga e complessa storia.

L’abbazia, detta di Hohenburg, è di proprietà della “Mensa Episcopale di Strasburgo” dal 1853 ed è amministrata dalla Congregazione delle Suore francescane della Misericordia di Reinacker (a Reutenbourg); vanta un’attrezzatura alberghiera di ottimo livello, con ben 105 camere.

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  La sottoregione chiamata Grand Ried (il nome Ried deriva da Rieth, cioè Canna in tedesco alemanno -variabile dell’alto/tedesco-), tra Strasburgo e Colmar possiede straordinarie ricchezze naturali e può essere percorsa a piedi, in bicicletta, in barca, in canoa.

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  si estende sui dolci pendii di una collina che appartiene alle propaggini dell’Ungersberg.

La cittadina (circa 2.000 abitanti) è nata sul sito di un forte romano fatto costruire da Giulio Cesare; viene menzionata per la prima volta nel 762 e il suo nome deriva dal latino “vertice” (in alto). E stata di proprietà dei vescovi di Strasburgo dall’undicesimo secolo fino alla Rivoluzione.

Oltre a paesaggi affascinanti da scoprire, essa offre, oltre l’ottimo vino, una vasta gamma di prodotti come, amena curiosità, gli stampi per le figure di cioccolato (coniglietti pasquali, S. Nicola, ecc.), di cui è massima produttrice in Francia.

A Kurtheim puoi seguire la falconeria o almeno concentrarti sull’osservazione del volo dei rapaci.

Un altro sito emblematico è il Castello di Haut Königsbourg (in francese: Château du Haut Koenigsbourg; in tedesco Hohkönigsbourg), situato sulla cima del monte Stephanberch (m. 775)

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nel comune di Orschwiller, presso Sélestat, all’incrocio di importanti vie commerciali: del grano e del vino; dell’argento e del sale.

Nel 1114 Federico Staufer, detto Il Guercio, Duca di Svevia, per consolidare il suo potere in Alsazia, ne iniziò la costruzione ben comprendendone l’importanza strategica.

Passato a diversi proprietari nel corso del tempo, durante la Guerra dei Trent’anni (1618/1648), il castello resistette per oltre un mese all’assedio degli Svedesi, ma, alla fine cadde e fu saccheggiato ed incendiato.

Dopo oltre due secoli di abbandono, nel 1865 divenne proprietà della città di Sélestat, la quale, nel 1899, fece dono all’Imperatore Guglielmo II di Hohenzollern (rammentiamo che, allora, l’Alsazia faceva parte dell’Impero tedesco) di tali rovine, peraltro ben conservate.

Il sovrano ne affidò il restauro ad esperti di fortificazioni e studiosi del medioevo quali Bodo Ebhart; i lavori durarono dal 1900 al 1908 e oltre.

Col trattato di Versailles del 1919 i beni della corona tedesca passarono alla Francia che divenne così proprietaria del luogo.

L’attuale castello è il risultato di una minuziosa opera di recupero architettonico, effettuata secondo le indicazioni di Guglielmo II il quale intendeva farne un museo del medioevo oltre che un simbolo della potenza dell’impero.

I lavori di restauro iniziarono da rilievi fotografici, partendo dalle tracce romaniche ancora presenti, ed Ebhart per la ricostruzione di parti fondamentali (mancanti) studiò l’architettura di castelli analoghi del medesimo periodo storico. Il risultato della ristrutturazione fu controverso anche se, come effetto finale, il castello ora rende bene l’idea di ciò che doveva essere una roccaforte del XV-XVI secolo.

Il castello è uno dei luoghi in cui si svolsero, nel 1936, le riprese del film La grande illusione di Jean Renoir, cui si è fatto cenno a proposito di Fort Douaumont.

Tra una fiera del vino, una sagra del prosciutto ed altre piacevoli feste paesane, un appassionato della natura non può ignorare la stupenda riserva naturale chiamata Parc de Schoppenwihr, situato a Bennwihr, sovente sede di iniziative in materia di Natura e tutela dell’Ambiente.

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  Siamo arrivati in prossimità di Basilea, importante nodo stradale. Occorre prudenza; il contributo del “navigatore” è essenziale per la nostra serenità.

In poco tempo giungiamo alla nostra meta di oggi, Lucerna, capitale dell’omonimo cantone svizzero.

Con un certo sforzo, barcamenandoci tra divieti vari -il “navigatore”, ahimé, non è utile in questa circostanza- rintracciamo il nostro albergo; anch’esso prenotato dall’Italia, posto in una zona a traffico limitato; per l’esattezza in Süsswinkel (“Dolce Vicolo”) n. 10.

La prima impressione della città non è affatto positiva, tantomeno “dolce”, complici forse caldo e stanchezza. Si presenta come un luogo alquanto massificato, zeppo di negozi all’apparenza tutti uguali, affollato oltre ogni limite di turisti, per lo più di provenienza asiatica, interessati soprattutto a fotografare aspetti secondari di strade e piazze. Come gli occidentali, del resto, ma i primi sembrano farlo con pignoleria degna di miglior causa.

Dopo aver alloggiato l’auto in un vasto parcheggio a più piani (averne da noi… ti viene spontaneo pensare), sistemati finalmente i bagagli in una bella stanza spaziosa, con angolo cottura -ci troviamo in un “Aparthotel”, gestito da un distinto signore cinese, o coreano, di nome Yu, parlante un tedesco fluido-, usciamo per far quattro passi e recarci a cena.

Passeggiamo lungo la Reuss, il fiume che attraversa la città: esso nasce sul massiccio del S. Gottardo, è affluente destro della Aare (a sua volta affluente del Reno), nonché emissario del lago di Lucerna o dei Quattro Cantoni. L’esatta denominazione è Vierwaldstättersee, che significa Lago dei Quattro Cantoni Forestali. Sono, oltre a quello di Lucerna: Uri, Schwyz (Svitto) e Unterwalden (Untervaldo).

Secondo tradizione la stessa storia svizzera iniziò proprio da queste parti ed è legata alla figura -forse autentica, forse leggendaria- di Guglielmo Tell.

Siamo, più o meno, all’epoca di Dante Alighieri, cioè alla fine del XIII secolo / inizio del XIV. Tutto inizia con la decisione del balivo austriaco (amministratore per conto degli Asburgo) Gessler di issare il proprio cappello sulla pubblica piazza di Altdorf (cantone di Uri), ordinando agli abitanti di rendergli omaggio. Un giorno Guglielmo, famoso arciere, accompagnato dal figlio Gualtiero, passa davanti al cappello, ma si guarda bene dall’inchinarsi. Per punizione, il balivo lo condanna a colpire con la sua freccia una mela posata sulla testa del ragazzo. Se rifiuterà di scoccare la freccia o sbaglierà il tiro, sarà condannato a morte; con lui il figlio, se sopravvissuto.

Ma l’uomo, infallibile, centra in pieno la mela. Il balivo però si è accorto che egli ha nascosto una seconda freccia nella faretra e Guglielmo è costretto a confessare che, qualora avesse fallito il tiro ed ucciso il figlio, con la seconda freccia avrebbe ucciso Gessler. Questi allora ordina che l’arciere sia imprigionato a vita nella fortezza di Küssnacht. Ma, mentre viene tradotto in carcere attraverso un viaggio sul lago, ecco che si scatena una tremenda tempesta e Tell riesce a fuggire. Tende quindi un agguato al suo nemico e lo colpisce a morte con quella seconda freccia che gli aveva riservato fin dall’inizio.

La notizia del coraggioso gesto si diffonde subito nei cantoni alpini, incoraggiando così la popolazione a ribellarsi per conquistare indipendenza e libertà.

Guglielmo Tell è, per gli Svizzeri, una sorta di Padre della Patria. Già nel secolo XVI la sua figura è esaltata nei canti popolari e nelle cronache, come il Chronicon helveticorum dello storico Aegidius Tschudi (1560). Nei secoli più vicini, notevoli personalità della cultura hanno contribuito alla sua fama.

Primo tra tutti Friedrich Schiller che, nel 1804, scrisse il dramma omonimo, dal quale, nel 1829, il nostro Gioachino Rossini trasse ispirazione per comporre la sua ultima opera lirica, il Guglielmo Tell. Un incanto è, anzitutto, l’Ouverture. Dapprima sei trasportato nella meraviglia di un bosco, immagini il sole che filtra tra le cime degli abeti….La chiacchierata serena tra oboi e flauto -da sogno, in una versione dei Berliner Philarmoniker, 1997, è l’interpretazione del grande flautista Emmanuel Pahud; svizzero, per soprammercato!- con l’accompagnamento, lieve, di pochi altri strumenti; poi ecco, dopo una quasi impercettibile pausa, il potente “crescendo”, davvero rossiniano, la forza impetuosa, travolgente del temporale che prefigura la riscossa contro il tiranno.

Sulla riva sinistra del fiume un locale tipico attira la nostra attenzione. Una signora bionda ancor giovane, alta e robusta, modi decisi ma cordiali, sposta con destrezza da un tavolino all’altro, una grande lavagna dotata di ruote, dov’è scritto a mano il menù del giorno; in tedesco…E quale lingua vorresti usare? Così i clienti leggono e scelgono all’istante. L’idea ci piace e decidiamo di fermarci: ottima cena all’aperto, cibi locali ricchi di suggestione e vino perfetto.

Il ristorante si chiama Nix in der Laterne (ha una lanterna come insegna) ed è posto all’interno di una casa risalente al XVI secolo. Diverrà la nostra “mensa aziendale serale” per i giorni seguenti.

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  Ci concediamo una passeggiata notturna fino al molo dove attraccano le imbarcazioni. A bordo di una di esse, adibita alle gite sul lago, un gruppone di anziani marinai USA intona suggestivi canti popolari, sotto la direzione di un simpatico giovanotto coi lunghi capelli raccolti a coda di cavallo.

Ecco, a brevissima distanza, la grande Stazione Ferroviaria, con avancorpo di epoca guglielmina, resto della precedente struttura distrutta da un incendio.

E a lato, quindi proprio sul lago, c’è il palazzo sede del KKL Kultur Kongress (Centrum) Luzern, dove si svolgerà a partire dall’11 prossimo, il Festival Musicale. Il Palazzo ospita non solo la celeberrima grande sala da concerto (capienza 1800 persone), ma pure un Centro congressi e un Museo d’Arte (Kunstmuseum) dove sono raccolte opere in linea con le più moderne tendenze nelle arti figurative.

L’edificio, se così vogliamo chiamarlo, è tutto in vetro, con…qualcosa d’insolito. Sembra quasi che l’acqua penetri all’interno attraverso ponticelli e vie misteriose. Dal di fuori non ti colpisce in modo particolare; ma, a mio parere, è una scelta di chi lo ha progettato: devi entrarci e viverlo per comprenderne l’anima.

Non ne parlo ora riservando le riflessioni che merita nei prossimi giorni; il contesto, con l’evento cui assisteremo, è infatti la ragione della nostra venuta qui. Non fosse stato per il Festival, subito dopo Lussemburgo, saremmo rientrati a Bologna.

L’emozione è forte. Fino a poche settimane fa mai avrei immaginato questa tappa, in un luogo così carico di simboli, di vita vissuta, di gioia e di dramma. Familiare e sacro per me fin dall’inizio della mia avventura di (ri)avvicinamento alla Musica.    

 

8 AGOSTO MARTEDI’

La ricca prima colazione è allestita in una saletta dell’albergo affacciata sul cortile interno e curata da una signora coreana molto premurosa.

Facciamo conoscenza con una simpatica coppia di israeliani, provenienti da Tel Aviv.

Il marito indossa la kippah, il caratteristico copricapo ebraico simboleggiante il limite dell’intelligenza umana di fronte alla grandezza di D-o; ottimo antidoto per me al profluvio di veli islamici -diversi integrali- visti fin dal momento del nostro arrivo in città ed esibiti con incredibile sicumera da donne, diverse delle quali giovani e graziose. Iphone alla mano e atteggiamento arrogante di chi può permettersi questo e ben altro.

Il signore israeliano è sorridente e di ottimo umore. Dopo il nostro saluto, improntato alla cordialità e notato il nostro inequivocabile favore per la kippah e per il nome “Tel Aviv” si informa da noi, quasi incredulo, per conferma: “Do you love Israel?”. Domanda più che legittima, data l’antipatia (o peggio) di cui è circondato questo Paese nell’incosciente, prima che antisemita, pubblica opinione europea.

Rassicurato dalla nostra risposta positiva, egli racconta che, dopo aver visitato la Svizzera, con la consorte faranno una puntata a Milano.

Di lì si recheranno a Bergamo, cioè all’aeroporto di Orio al Serio, per ritornare a casa col volo diretto per Israele.

E’ il tradizionale laburista, modi spicci ed occhio lungo, assai diverso dai mediocri attuali rappresentanti del suo partito (evito ovviamente di dirglielo), assai critico verso l’attuale governo Netanyhau; ma il profondo amore per Eretz Yisrael non si discute.

Mi ricorda da vicino Ron Mandelbaum, il simpatico accompagnatore del nostro ultimo viaggio a dicembre 2016.

Su mia sollecitazione parla con stima dello scrittore Amos Oz e del caro amico di lui, Ron Huldai, primo cittadino di Tel Aviv da molti anni.

La moglie del nostro interlocutore esprime forte preoccupazione per l’antisemitismo dilagante in Europa; a causa di esso in molte città del continente è sempre più rischioso andare in giro con la kippah sul capo o la Stella di David al collo, mentre il velo islamico, portatore di un tremendo messaggio, politico ed umano, discriminatorio per le donne e dunque offensivo della loro dignità, è accettato senza alcun problema; anzi!

Si è deciso, in alto loco, in ottemperanza becera al politicamente corretto imperante, di spacciarlo per semplice tradizione religiosa, come tale meritevole di rispetto a prescindere. Eh no, cari! Non tutte le cosiddette tradizioni religiose sono degne di rispetto:  lo sono se affermano e tutelano la dignità e la sacralità della persona; non lo sono se mortificano e disprezzano gli esseri umani, come nel caso. Punto.

Mi verrebbe da rispondere alla mia interlocutrice, che viene dall’unica democrazia del Medio Oriente, cara amica, il danaro può tutto; anche far buttare all’aria senza rimorsi principi di uguaglianza e tutela dei diritti umani. E oggi chi, prima di altri, dispone di “grana fitta” se non chi vela le donne e ne ottiene la docilità con costosi regali acquistati, facciamo l’esempio di Lucerna, nelle numerose gioiellerie cittadine? Ma taccio per non sciupare un momento piacevole.

Il marito scuote la testa e scrolla le spalle. Io non ho nessuna paura, tiene ad affermare. Mi strizza l’occhio. Ci salutiamo.

Shalom ulehitraot, cioè Shalom (espressione intraducibile: non vuol dire solo Pace, ma esprime un senso di completezza, di totalità) e Arrivederci. Bene!

Andiamo incontro a Lucerna in una giornata di tempo assai incerto.

Scopriamo subito che nell’edificio in cui ha sede il nostro hotel soggiornò Wolfgang Goethe nel 1779.

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  Lo rammenta una parete dipinta visibile dalla piazza su cui si affacciano le nostre finestre: è la Hirschenplatz, così chiamata per l’insegna dorata raffigurante un cervo (Hirsch) posta sullo stipite di uno dei palazzi.

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Un po’ di storia della città, sia pure a volo d’uccello.

Il nome “Lucerna” (in alemanno Lozärn, in francese Lucerne) deriva forse da Luciaria, termine che, in antico tedesco, significa Sbarramento; Lucerna nasce come un tranquillo villaggio di pescatori, andato via via sviluppandosi. L’uso di chiamare Lucerna “città della luce o dei lumi” deriva da una leggenda secondo la quale sarebbe stato un angelo ad indicare, con una brillante luce, ai pescatori il luogo dove erigere un santuario in onore del loro Patrono, S. Nicolao.

A metà dell’VIII secolo viene fondato un monastero dedicato a S. Leodegario sul luogo in cui sorge oggi la Hofkirche (la principale Chiesa cittadina), della quale egli è il Patrono. Nel IX secolo il monastero diviene dipendente dall’Abbazia di Murbach, in Alsazia; si emanciperà da essa nel 1178.

Nel 1168 è costruito il primo ponte sul fiume Reuss; nel 1178 un sacerdote, operante presso la cappella di S. Pietro (Cappella che dà il nome al Ponte della Cappella, cioè il Kapellbrücke, divenuto in seguito il simbolo di Lucerna), è incaricato di prendersi cura spirituale della popolazione.

Tra il 1230 e il 1240 una nuova tecnica, usata in montagna, di sospendere passerelle di legno sulle rocce scoscese (idea tradizionalmente attribuita ai Walser, una popolazione di origine germanica stabilitasi in diverse zone dell’arco alpino) permette di superare i tratti più difficili tra i monti e consente l’apertura della strada del S. Gottardo, collegando così la regione del Lago di Lucerna con l’Italia. Il percorso, da allora in poi, diventa molto importante per il traffico commerciale e militare tra mondo tedesco e il nostro Paese. Le merci possono essere trasportate con muli oltre il passo e spedite in barca sul Lago di Lucerna; la quale, a quell’epoca unico centro di rilievo sul lago, diventa così notevole mercato.

I primi bastioni cittadini vengono costruiti proprio in quel periodo (1230/1240). Stamani vi faremo una passeggiata per renderci conto del sito.

Lucerna prende il proprio sigillo nel 1241. Un documento datato 1252 ci descrive l’organizzazione politica cittadina: a capo dell’amministrazione c’è un Schultheiss (Sindaco), coadiuvato da un consiglio esecutivo (36 cittadini) e da un Gran Consiglio.

Nel 1300 è costruito il primo Municipio.

Dopo una lunga dominazione degli Asburgo, nel 1332 essa passa a far parte della Confederazione svizzera e nel 1386, grazie alla vittoria di Sempach, ottiene piena indipendenza.

Nel 1400 e nel 1500 diventa pure un rilevante centro di cultura umanistica.

Non aderisce alla Riforma protestante. Anzi, è la roccaforte del cattolicesimo nella Svizzera centrale. Lucerna e Friburgo sono i centri accademici della Controriforma cattolica in Svizzera.

La Chiesa dei Gesuiti, che visiteremo, eretta tra il 1666 e il 1677, simboleggia questo spirito.

Nel 1847 la città si mette a capo dei cantoni cattolici della Lega separatista del Sonderbund, poi sconfitta dalle truppe federali nella guerra combattuta in quegli anni.

Lucerna non ha un particolare sviluppo industriale nel XIX secolo, ma diviene importante destinazione turistica. Sorgono molti grandi alberghi di prestigio, mentre le periferie si espandono.

Nel 1834 è costruito un ulteriore ponte, oltre il Ponte della Cappella e allo Spreuerbrücke (v. più avanti), e le mura della città sulla riva sinistra del fiume Reuss sono smantellate; così come diversi edifici antichi e fortificazioni medievali, sempre sul lato sinistro del fiume (originariamente vi erano oltre quaranta torri e porte), sono rasi al suolo.

Ciò rende possibile  il veloce sviluppo della nuova città, con il quartiere Neustadt. Se altre città in Svizzera distruggono completamente le loro fortificazioni, Lucerna conserva il lato nord delle mura con sette torri, quale memoria storica cittadina.

Nel 1859 la linea ferroviaria proveniente da Basilea raggiunge Lucerna e, nel successivo 1865, è costruita una prima strada sulla sponda del Lago.

L’apertura della linea ferroviaria nel 1882 ne aumenta il prestigio.

Notevole centro culturale, anzitutto musicale -ne riparlerò nel prosieguo, va da sé- riserva al visitatore iniziative di primordine, durante tutto l’arco dell’anno.

La popolazione ammonta oggi a poco più di 76.000 abitanti.

 

Ci incamminiamo verso la parte più commerciale del centro cittadino.

Il carattere tedesco e gioioso che, prima dell’arrivo, avresti immaginato prevalente nel luogo mi pare, per così dire, sbiadito dall’impronta standardizzata che esso ha assunto nel corso del tempo.

Danaro, affari, appiattimento generale….Gente intruppata che entra ed esce dagli esercizi commerciali, senza degnare di uno sguardo ciò che la circonda; si tratti di altre persone o di palazzi.

E senza osservare, per carità, la natura circostante, che oggi appare triste per cause meteorologiche, ma che c’è, viva, palpitante; e il sole si farà vedere di nuovo, prima o poi! Almeno così speriamo.

Tutta l’Asia, nel suo aspetto mercificato -non certo spirituale e culturale- sembra si sia data appuntamento qui. D’altronde oggi sono proprio gli asiatici, in primo luogo i cinesi, i nuovi ricchi, quelli da inseguire ad ogni costo: loro, nonché gli arabi coi petroldollari e le loro donne imbozzolate che paiono non dare alcun segno di ribellione allo stato di minorità cui sono costrette, grazie pure all’insipienza occidentale.

E però. Qualcuna tra loro -pochissime, d’accordo, ma qualcuna c’è- pare consapevole e quindi insofferente alla propria condizione di infelice essere la cui femminilità è stata nullificata per viltà e paura (paura delle donne da parte degli uomini che reggono il bastone del comando, certo!) e, non vista dai familiari, si sistema il velo d’ordinanza con un gesto rapido, ma carico di rabbia. Il mondo musulmano sarà salvato, ne sono sempre stata convinta, non dalla bombe altrui, per carità, ma dalle sue donne.

Le sue donne; non le nostre ridicole pseudo femministe, impoltronite da ideologie mortifere, capaci solo di coprirsi il capo quando sentono, anche solo da lontano, odore di Islam (e di buoni affari). E nemmeno i tanti nostri uomini, i quali ritengono il velo islamico un innocente simbolo religioso, come la kippah o la croce. Questione di scelta, rispettabile, blaterano. Un simbolo di mortificazione, che nasconde la femminilità  sarebbe una rispettabile scelta? Abbiamo perso la bussola in nome del politicamente corretto. Non importa, amara conclusione, essere musulmani per sognare donne sottomesse e nullificate. E io che ritenevo che i maschietti nostrani fossero maturati. Aspettiamo un paio di secoli, se va bene.

Bisognerebbe…Anzi, è necessario che l’Occidente comprenda nel profondo che è in gioco la civiltà dell’uguaglianza, della parità sessuale, della libertà di coscienza, dei diritti e dei doveri; senza trincerarsi dietro principi astratti tutto questo, per la propria sopravvivenza e per garantire un’autentica pace tra i popoli, anziché far vilmente lega coi carnefici e intossicarsi di politicamente corretto. Per ora siamo lontani anni luce da tale posizione, inutile ignorarlo, dal prendere coscienza da quella che, udite udite, perfino Papa Francesco ha definito, con termine azzeccato, “la terza guerra mondiale a pezzi”. Ma non disperiamo.

A proposito di donne musulmane, occorre menzionare alcune francesi (ma non ci son solo quelle, pensiamo ad Ayan Hirsi Ali, somalo / olandese, politologa, o a Seyran Ates, turco/tedesca, avvocato), condannate ad una sorta di…esilio interno dall’establishment politicamente corretto e traditore.  Mi colpisce, ad esempio, Leila Slimani, già redattrice della Rivista Jeune Afrique, Premio Goncourt, la quale sostiene, a ragione, che “se non risolveremo il problema del posto femminile nella società [a mio avviso, ciò vale anche per un contesto non mussulmano], rimarremo ostaggi degli islamisti”. OK. Oltre alle minacce degl’islamisti, Slimani ha ricevuto le accuse di parte della sinistra, che l’ha imputata di “promuovere i valori occidentali”. Risparmio ogni commento a riguardo.

Siamo “messi bene”, per così dire. Pare una digressione, la mia; in realtà è un pensiero del tutto coerente col significato di questo viaggio.

Passeggiata lungo le mura cittadine (mura di Musegg) con torri, poste in zona Nord.

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    Le mura e le nove torri del Musegg (immagino sia il nome della località cittadina) erano parte della fortificazione di Lucerna. La loro costruzione fu iniziata nel XIII e completata nel 1408; oggi si possono percorrere in gran parte a piedi. Lungo le mura hanno trovato tutela animali in via di estinzione ed essenze vegetali a rischio: un ideale e prezioso habitat per loro.

Leggo che vi è addirittura un giornale dedicato alle mura, la Museggmauer Zytig, nel linguaggio locale. Dietro di esse c’è poi l’ Hof Hinter Musegg, una sorta di agriturismo: vita di fattoria con negozio, osteria, animali. I visitatori possono trovarsi a contatto con alpaca, bovini Highland (vacche scozzesi), maiali nani, capre, polli. Incontri fuori dell’ordinario se si pensa che siamo a pochi passi da una moderna città.

Dalle torri visitabili -la Torre Schirmer (Schirmerturm), la Torre dell’Orologio (Zytturm) e la Torre dell’Omino (Männliturm)- si gode una magnifica vista sulla città e dintorni.

Alcuni particolari: la Torre dell’Orologio ospita l’orologio più antico della città, che batte le ore con anticipo di sessanta minuti rispetto agli altri; tradizione mantenuta nei secoli.

La numerose torri, anche quelle al di fuori delle mura, sono curate ed utilizzate.

Per la maggior parte sono affittate, a prezzi abbordabili, da società come la Safran und Weyzunft (corporazioni carnacialesche). Dette società, in cambio, ristrutturano e curano le torri e indicono, una volta all’anno, una giornata di “Torri aperte” per consentire a tutti di ammirarle.

Noi, a Bologna e non solo, abbiamo i Cortili Aperti; i lucernesi, le Torri.

Purtroppo le condizioni meteorologiche non ci consentono di assaporare questa esperienza; prendiamo quindi appunti per la prossima volta.

Intanto ecco una fontana davvero insolita.

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  La pioggia battente non ci allontana però dalla chiesa madre della città, la Hofkirche.

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Posta in cima ad una scenografica gradinata, in posizione un po’ dominante ed eccentrica rispetto al centro, la cattedrale cattolica, dedicata ai Santi Leodegario e Maurizio, patroni della città (nome completo in tedesco è: Hofkirche Sankt Leodegar, cioè S. Leodegario in Corte), sorge sulle fondamenta di una basilica romanica, distrutta da un incendio nel 1633, indi ricostruita dal 1633 al 1639 in stile rinascimentale. Essa è stata una delle poche costruzioni del nord delle Alpi nel periodo della guerra dei Trent’Anni (1618/1648) ed è tra le maggiori chiese del periodo tardo-rinascimentale, ricca di arte storica tedesca.

Nel 1433 la città di Lucerna prese il controllo dell’abbazia benedettina, dov’era inserita la basilica -vedi notizie storiche poche pagine sopra- che, nel 1455, venne convertita, ad opera dei monaci, in chiesa di “ordine universale”; e non più luogo riservato esclusivamente ai religiosi.

Il luogo visse il suo massimo splendore nel periodo della Riforma, durante il quale Lucerna divenne la città di riferimento per i cantoni svizzeri cattolici. Il nunzio papale, che risiedeva in città, usava la chiesa come sua cattedrale, in senso etimologico, come sede della “cattedra”, in quanto successore diretto degli Apostoli.

Nel 1874 fu costituita la parrocchia di S. Leodegar e così la chiesa diventò contemporaneamente chiesa monasteriale, quanto all’origine, e chiesa parrocchiale, com’è oggi.

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  Il portale è preceduto da un nartece cui si accede attraverso un grande arco; sulla chiave di volta è un bassorilievo dipinto raffigurante Leodegario di Autun (616/678, a sinistra) e Maurizio d’Agauno (III secolo, a destra); gli stessi personaggi sono pure sulle due ante in legno, scolpite, del portale.

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  Sopra l’arco del nartece, sono due alte bifore poste ai lati di un piccolo rosone circolare. Sotto di esso la statua di S. Michele Arcangelo; nel timpano, un orologio.

La facciata è affiancata da due torri gotiche (sopravvissute all’incendio del 1633) con base quadrata, alte ben 63 metri. All’interno di esse, nelle due cellule campanarie, si trovano otto- campane-otto, delle quali, la più leggera pesa kg. 7, mentre la più pesante arriva a 5,25 tonnellate! Altre quattro campane, poi, sono poste nei pressi dell’abside della chiesa.

Entriamo.

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  L’interno è barocco, come da restauri del XVII secolo (Niklaus Geisler, 1585/1665), suddiviso in tre navate con volte a crociera su pilastri costituiti da blocchi in pietra chiara. In fondo, l’abside semicircolare, preceduta da coro quadrangolare in cui si trovano stalli lignei scolpiti, realizzati (1639 /1641) su progetto dello stesso Geisler: scene dell’Annunciazione con statue dell’Arcangelo Gabriele e di Maria entro tabernacoli; sugli schienali, immagini di personaggi biblici e santi. Al centro dell’abside, altare maggiore in marmi policromi. Al centro dell’ancona, pala di Gesù che prega nell’Orto degli ulivi di Giovanni Lanfranco (1582/1647). Nell’ultima campata della navata centrale si trova il presbiterio strutturato secondo la riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II.

Nel 1640 l’organaro salisburghese Johannes Geissler fu incaricato della costruzione di un grande organo a canne per la chiesa. Quando l’opera fu terminata l’organo contava 2826 canne.

Oggi, dopo diversi rimaneggiamenti, ne vanta 5945!

Particolare che non sarà sfuggito, in primo luogo, a certe persone di Musica, curiose di tutto, le quali, ogni anno, convergono al Festival di Lucerna: tra le innovazioni attuate nel XIX secolo c’è la cosiddetta Regenmaschine, un particolare meccanismo che ancora oggi riproduce il rumore della pioggia grazie a delle sfere di metallo introdotte in una botte; dispositivo unico al mondo.

Nella Hofkirche si svolgono spesso applauditi e frequentati concerti d’organo.

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  Nelle sacrestie il ricco tesoro, comprendente oggetti di culto, perfino del sec. XIII, e paramenti dei secoli XVII e XVIII. Nell’artistico chiostro stanno le tombe di alcuni maggiorenti cittadini (Gräberhallen).

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  A sinistra della cattedrale c’è l’antico ossario di Sankt Leonard (1480), coronato da torre del 1581; mentre, sulla piazzetta antistante la chiesa, una Fontana della Vergine (del 1600, rifatta più volte); a destra, il Pfarrhaus, cioè la Casa parrocchiale, di fine 1500 e, a sinistra, la Propstei, la Prepositura, di cinquant’anni precedente, rimaneggiata a fine 1700.

A pochi passi, un piccolo gioiello: il Rothenburgerhaus,

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casa in legno del 1500, perfettamente tenuta, circondata da piante e fiori.

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  Essa è collocata al di fuori del chiostro con le tombe.

In questa casa certo Diebold Schilling scrisse ed illustrò la sua celebre cronaca cittadina.

Curioso personaggio, questo Diebold Schilling (il Giovane). Nato a Hagenau (Francia) prima del 1460, morto a Lucerna nel 1515, fu autore di cronache del tempo, redatte nella tradizione svizzera delle cronache illustrate. Era figlio di Hans Schilling, fratello più anziano di Diebold Schilling (il Vecchio), autore di una Cronaca di Berna (Berner Chronik).

Dal 1479 Diebold fu notaio e prete a Lucerna. Contrariamente all’ineccepibile zio, era una figura dai diversi volti, spesso implicato in scandali; tanto che, nel 1487, il Consiglio di Lucerna lo fece imprigionare e sospese le sue prebende. Fu rilasciato dopo due anni, previa promessa di comportarsi in futuro in modo più consono alla sua posizione. Ma pure dopo questa brutta esperienza fu coinvolto in ogni genere di affari più o meno loschi e, a seguito di una rissa notturna terminata con un omicidio, venne multato dal Consiglio ed obbligato a pagare ogni anno una Messa funebre in suffragio della vittima.

La sua Cronaca fu presentata al Consiglio della città di Lucerna il 15 gennaio 1513.

Dal punto di vista politico Schilling tendeva ad avvicinarsi all’Imperatore Massimiliano I (1459/1519), il quale, nel 1507, lo invitò personalmente alla Dieta (assemblea, convocata dall’Imperatore) tenutasi a Costanza.

Ma torniamo alla “nostra” casetta, che sembra uscita da una fiaba.

Per evitare il degrado dell’edificio, si dovette, a fine anni ’60 / inizio ’70 del 1900, rinnovarlo con cura e ricostruirlo con molti nuovi pezzi fedeli all’originale. Ora ospita uffici parrocchiali.

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  Scorgiamo e salutiamo un paio di simpatiche signore, alle quali senz’altro va il merito della perfetta cura delle piante lì attorno.

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E non sono certo da meno le dimore nelle vicinanze, come questa, ad esempio; col caratteristico motivo a graticcio.

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Pranziamo in una caratteristica Stube.

Il locale, molto valido, si chiama Fritschi ed è intitolato ad un popolare personaggio folcloristico locale su cui m’intratterrò più avanti.

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  E nient’affatto da trascurare è, immagino, l’altro ristorante tipico, lo Stadtkeller.

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Dedichiamo il pomeriggio ad altri monumenti per così dire “consolari” della città.

Prima però merita uno sguardo la più antica farmacia di Lucerna (1833), la Alte Suidtersche Apotheke, in Bahnhofstraße n. 21 (riva sinistra, quindi), fondata dalla famiglia Suid, posta in un suggestivo edificio color grigio.

L’interno è molto tradizionale con arredi in legno, preziosi vasi in ceramica per prodotti galenici; nonché animali impagliati. Questi ultimi magari non saranno entusiasmanti, per così dire, ma “fanno colore”. E’ una farmacia fornitissima di medicinali d’avanguardia; oltre che di specialità, quali creme o pomate ad esempio, preparate ad hoc.

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  Immagine un po’ mossa, ma che rende l’idea.

Ecco la Chiesa dei Francescani, la Franziskaner Kirche o St. Maria in der Au (cioè “Sul prato”)

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La chiesa, gotica, fu eretta nel secolo XIII, rifatta nel 1551/63, conserva della costruzione originaria solo il presbiterio. Nell’interno, a tre navate, sono belli il pulpito, opera di Niklaus Geisler -1628, lo stesso che ha diretto i lavori di ricostruzione della Hofkiche-, gli stalli (risalenti a circa vent’anni dopo) e la cappella in fondo a sinistra, più antica (del 1434), coperta di volte a rete e ornata di stucchi del 1626, della scuola di Wessobrunn.

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Incredibile, anche se ovvio, come il viaggiare apra la mente sulla Storia; e, in specie, sulla Storia dell’Arte.

La Scuola di Wessobrunn (Wessobrunner Schule) è stata una scuola d’arte tedesca, celebre per aver dato, nei secoli XVII e XVIII, intere famiglie di insigni architetti, stucchisti, pittori di stile Barocco e, in specie, Rococo. La denominazione “Scuola di Wessobrunn”, data nel 1888 dagli storici Gustav von Bezold e Georg Hacker, deriva da quello dell’Abbazia benedettina bavarese di Wessobrunn, dove gli artisti studiavano e lavoravano. La Scuola fu fondata dall’Architetto Caspar Feichtmayr ed ebbe tra i membri più rappresentativi i fratelli Zimmermann (Johann Baptist e Dominikus, autori della Wieskirche -Santuario di Cristo Flagellato- vicino a Steingaden, sempre in Baviera) e le famiglie di artisti Schmutzer e Feuchtmayer (Basiliche di Ottobeuren, in Baviera, Zwiefalten in Baden Württenberg e l’Abbazia di Stams, in Austria). Opera di questi artisti sono pure le stupende decorazioni dell’Abbazia di S. Gallo, che abbiamo ammirato alcuni giorni fa. Poco lontano, ecco la Chiesa dei Gesuiti, Jesuitenkirche, intitolata a S. Francesco Saverio (spagnolo, 1506 /1552), patrono delle Missioni.

Affettuoso pensiero a due storiche “colonne” della nostra parrocchia di S. Giovanni in Monte in Bologna: Suor Anna Marchetti e Suor Anna Bettini, che vivono a due passi da noi in una sorta di pensionato universitario intitolato al Santo, che fece opera di evangelizzazione in lontane terre.

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E’ la prima grande costruzione sacra in stile barocco della Svizzera.

Fu  fatta costruire nel 1666 da Padre Christoph Vogler per i Gesuiti. La facciata, rivolta in modo evocativo verso la Reuss, ha due alte torri con coronamento a bulbo del 1893.

L’edificio è stato oggetto da restauri anche nel secolo XX (1957/58 e 1974/1980).

La chiesa nacque come luogo di culto del Collegio della Compagnia di Gesù; fino al 1755, quando fu costruito un passaggio, i due edifici erano distaccati.

I Gesuiti furono chiamati a Lucerna nel 1574; contribuirono in modo notevole allo sviluppo della vita religiosa e culturale della città fino al 1847, quando ne furono cacciati a seguito della sconfitta in guerra del Sonderbund (v. supra nella breve storia cittadina).

A questo punto potrebbe essere interessante conoscere la complessa storia dei rapporti tra la Compagnia di Gesù e la città di Lucerna -come anche di quelli, strettamente legati ai primi, tra la stessa Compagnia e il Papa, Clemente XIV, che li soppresse (sia pure temporaneamente) con la lettera apostolica in forma breve Dominus ac Redemptor del 21 luglio 1773; soppressione dovuta non a controversie teologiche, bensì a ragioni squisitamente politiche-, ma ciò farebbe “perdere il filo” di questo racconto. E dunque la risparmio, tranquilli. Tematiche da approfondire, che riguardano anche noi italiani, pur non interessati direttamente da guerre di religione, o situazioni assimilabili, come altri Paesi vicini.

Può essere sufficiente precisare che l’interdizione dei Gesuiti, dopo la loro cacciata di cui sopra, fu stralciata dalla Costituzione federale nel 1973 e che solo dal 2006, su istanza del vescovo di Basilea, p. Hansruedi Kleiber assunse l’incarico di Prefetto della Chiesa dei Gesuiti.

In questo modo un gesuita è di nuovo responsabile della liturgia e delle attività della Chiesa …dei Gesuiti!

La chiesa e le sacrestie possono essere affittate per iniziative varie di livello, concerti di musica classica compresi.

L’interno è a una navata con tribune sulle cappelle laterali

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e volta ornata da stucchi della Scuola di Wessobrunn (1673) e affreschi dei ticinesi Torricelli (1749); la pala dell’altare maggiore è di F.I. Torriani (1681); ricchi altari laterali e sagrestia del 1600 e 1700. Sulla cantoria, in controfacciata, vediamo l’organo principale; un secondo organo (l’organo del coro) è sulla sinistra del presbiterio. Entrambi gli strumenti sono novecenteschi.

Dalla riva sinistra fotografiamo il Municipio, con la sua robusta torre,

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posto sulla riva destra del fiume, raggiungibile attraverso il Rataussteg (ponte).

Il Municipio fu costruito tra il 1602 e il 1606 in stile rinascimentale italiano da Anton Insenman; protetto dalle intemperie, come oggi, da un tetto spiovente tipico delle cascine del Cantone di Berna. Notevole la Torre (Rathausturm). Le arcate aperte verso la Reuss servono anche ai nostri giorni per il mercato ortofrutticolo, mentre la sala sovrastante, adibita un tempo a granaio, oggi è usata per mostre e concerti.

Siamo giunti al monumento simbolo della città; o almeno il più conosciuto.

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    Il Kapellbrücke risale al 1300 ed è il più antico ponte in legno d’Europa. E’ disposto in modo obliquo per una lunghezza di circa m. 200 ed è fiancheggiato, all’incirca a metà, da una torre ottagonale, la Torre dell’Acqua (Wasserturm), coeva al ponte e…multiuso: difesa (anch’essa è parte, in quanto torre, del sistema difensivo), archivio, prigione e stanza del tesoro. Meglio non rivelare quest’ultimo particolare a ladri eventualmente ivi custoditi! Sotto la copertura si potevano ammirare i 147 pannelli triangolari dipinti, a far tempo dal 1614, dall’artista svizzero Hans Heirich Wägmann (1557/1627), restaurati nel 1945, che illustravano la storia della città e le vicende dei due santi protettori, Leodegario e Maurizio.

Nell’agosto 1993, a causa di un incendio scoppiato su un’imbarcazione ancorata a poca distanza, il ponte andò per lo più distrutto;

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    ma fu ricostruito nel giro di soli nove mesi. La lunghezza attuale è leggermente inferiore a quella del ponte originale. I dipinti che vediamo non sono quelli originari, distrutti dall’incendio, bensì delle copie.

Altro monumento significativo è il Teatro, base di partenza per molti artisti di valore.

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  Ecco un’altra prospettiva del Kapelbrücke che spiega il nome del ponte

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Esso infatti termina (o inizia, a seconda dei punti di vista) alla piccola Chiesa -o Cappella- di S. Pietro (ben visibile la torre campanaria gotica sulla destra), risalente al 1178, rifatta più volte; v. supra a proposito della storia cittadina.

La Peterskapelle si trova sul lato meridionale della Kapelplatz; quest’ultima porta al centro una fontana, neorinascimentale, del 1918, dedicata a Fritschi, popolare personaggio del Carnevale di Lucerna (Fasnacht), uno degli eventi clou cittadini.

I termini tedeschi Fastnacht, Fasnacht o Fasching hanno tutti la stessa origine ed indicano, tradotto in italiano: “Il periodo delle abbuffate prima della Quaresima” (Die letze derb augenossene Fresszeit vor dem beginn der Faste).

Il significato del vocabolo deriva dall’antico alto tedesco Fasta (Quaresima) e Naht (Notte, Vigilia). In origine esso indicava solo il giorno prima dell’inizio della Quaresima (cioè il nostro Martedì grasso), ma, a partire dal 1400, ha finito per indicare tutta la settimana precedente la Quaresima.

D’altronde, come in generale nei Paesi di cultura tedesca, il Carnevale è festeggiato con gioia e partecipazione, un evento sociale, non solo folcloristico. Si comincia il Giovedì grasso -ma vi sono luoghi, come Colonia, ad esempio, in cui inizia ben prima!- e si va avanti per un’intera settimana con cortei di maschere ed eventi diversi, fino all’inizio del Mercoledì delle Ceneri allorché tutto finisce.

Da noi il Carnevale parte col 6 gennaio (Epifania), ma non è più così popolare; fatta eccezione per le sfilate di carri allegorici. Tradizionale, in Emilia Romagna, è quello di Cento, in provincia di Ferrara.

Espressione del celebre carnevale di Lucerna è la Guugenmusig. Che cos’è la Guggen (o Guugen nel linguaggio locale)? E’ una banda, composta da fiati e percussioni, che suona e balla per strada. Nei giorni di Carnevale le bande si ritrovano per eseguire un suggestivo concerto, indi sfilano, sempre a suon di musica, per le vie della città.

Diamo ora una rapida occhiata alla vasta Schwanenplatz.

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  A parte il nome -Piazza dei Cigni, in omaggio ai leggiadri abitanti del lago- essa non ha nulla di leggiadro: grandi negozi (come il celebre gioielliere e orologiaio di notevole prestigio Bucherer, occupante un intero palazzo), masse di turisti, traffico veicolare intenso….. Insomma, quell’aspetto di Lucerna che, all’arrivo, mi aveva fatto venir la tentazione di fuggirne a gambe levate. E addio magia del KKL….

Ma vogliamo scherzare? Per la Magia si sopporta tutto! O quasi.

Ci allontaniamo veloci. Passiamo di nuovo per il Kappelbrücke e raggiungiamo la Stazione Ferroviaria. Molto bella e ben congegnata. E ti credo: è opera (1991) di Santiago Calatrava!

Ci fermiamo a far provvista di frutta presso la Cooperativa interna.

Mentre ci avviamo verso l’uscita, graditissima sorpresa: Francesco Senese, primo violino dell’Orchestra Mozart, nonché della Lucerne Festival Orchestra; appena arrivato in treno dall’Italia [2].

Trolley alla mano e zaino che custodisce il suo valoroso strumento sulla schiena, Francesco, come molti musicisti in gamba, specie quelli giovani come lui, è persona semplice, piena di calore umano.

Il solo vederlo mi dà gioia: è figura familiare, piena di simpatia, talento. Uno di famiglia, vien da dire, che in modo fantastico contribuisce a far sì che questa città, Lucerna, quasi da me respinta ieri, oggi mi appaia vicina e desiderosa di fare amicizia.

Promettiamo a Francesco che faremo di tutto per essere presenti alla prossima edizione del Festival di Musica sull’Acqua,  la bella iniziativa che, da qualche anno, egli organizza, nel mese di luglio, insieme ad un discreto numero di ottimi colleghi -violinisti, ma non solo- e che vede, tra l’altro, la partecipazione di “voci” davvero uniche -come il contralto Sara Mingardo, ad esempio: altissima arte e tanta umanità, una persona d’oro, sul serio- e direttori d’orchestra leggendari (Bernard Haitink, tanto per fare un nome).

Ne è teatro la cittadina natale di Francesco, Colico (in provincia di Lecco), insieme ad altre località vicine.   Insomma, una sorta di versione lombarda -e diffusa, come certi alberghi costruiti in anni recenti specie nel nostro Sud, per intenderci- del Festival lucernese; ma non per questo meno rilevante.

L’ultima edizione è stata assai applaudita ed egli ne è orgoglioso .

Ci salutiamo con affetto: arrivederci a Venerdì!   Chissà che non si possa scambiare qualche impressione a fine concerto….

 

 

9 AGOSTO MERCOLEDI’

Questa mattina ci attende l’incontro con un personaggio che definire autorevole è poco. Approfittiamo di una passabile (al momento) situazione meteorologica per recarci con l’automobile nella vicina penisoletta di Tribschen.

Attraverso un ponticello pedonale che sovrappassa la Baselstrasse -a scorrimento veloce- entriamo direttamente nel parcheggio coperto, sorta di garage, di Altstadt (per la vicinanza in linea d’aria con la città antica) dov’è custodita la nostra vettura. Il relativo costo ammonta alla rispettabile cifra di 30 franchi svizzeri giornalieri, poco meno di trenta Euro cioè. Nulla di paragonabile a quanto pagato, per esempio, a Eguisheim (un decimo!)dove, a onor del vero, si trattava non di un garage custodito, bensì solo di un parcheggio, all’aperto e non custodito. La tranquillità si paga.

Raggiungiamo la nostra meta in pochi minuti. Un luogo stupendo, immerso nel verde. Lasciata la vettura a debita distanza, percorriamo a piedi il dolce sentiero, Weg per dirla in tedesco, intitolato al nostro protagonista odierno: Richard Wagner.

Quando, nell’aprile 1866, l’illustre compositore (Lipsia, 1813 / Venezia, 1883) firmò il contratto d’affitto col luogotenente Walter Am Rhyn, proprietario della bella villa di fronte, aveva l’intenzione di restarvi solo un anno.

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Ne passò invece sei (fino al 1872) in quel luogo di sogno: durante il periodo estivo, ma non solo. Egli conosceva bene Lucerna perché, in precedenza, vi aveva soggiornato sei mesi presso l’Hotel Schweizerhof, nel 1859.

In occasione di una gita in battello con Cosima von Bülow -figlia illegittima di Franz Liszt, la madre era la contessa e scrittrice francese Marie d’Angoult- Wagner aveva adocchiato la proprietà degli Am Rhyn; una costruzione un po’ cadente, ma affascinante come non mai.

Entrò in trattative con la famiglia e, poco tempo dopo, riuscì a trasferirsi nella casa, ristrutturata ed ammobiliata. Questa è la premessa. Ora il luogo è sede del piccolo, ma interessante e ben tenuto Richard Wagner Museum, che visitiamo.

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Ci accolgono due signore di mezza età, gentilissime, perfettamente intonate all’ambiente, le quali, saputo che siamo italiani, ci danno in omaggio un piccolo pieghevole nella nostra lingua, raccomandandoci solo di non fare riprese col flash.

Seconda, indispensabile, premessa per entrare nel clima adatto. Il 25 agosto 1870 Wagner e Cosima si sposarono nella Matthäuskirche di Lucerna, dove pure era stato battezzato il loro unico figlio maschio, nato nella casa di Tribschen, Siegfried (giugno 1869 / Bayreuth, 4.8.1930). Per festeggiare questo evento Wagner compose il Sigfried Idyll (l’Idillio di Sigfrido) che fu eseguito per la prima volta a Tribschen sulla scalinata della casa.

Anzi, per essere esatti: la mattina del 25 dicembre 1870, giorno di Natale ma anche ricorrenza del compleanno di sua moglie, Wagner le preparò la sorpresa dell’esecuzione -affidata a quindici musicisti, nascosti in fondo alla scalinata della villa- di questo poema sinfonico, fresco di composizione, che intendeva celebrare sia il trentatreesimo genetliaco di lei, sia la nascita, poco tempo prima, del loro figlio.

L’ambiente dove ora c’è la cassa, entrando sulla destra, era la camera del musicista.

All’epoca c’era pure una cucina, poi trasferita in uno stabile secondario (ora non più esistente).

Subito dopo il primo ambiente: il cosiddetto “studio verde”, senz’altro, in origine, di quel colore. Qua, dove si trovava una parte della biblioteca, l’illustre inquilino attendeva alle sue composizioni, con l’aiuto del pianoforte Bechstein, dono di Re Luigi II di Baviera, il leggendario “Ludwig”, suo grande mecenate. Basta aver visitato i castelli fatti erigere dal sovrano per rendersi conto della profonda passione di lui per la mitologia germanica filtrata dall’immortale musica wagneriana.

Il salone. Il pianoforte a coda Erard che vediamo ai nostri giorni si trova nella stessa posizione di quando era suonato dal Maestro. Alle pareti ritratti di Ludwig II, Schiller, Goethe e del patrigno di Wagner, Ludwig Geiger.

Quando il musicista viveva qui la biblioteca e la sala da pranzo erano separate da un muro, poi abbattuto; le pareti erano ricoperte di seta color porpora. Alloggiati al primo piano, Cosima e i cinque figli, cioè (salvo errori): Bladine e Daniela (nate dal matrimonio, poi sciolto con divorzio, tra Cosima e il pianista, nonché direttore d’orchestra, Hans von Bülow); Isolde ed Eva (entrambe frutto dell’unione con Wagner, ma battezzate von Bülow); Siegfried (nato da Cosima e Richard, prima del loro matrimonio). Si fa fatica ad orientarsi in una vita sentimentale così articolata!

Agli ospiti era riservato il secondo piano; mentre cucina, lavanderia e stalla erano posti accanto alla casa. E il personale di servizio, immagino numeroso, viveva in una fattoria a poca distanza dalla villa, all’interno della stessa proprietà.

Durante gli anni della permanenza a Tribschen molte persone illustri, oltre che parenti, furono accolti in questo luogo. Da Re Ludwig citato sopra a Franz Liszt (suocero), al pianista Josef Rubinstein, al musicologo Edouard Schuré; a tanti altri.

Ecco il panorama che essi potevano ammirare dalle finestre

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Un posto a parte lo occupa Friedrich Nietzsche (Röcken, -presso Lützen, in Sassonia Anhalt- 1844 / Weimar, Turingia, 1900).

Il celebre filosofo tedesco (nonché poeta, saggista, compositore e filologo) visitò Tribschen ben 23 volte.

L’amicizia tra Wagner e Nietzsche, assai più giovane, fu intellettualmente molto ricca; durò otto anni, ma s’interruppe bruscamente per cause mai del tutto chiarite.

I due s’incontrarono per la prima volta nel novembre 1868 a Lipsia, in casa del cognato di Wagner, l’orientalista Herman Bockhaus, ma iniziarono a frequentarsi solo l’anno successivo, nella primavera del 1869.

Il filosofo, ancor prima di conoscere l’autore, aveva riportato una forte impressione dall’ascolto dei preludi del Tristan e dei Maestri Cantori.

Appassionato conoscitore di Musica (e anche compositore, anche se, pare, mediocre; il che lo imbarazzava, quand’era di fronte ad un “gigante” come il Maestro di Lipsia), Nietzsche era peraltro colpito, più che dalle opere di Wagner, dal temperamento di lui, dalla sua decisa personalità, così critica verso il moralismo borghese dell’epoca. Certo che non c’erano due uomini più diversi tra loro, quanto a temperamento, di Wagner e Nietzsche: il primo, estroverso e ilare, il secondo, introverso e riservato.

Ma una passione li accomunava: quella per la tragedia greca e la filosofia di Schopenhauer; in particolare per la Metafisica della Musica. Anzi pare che, in occasione del Natale 1869, i due amici avessero a lungo parlato sia di questo testo che del Parsifal, che Wagner andava abbozzando.

Che cosa determinò la rottura, avvenuta nel novembre 1876? Forse la rivalutazione wagneriana del Cristianesimo (che si accompagnò pure ad un profondo interesse per Buddismo e Induismo) non garbava al Filosofo, mentre il Maestro non approvava l’amicizia che Nietzsche aveva instaurato con Paul Reé, filosofo deprecato da Wagner perché di origine ebraica. E’ noto come sia Wagner che sua moglie fossero ossessivamente antisemiti; contrariamente a Nietzsche.

Si è pure ipotizzato che Friedrich fosse segretamente innamorato di Cosima, non così lontana da lui quanto all’età; ma nulla è sicuro; anzi si tratta di mere congetture.

Forse pure la sorella di Nietzsche, Elisabeth Förster-Nietzsche, curatrice e gelosa custode del suo archivio, torva figura che sembra uscita dalla fantasia di uno scrittore “gotico”, ha contribuito ad occultare elementi che avrebbero potuto dar serio corpo a semplici ipotesi.

Altre ne sono state formulate dagli studiosi, senza giungere tuttavia ad una conclusione.

Fatto sì è che il venir meno di questo rapporto amichevole fu doloroso per entrambi, ma in particolare per il più giovane Nietzsche, il quale serbò sempre dolorosa nostalgia per “…quei giorni di Tribschen….”.

Occorre poi tener presente come la salute mentale di Nietzsche andasse, negli anni, progressivamente deteriorandosi, al punto di impedirgli normali rapporti umani.

Ci soffermiamo tra le diverse stanze della casa / museo, dove sono esposti alcuni abiti (autentici) del musicista, quasi costumi regionali, quelli in cui lo si immagina passeggiare lungo i vialetti attorno alla villa o soffermarsi al pianoforte.

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Vi sono pure un’interessante collezione di antichi strumenti e numerosi manoscritti del compositore, che fu appassionato, direi anzi “feroce”, critico musicale.

Tra questi campeggia il trucemente famoso pamphlet, Das Judentum in der Musik, Leipzig, 1869. Wagner temeva che la sua pubblicazione utilizzando il proprio nome e cognome gli avrebbe procurato delle noie. Decise allora, anche su consiglio dell’ascoltata compagna di vita, di darlo alle stampe con lo pseudonimo di K. Freigedank, cioè K. Liberopensiero (sai che libertà! Mi si perdoni …l’ardire verso cotanto personaggio!).

Non è questa la sede per soffermarsi a riflettere sul problema dell’antisemitismo di Wagner, che non fu certo un atteggiamento fine a se stesso, ma proiettò la sua ombra sinistra nel tempo successivo.

Tematiche allargate, in generale, sul rapporto tra mondo cristiano e musicisti ebrei -o di ambiente ebraico- sono contenute nell’interessante saggio di Enrico Fubini, uscito l’anno scorso, cui rimando [3].

Osserva perspicuamente Fubini (pp. 67/68) “…la sua [di Wagner] antipatia nei confronti del mondo ebraico ha lasciato un segno profondo nella cultura musicale tedesca anche nei decenni che hanno seguito la sua scomparsa fino al XX secolo. Il suo viscerale antisemitismo va considerato con molta attenzione perché le componenti intellettuali e culturali di cui si è servito non sono riducibili ad una generica antipatia personale [nel caso specifico verso Mendelssohn e Meyerbeer], ma fanno leva su posizioni che si ritroveranno in tutta la cultura antisemita, non solo tedesca, sino a tutto il Novecento”. E oltre il Novecento, c’è da aggiungere. E nonostante, aggiungo, la Shoah.

Profonde riflessioni, poi, possiamo leggerle in “La Musica corre a Berlino“, “libro chiacchierata” tra Claudio Abbado e Lidia Bramani, nel quale ampio spazio viene dedicato all’opera di Richard Wagner [4].

Alla domanda della sua interlocutrice sulle “zone d’ombra” nel pensiero di Wagner, il Maestro milanese osserva, tra l’altro: “Nella genesi del Parsifal [l’ultimo dramma musicale di Richard Wagner, andato in scena al Festival di Bayreuth il 26 luglio 1882] ebbero una rilevanza che non va trascurata alcuni progetti di Wagner rimasti irrealizzati: Jesus von Nazareth del 1849, con i suoi originali intrecci sacri e profani, e il dramma buddista Die Sieger (I vincitori), cui il compositore continuò a pensare anche dopo Parsifal. Il viaggio nel Tempo e nello Spazio durante il quale Parsifal ritrova la lancia e guarisce la ferita di Amfortas [il sovrano del regno del Graal] gli permette di raggiungere la saggezza condividendo il dolore degli altri. Wagner crea dunque un universo sonoro nel quale la dialettica tra il mondo del Graal (….) e quello di Klingsor [mago, nemico del Santo Graal]…permette il superamento di ogni tensione in nome di una religiosità universale che riunisce tutte le fedi in una religiosità più alta. Questo io ho sentito in Parsifal e credo sia indipendente anche dall’ideologia wagneriana, non di rado contaminata da aspetti inquietanti, soprattutto per quanto riguarda l’antisemitismo” [5].

Usciamo a passeggiare nel lussureggiante parco. Mauro ne approfitta per farsi immortalare da me accanto al glorioso abitante della villa; o almeno al suo busto.

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Ancora pochi passi ed ecco la targa che mi aspettavo di trovare!

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25 agosto 1938, cinque mesi dopo l’Anschluß.

Proprio in questo stesso luogo nel quale, 68 anni prima, era stato rappresentato, per la prima volta, il Sigfried Idyll, Arturo Toscanini riunisce un’orchestra di prestigio della quale fanno parte solisti di grande fama.

E’ un periodo molto difficile: con Germania e Austria prede del Nazismo, artisti della statura di Arturo Toscanini, Bruno Walter, Fritz Busch, Erich Kleiber e altri hanno rinunciato, per motivi etici, prima che politici, di partecipare ai Festival di Salisburgo e Bayreuth, amati dal regime.

E sì che, in anni precedenti, cioè prima che il nazismo si affermasse in Germania, lo stesso Toscanini era stato il primo direttore d’orchestra non austro tedesco ad esibirsi proprio nel nido wagneriano di Bayreuth.

La Svizzera era un Paese libero, ricco di risorse e Lucerna, luogo così evocativo, apparve subito ad Arturo Toscanini la sede ideale in cui tenere un Festival di Musica.

Doverosa digressione, che ci rivela come le strade della vita talvolta s’intreccino in modo sorprendente; ma del tutto logico, a ben pensarci.

Poco meno di due anni prima, il 25 dicembre 1936, Toscanini aveva diretto a Tel Aviv, presso l’Auditorium Bronfmann, il concerto inaugurale della Palestine Orchestra,

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fondata dal violinista ebreo di origine polacca Bronisław Hubermann (Częstochowa, 19 dicembre 1882 – Corsier-sur-Vevey, 16 giugno 1947)

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e composta in gran parte da musicisti cacciati dai loro Paesi in quanto Ebrei, o fuggiti dagli stessi prima che la Tragedia li ghermisse. Trovarono rifugio nella Terra dei Padri grazie all’impegno instancabile dello stesso Huberman il quale si dette da fare moltissimo in favore dei colleghi.

La Palestine Orchestra, con la (ri)costituzione dello Stato di Israele, divenne la Israel Philarmonic Orchestra, IPO (ebraico: התזמורת הפילהרמונית הישראלית, ha-Tizmoret ha-Filharmonit ha-Yisre’elit).

All’evento presenziarono, tra il pubblico, David Ben Gurion e Haim Weizmann, uomini chiave nella rinascita dello Stato di Israele. Nel febbraio 2007, i musicisti di IPO, guidati da Riccardo Muti, tennero un concerto di ringraziamento dedicato a Toscanini, il quale, per la sua opera, non aveva voluto alcun compenso (“Lo faccio per l’umanità” era stata la sua dichiarazione). Gli israeliani gli donarono un frutteto, a Ramot Ha Shavim -un moshav a nord di Tel Aviv fondato da Ebrei tedeschi nel 1933- dov’egli ritornava a raccogliere le sue arance, delle quali era assai orgoglioso.

Quel concerto memorabile del 1936 è stato ripetuto, 80 anni dopo, il 20 dicembre 2016, col medesimo programma:

-Gioacchino Antonio Rossini

La scala di seta: Ouverture  

-Johannes Brahms

Second Symphony D major op.73 Allegro non troppo | Adagio non troppo | Allegretto grazioso | Allegro con spirito

-Franz Schubert

Unfinisched Simphony B minor: Incompiuta, ma in realtà…compiutissima, così osserva a ragione il Maestro Ezio Bosso -da me incontrato due volte; persona come ce ne son poche in giro. Ma taccio per non aprire parentesi infinite-. Incompiuta, come lo Stato di Israele, aggiungo, coi suoi problemi irrisolti sì, ma in grado di dar lezioni al mondo occidentale; in primo luogo di autentica democrazia.

Una Sinfonia che ha a che fare pure con Lucerna e il suo Festival.

Allegro moderato | Andante con moto  

-Felix Mendelssohn Bartholdy

Midsummer Might’s Dream Nocturno and Scherzo  

-Carl Maria von Weber

Oberon Ouverture.

Bacchetta di alto prestigio: Riccardo Muti, il quale, al termine, in un insolito bis, ha diretto l’inno nazionale dello Stato di Israele, Hatikvah, la Speranza, con musicisti commossi e pubblico entusiasta in piedi.

Questa Orchestra significa Israele”, ha dichiarato il Maestro.

In occasione dell’anniversario, il biografo di Arturo Toscanini, Prof. Harvey Sachs [6], è stato invitato dalla IPO a presentare, da parte della famiglia Toscanini, la lettera originale inviata da Hubermann al Maestro nel 1936 in cui il primo esprimeva al secondo il desiderio di parlargli direttamente della sua iniziativa.

Il Professore, nella sua conferenza, ha raccontato che Toscanini accettò con gioia di dirigere un’orchestra così composta e si recò, a proprie spese, in Palestina, dove ritornò più volte. Là aveva pure, come detto sopra,  il suo frutteto; in coerenza col fatto che spesso i musicisti amano la Natura e le Piante, forse perché nella Natura c’è qualcosa di etereo e spirituale, quel “qualcosa” di misterioso che è anima, essenza della Musica.

Quanto al Maestro Muti -napoletano di nascita, ravennate d’adozione, amabile conversatore-, ho avuto il piacere di incontrarlo l’1 marzo scorso, a Bologna, presso la Chiesa di S. Cristina, in occasione del Concerto Abbraccio, allorché, in veste di pianista, ha accompagnato alcuni giovani cantanti impegnati in arie e duetti d’opera. L’evento era stato organizzato dall’Associazione AGEOP RICERCA ONLUS che si occupa dei bambini ammalati di tumore.

Al termine ho avvicinato, senza alcun problema (!), Muti, ringraziandolo per la sua amicizia nei confronti di Israele. Sorridente e gentilissimo.

Un notevole “assaggio” della IPO, poi, l’avevamo avuto, Mauro ed io, insieme coi nostri compagni di viaggio, proprio in quella sala, l’ultimo 31 dicembre, nell’emozionante concerto di Fine Anno, diretto dall’ottimo Lahav Shani (nato nel 1989 a Tel Aviv, anche pianista).

Erano i giorni di Hanukka, la Festa delle Luci. La parola significa Inaugurazione -del Tempio di Gerusalemme, a seguito della vittoria degli Ebrei sui siro-ellenici che avevano occupato e profanato la Terra di Israele, II secolo a.C.-. Ogni sera viene accesa una candela per tutta la durata della Festa (otto volte). Si ricorda il miracolo dell’olio che, pur insufficiente di per sé, nelle lampade durò molti giorni; segno della benevolenza divina.

Alla fine, c’è una suggestiva conclusione, con l’ultima candela accesa.

Sul palco dell’Auditorium è giunto un ragazzino che ha intonato un canto commovente, a fianco del Direttore.

Attimi di alta spiritualità cui hanno partecipato tutti:  ebrei e non ebrei, credenti o meno.

Lahav è fantastico nel suo duplice ruolo di direttore e solista; il pubblico europeo già conosce  ed apprezza questo giovanotto scanzonato, ma preparatissimo. Te ne accorgi anzitutto  di quanto valga allorché lo osservi durante le prove.

Cresciuto alla Hochschule fuer Musik Hans Eisler di Berlino, il suo “mito” musicale è Leonard Bernstein (si rammarica di non averlo potuto conoscere, per ragioni anagrafiche, di persona!); il quale, a tacer d’altro, diresse  la IPO per un ventennio, lanciandola in campo internazionale. Fin dal 1948, detto en passant,  “Lenny”  è stato un forte sostenitore di Israele ed ha tenuto concerti, seguitissimi, anche in occasione delle guerre che il Paese ha dovuto combattere nei decenni, a cominciare da quella d’Indipendenza. Memorabile la sua esecuzione al pianoforte della “Rapsodia in Blue” di Gershwin sulle colline del deserto di Be’er Sheva, tra le macerie, davanti a 5.000 soldati (novembre 1948). Il giorno prima l’ONU aveva ordinato a Israele di ritirare le truppe dalla città liberata un mese prima. L’ostilità onusiana è di vecchia data, quindi. Israele rifiutò e  vi rimase. Un testimone oculare, raccolto dalla biografa del musicista, racconta: “L’anfiteatro è vivo coi soldati che chiacchierano -uomini e donne dell’esercito in prima linea, ebrei della Palestina…” ma pure da tutto il mondo, perfino dalla remota Lapponia! O quando diresse, nel 1967,  durante la guerra, la “Seconda” di Mahler, intitolata Resurrezione, Auferstehung in tedesco -mai brano fu più azzeccato!-; o nel 1973 allorché  suonò in un ospedale di feriti gravi nella guerra di Yom Kippur.

Niente a che vedere con certi suoi, recenti, colleghi, incamminati sulla strada del boicottaggio -più o meno strisciante-, ammantato -a sentir loro- di buone intenzioni; alla fin fine (purtroppo per loro) non così vantaggioso!

Vincitore nel 2013 del prestigioso Gustav Mahler International Conducting Competition, dal prossimo anno Lahav Shani sarà alla testa dell’Orchestra Filarmonica di Rotterdam ed è attualmente Direttore ospite dei Wiener Symphoniker.

Quanto all’Italia, egli ha debuttato sul podio dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI il 16 febbraio scorso: Concerto n. 1 in si bemolle minore op. 23 per pianoforte  e orchestra di Piotr Il’ič Čajkovskij , insieme con un’altra eccellenza, tra le nuove leve: Beatrice Rana (della quale farò accenno più avanti). A seguire, Sinfonia n. 5 in re minore op. 47 di Dmitrij Šostakovič.

Ha poi entusiasmato il pubblico nel concerto tenuto, a favore delle popolazioni del Burkina Faso, al Ravello Festival, in agosto: musiche di Weill e Bernstein con la Filarmonica di Rotterdam.

Personaggio da seguire.

Nella nostra serata di S. Silvestro  partner di Lahav è stata un’altra  meravigliosa maga della tastiera, coetanea, Yuja Wang, cinese.

Yuja si è fatta conoscere a Lucerna in occasione del Festival estivo 2009,  in un indimenticabile evento: 3° Concerto di Prokov’ev, diretta da Claudio Abbado; il quale, glielo si legge in viso, si diverte come un matto con l’ indiavolata “nipotina”, cui fatica a star dietro!

Ecco un assaggio della nostra Fiaba, dedicata alla memoria di Cristina, allora felice, in viaggio con noi: carissima persona che adesso, ne sono certa, ci sta sorridendo dal cielo.

 

 

Le persone che amiamo sono sempre nel nostro cuore. Non è una frase di circostanza, ne sei consapevole quando vivi momenti così forti.

 

E poi….

Perdonatemi, non posso sottacere un particolare, all’apparenza marginale, ma in realtà significativo: in quale Paese, che non sia Israele, la sera di S. Silvestro, ti offrono (offrono!) con un sorriso all’ingresso un bicchiere di eccellente champagne?

D’accordo, il bicchiere è di plastica, ma che importanza ha?

Altrove, a cominciare dall’Italia, detto bicchiere sarebbe a pagamento o magari riservato in partenza ai “soliti noti”.

Torniamo, per non perderci del tutto -ma solo un po’: è così piacevole!- all’argomento “Lucerna”.

Fu un concerto memorabile, quello di Tribschen il 25 agosto 1938, alla presenza di 1200 spettatori! Un notevole numero. Forse qualcuno si sarà arrampicato sugli alberi.

Per non sciupare la Magia della Musica, pare che fossero state fermate sul lago le barche a motore; bloccato il traffico nelle vicinanze; fatte tacere le sirene delle fabbriche, le campane delle chiese e perfino…..i campanacci delle mucche al pascolo.

Non so se tutto ciò sia vero, di certo è verosimile.

Furono suonate, insieme al Sigfried Idyll, musiche di Mozart, Beethoven, Rossini, come ricorda la targa di cui sopra.

Scrive Peter Hagmann (ottobre 2003): “…Sul prato che declinava dolcemente verso il Vierwaldstättersee si era radunato un pubblico illustre. Il podio coperto per i musicisti era sistemato in basso, vicino all’acqua…..A partecipare all’evento era l’Orchestra della Suisse Romande [la progenitrice dell’Orchestra di Lucerna], un gruppo ancora giovane per il quale il suo fondatore (il direttore d’orchestra Ernest Ansermet) aveva cercato un impegno estivo. Presenti erano però anche le prime parti dell’orchestra sinfonica svizzera e i membri del quartetto Bush occupavano i primi posti degli strumenti ad arco. In quegli anni non erano pochi i musicisti che avevano cercato rifugio in Svizzera….

Il programma comprendeva l’Ouverture dall’opera La scala di seta di Rossini, il Sigfried Idyll e il Vorspiel del terzo atto dei Meistersinger von Nürnberg di Richard Wagner, la Grande Sinfonia in sol minore di Mozart [cioè la mia amata n. 40, K550!] e la Sinfonia n. 2 di Beethoven. Visto con gli occhi di oggi il programma appare come un gran miscuglio, che dovette però essere certamente di notevole effetto.

Cinque anni dopo questi inizi nacque la Schweizerisches Festspielorchester che fino al suo scioglimento, nel 1993, ha svolto la funzione di orchestra stabile durante le Internationale Musikfestwochen di Lucerna…” [7] .   L’evento fu dunque l’inizio di una meravigliosa avventura musicale, che dura fino ai giorni nostri.

Molto è cambiato nel corso dei decenni; ma la quantità e, soprattutto, la qualità dei concerti proposti è andata crescendo, così come il numero degli spettatori.

Poi, nel 1998…….

E nel 2003….insieme al Direttore artistico del Festival, Michael Haefliger, il Maestro Claudio Abbado, noto “impollinatore di orchestre”…

Ma di tutto questo parlerò più avanti.

Un saluto a questo sommo personaggio, Richard Wagner, con le sue luci: tante; e le sue ombre: una, in particolare.

Poco lontano di qua, mi ha raccontato un amico, in una località dal nome suggestivo di Kastanienbaum, c’è la villa di certa Sig.ra Porsche -nientemeno..-. In occasione del Festival di Lucerna la Signora cedeva il suo prestigioso immobile al Maestro Abbado, affinché egli potesse studiare e confrontarsi coi suoi musicisti in pace e riservatezza. Magia su magia.

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Rientriamo in città.

Lasciata la vettura al suo oneroso ricovero, ci fermiamo a gustare una deliziosa fondue in un locale della città vecchia.

Sulla via dell’albergo, pur un po’ stanchi, sostiamo nelle piazzette vicine, più godibili in un momento della giornata in cui l’afflusso turistico è pressoché assente.

Kornmarktplatz: è la piazza del Mercato del Grano, da ricordare per il Municipio e gli affreschi sulla facciata della sede della Corporazione dei Pfistern (cioè dei Panettieri).

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La piazza del Mercato del Vino, la Weinmarktplatz, è sede di una tradizionale fiera dell’artigianato il primo sabato del mese, da aprile a dicembre.

In questa piazza gli abitanti di Lucerna, nel 1332, strinsero, in un giuramento solenne, il patto di unione con Uri, Svitto e Untervaldo.

Al centro l’elegante fontana del 1481; ma trattasi di copia, poiché l’originale si trova al Palazzo Ritter, cioè alla sede del governo cantonale. Detto palazzo fu costruito nel 1557 su incarico del Sindaco di Lucerna, Lucas Ritter, come palazzo privato in stile rinascimentale italiano.

Bellissime, sulla Weinmarkt, le facciate delle case (secoli XV e XVI) dipinte nel 1700, con accanto, il raffinato Hotel Krone

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nonché la Hirschenplatz.

Con i suoi edifici, tutti del secolo XVI, è un autentico gioiellino.

Guardate questo palazzo

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con tanto di targa ricordo.

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Notevole è pure il Göldlinghaus (al n. 12): facciata gotica ornata di Erker (torricella a sporto) del 1525.

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Risaliamo in camera per una breve pausa.

Dalla finestra sbircio che succede sulla Hirschenplatz. Al centro, un ragazzino biondo -avrà 13 anni, sì e no- intona una melodia montanara suonando con notevole perizia un lungo corno da caccia.

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In tanti si fermano ad ammirarlo e a lasciargli qualche spicciolo.

Non è da meno di lui una ragazza asiatica che incontriamo poco dopo lungo il percorso in direzione della nostra meta pomeridiana.

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Ripassiamo da Schwanenplatz con “annesso” Bucherer.

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L’obiettivo di oggi pomeriggio è un luogo nel quale si commemora un episodio sconosciuto ai più, perché oggetto di rimozione storica;  inutile nasconderlo. Uno dei tanti topoi scomodi.

Ma la Storia è pure fatta di queste vicende e ignorarle è solo sintomo di immaturità ed ignoranza; specie oggi, epoca in cui la melassa del politicamente corretto sembra dominare incontrastata.

Durante la strada, memori della visita del mattino, ci soffermiamo un attimo davanti alla Matthäuskirche, cioè la Chiesa luterana, costruita nella seconda metà del sec. XIX in stile neogotico, dove, il 25 agosto 1870, si unirono in matrimonio Richard Wagner e Cosima Liszt.

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Eccoci arrivati.

All’interno di un grazioso, piccolo parco posto in zona sopraelevata c’è uno dei monumenti più famosi della città, il Löwendenkmal , il Monumento del Leone; o il Leone di Lucerna.

Si tratta di una scultura nella roccia raffigurante un leone morente, progettata dall’artista neoclassico danese Bertel Thorvaldsen (Copenhagen: 1770 / 1844) e realizzata in pietra da Lukas Ahorn nel 1820/21. L’opera è dedicata alle guardie svizzere della famiglia reale di Francia cadute il 10 agosto 1792 durante l’assalto dei rivoluzionari al Palazzo delle Tuileries.

Un’alta parete rocciosa coronata da alberi e preceduta da un piccolo bacino d’acqua reca al centro, scolpito nella viva roccia a rilievo, un leone ferito a morte accovacciato sullo scudo coi gigli di Francia.

Mark Twain (1835/1910) definì il monumento: “Il pezzo di pietra più triste e commovente del mondo”.

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Vi sono anche alcuni pannelli esplicativi

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Ritorniamo sui nostri passi.

Piove, ma ciononostante ci concediamo una breve passeggiata lungolago sul Karl Spitter Quai e vicinanze. Alberghi e Casino.

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All’improvviso si materializza davanti a noi il Maestro Riccardo Chailly -in giacca impermeabile gialla-, immagino reduce dalle prove del concerto che dirigerà tra un paio di giorni.

E’ in compagnia di sua moglie Gabriella; insieme corrono verso l’albergo, stringendosi sotto l’ombrello.

Poco prima, era stata la volta del caschetto color oro di Verena Maria Fitz, violino secondo ( “Jean”, questo è il nome dato da lei al suo strumento) della Lucerne Festival Orchestra e dell’Orchestra Mozart, incrociata, per un istante, mentre sta parlando fitto fitto con un aitante accompagnatore. Meglio non disturbarli.

Piccola visione la sera, dopo cena, in albergo. La mansarda illuminata alla sommità del palazzo antico di fronte a noi lascia intravvedere una parete ricca di libri in bell’ordine.

Qualcuno si sta godendo istanti di intima pace.

Buona notte.

10 AGOSTO GIOVEDI’

Continua a piovere in modo inesorabile.

E pensare che tutte le immagini che ho di Lucerna, filmate e fotografiche, sono piene di azzurro e sole.

Ma non demordiamo!

Facciamo una “puntata” a un altro luogo caratteristico: la storica pasticceria Koch, sulla Kramgasse, all’imbocco dello Reussbrücke. L’esercizio è posto in una casa bellissima risalente al 1513.

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Entriamo e siamo avvolti dalla fragranza deliziosa di pane -o meglio: pani, declinati in varie forme ed ingredienti, secondo la fantasia degli artigiani di valore- e dolci appena sfornati. La qualità dei cibi è di primordine. Tra l’altro, qui tengono a far sapere che tra i componenti usati c’è la cosiddetta Grander Wasser. Mi sono documentata, va da sé.

L’Acqua Grander è chiamata così dal suo “inventore”, Johann Grander. Questi, negli anni ’70 del Novecento, ha scoperto le qualità positive e salutari dell’acqua vitalizzata. La vitalizzazione dell’acqua ristabilisce le qualità originarie di questo prezioso elemento, tale da renderlo resistente agli agenti esterni. Un po’, grosso modo, come fece Aharon Aaronsohn allorché, lungo le pendici del Monte Hermon, in Terra di Israele, rinvenne (1906) una pianticella di grano selvatico, Triticum dicoccoides.

Coltivato per millenni, il cereale (a forza, ritengo, di innaturali incroci ed innesti) era diventato una pianta fragile, destinata a soccombere in condizioni climatiche avverse. L’originale, il prototipo, ritrovato avrebbe consentito di ripristinare l’antico vigore. Quella scoperta dette al giovane agronomo ebreo d’origine rumena una vasta fama internazionale.

Grander ha ideato una particolare procedura che consiste nella “trasmissione di informazioni naturali di ordine superiore” (non chiedetemi i particolari tecnici!) e ciò significa che all’acqua non viene aggiunto né prelevato niente. In questo modo si possono ridurre cloro ed altri elementi chimici e la pelle si secca di meno. Ohibò!

Negli alberghi del nostro Sud Tirolo -o Alto Adige, che dir si voglia- l’Acqua Grander è largamente usata, pare. Così…rassicurati, salutiamo le commesse del Forno Koch con l’intesa: ripasseremo tra qualche ora.

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Sul ponte scattiamo alcune significative immagini.

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Passiamo sulla riva sinistra, cioè nella Città Nuova, dove incontriamo anche costruzioni antiche

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come questa, vicina alla sede del governo cantonale.

Esso è situato nel cosiddetto Palazzo di Lucas Ritter.

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L’edificio fu costruito nel 1557 su incarico del Sindaco di Lucerna, Lucas Ritter, come palazzo privato in stile rinascimentale italiano.

E….piove…piove….Ma noi non siamo persone che si arrendono facilmente alle difficoltà atmosferiche, dunque compiamo una seconda passeggiata lungolago.

Alberghi di lusso, graziosi condomini, giardini impreziositi da fiori coloratissimi, pur maltrattati dalla pioggia, prati pettinati con cura. La sede di un prestigioso studio legale, sulla falsariga di quelli lussemburghesi.

In lontananza intravvedi appena le maestose montagne alle quali avremmo desiderato far visita, anche soltanto giungendo ai loro piedi. Prendiamo in esame, sia pure come primo approccio, le più vicine, in linea d’aria.

Il Pilatus, posto sulla riva occidentale del lago, con la cima più alta, il Tomlishorn (m. 2013), famoso per la ricca flora. Trae il nome da una leggenda, secondo la quale vi abiterebbe nientemeno che lo spirito demoniaco di Ponzio Pilato.

Lassù, invece, altro che… spirito demoniaco! C’è un mondo a parte, super organizzato, con tutti i modernissimi confort. Non aspettatevi quindi il grazioso, ma scontato, rifugietto di montagna; bensì un luogo di delizie, raggiungibile grazie ad un’arditissima ferrovia a cremagliera, la quale, superando il notevole dislivello di oltre m. 1600 metri in circa 4 chilometri e mezzo, sale al Pilatus Kulm, con garantita vista mozzafiato. E, in particolare per i più giovani, un sacco di attività da svolgere.

La Rigi, m. 1801, chiamata La Regina delle Montagne, col suo Rigi Kulm (m. 1798), è raggiungibile anch’essa o con cremagliera o con funivia.

Nota fin dal Medioevo, la Rigi è stata immortalata dall’illustre pittore inglese William Turner (1775/1851) nel suo The Blue Rigi, Lake of Lucerne, Sunrise (Londra, Tate Gallery).

Il più basso è il Bürgenstock, m. 892, roccioso massiccio che aspetta il visitatore su un promontorio della riva occidentale del lago, di fronte alla Rigi; vi si può arrivare con l’automobile.

Purtroppo le condizioni meteorologiche ci consentono solo di…sognare queste mete e rinviarle ad una prossima occasione.

Né vale la pena di scattare immagini del lungolago; ci sentiamo un po’, tanto per essere in tema, come il Wanderer, cioè il Viandante su un mare di nebbia, il dipinto a olio su tela del pittore romantico Caspar David Friedrich, datato 1818, conservato alla Hamburger Kunsthalle di Amburgo.

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Tristezza e fascinazione insieme.

Ma siamo ragionevoli! Tornare in albergo è l’unica soluzione.

Consumiamo in camera una piacevole merenda, dopo aver fatto acquisti da Koch.

Nel pomeriggio, prendendo spunto dal fatto che la pioggia ci lascia un po’ in pace -d’altronde, vieni a Lucerna solo per poltrire in attesa del concerto? Non sia mai..-, ripercorriamo con calma le vie del centro antico, con continue scoperte.

Questa città, che all’inizio mi era sembrata chiusa nei suoi affari, massificata, informe, in una parola: ostile, pian piano ho imparato ad apprezzarla per le sue bellezze; forse non così evidenti come in un passato penso non lontano, ma che ci sono.

Compiamo un ampio giro e ci portiamo ancora dalla sponda destra a quella sinistra del fiume.

Come? Percorrendo un altro antico ponte, anch’esso simbolo cittadino:

il Ponte della Pula, o Spreuerbrücke

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Il Ponte, in legno e a capanna, fu completato nel 1408 come parte delle opere di difesa della città e per collegare alcuni mulini alla terraferma.

Si chiama Ponte della Pula perché soltanto da esso i lavoratori dei mulini potevano gettare nella Reuss pula e fogliame.

Tra il 1626 e il 1635 Kaspar Meglinger, pittore lucernese (1595/1670) vi inserì 67 dipinti che rappresentano una Danza Macabra. Occasione: la peste che sconvolse l’Europa in quegli anni; quella che fa da sfondo ai Promessi Sposi per intenderci.

Danse macabre o Totentanz è un tema caro all’iconografia soprattutto nordica.

I dipinti, posti sotto la tettoia, ci mostrano come ogni secondo della nostra vita costituisca un piccolo passo di avvicinamento alla morte. Con la morte tutti, prima o poi, dobbiamo fare i conti: giovani o vecchi, buoni o cattivi, ricchi o poveri. Non ha importanza.

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All’estremo ovest, dopo lo Spreuerbrücke, abbiamo un ponte carrabile, Geissmachbrücke, grazie al quale, da una parte, si sale verso il prestigioso Hotel Château Gütsch, sorta di castello delle fate, raggiungibile pure con una piccola cremagliera (a far tempo dal 2015); dall’altra, si attraversa il fiume e si arriva in Città Vecchia, non lontano dalla cerchia delle Mura (Museggstrasse).

Tra i due ponti, per così dire, storici (Spreuer e Kapel), poi, ve ne sono altri due meno suggestivi, ma non certo disprezzabili. Il primo, partendo dallo Spreuer, è il Reussbrücke, sul quale si affaccia Koch, il benemerito (v. stamani); il secondo è il Rathaussteg (v. racconto di Martedì, l’altro ieri), proprio di fronte al Municipio.

Dopo il Kappelbrücke c’è il ponte carrabile Seebrücke

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sfociante proprio davanti alla Stazione e quindi a pochi passi dalla nostra emozionante meta di domani, il KKL.

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Deliziose le sue passerelle sull’acqua.

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Scendiamo nei sotterranei della Stazione. In una frazione di secondo incrocio un altro componente della Lucerne Festival Orchestra. E’ una violinista, di mezza età; non ne conosco il nome, ma l’ho vista un’infinità di volte, sia in occasione dei concerti cui ho assistito di persona, sia nei filmati delle direzioni di Claudio Abbado. Va di corsa, non riesco nemmeno a gridarle: Grazie!!!

Beh, già che è qui a due passi, può essere una buona idea recarsi all’Ufficio del Turismo al fine per acquisire documentazione idonea per una prossima visita. Lavoriamo per il futuro: Roma non fu fatta in un giorno, dicono.

Questa città, pur non grande, è complessa e va compresa, pian piano e senza fretta. Una sola visita non è sufficiente e ciò sarebbe stato vero anche in condizioni meteorologiche più favorevoli.

All’Ufficio una signora molto cortese ci riempie di carte e mappe: forse ritiene che siamo appena arrivati; poi fornisce utili indicazioni.

Notiamo pure, nel caso in futuro si intenda arrivare col treno -sia che si preferisca soggiornare qualche giorno, sia che ci si voglia “limitare” al Festival-, due ottimi alberghi tradizionali di notevoli dimensioni, proprio di fronte. Si tratta del Monopol e del Waldstätterhof .

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Insomma, ci mettiamo avanti.

Tra l’altro, per quanto concerne la Musica classica, il KKL ospita pure eventi che non coinvolgono l’Orchestra di Lucerna. Ad es., il prossimo 23 gennaio il nostro Daniele Gatti dirigerà la MCO, Mahler Chamber Orchestra, di cui è Consulente Artistico, in un concerto “leccabaffi” che prevede:

-Robert Schumann: Genoveva Overture op. 81

-Ludwig van Beethoven: Sinfonia n. 4 in Si bemolle maggiore, op. 60

Robert Schumann: Sinfonia n. 3 in Mi bemolle maggiore, op. 97, cosiddetta Renana.

Ai due brani di Schumann sono particolarmente legata [8].

Chissà, chissà…..

Siamo in vena di burle. Mauro scatta questa immagine di un negozio Burger King, la catena statunitense di cibi standardizzati -anche da asporto- sul tipo del Mac Donald, dedicandola ad un  nostro amico.

Premesso che l’affetto verso di lui non manca, tanto da permetterci battute al vetriolo nei suoi confronti, Giorgio (ma non è il  suo vero nome), ne siamo certi, non sprecherebbe certo le sue energie per assistere ad un concerto di musica classica, impegnativo come quello che ci attende,  o, men che mai, per comprendere l’ésprit profondo di Lucerna, troppo complesso; ma, in compenso, sappiamo che considera Burger King preferibile ad un ristorante di prestigio e s’infilerebbe di corsa nel locale!

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11 AGOSTO VENERDI’  

IL MATTINO

“Come sta andando a Lucerna?” Chiede Marco in un messaggio giuntoci via cellulare.

Va alla grande: stasera c’è “IL” CONCERTO!

A motivo di ciò vale quindi la pena di passare una giornata all’insegna del riposo -si fa per dire…- nell’attesa di stasera.

Ci rechiamo sulla Pilatusstrasse, dove, al n. 10, ha sede la Collezione Rosengart (Sammlung Rosengart Luzern).

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La raccolta è riunita in un palazzo in stile neoclassico costruito negli anni ‘20 del secolo scorso, in precedenza ospitante i locali uffici della Banca Nazionale Svizzera.

Le opere esposte appartenevano in origine alla collezione privata di Siegfried e Angela Rosengart: padre e figlia.

Siegfried (morto nel 1985) è stato uno dei più importanti galleristi del Novecento. Conosceva bene gli artisti delle cui opere era proprietario. Anzi, ad alcuni di essi era legato da caldi rapporti di amicizia: in testa Pablo Picasso (Malaga -Spagna-, 1881 / Mougins Francia-, 1973).

L’autonoma avventura artistica di Siegfried ebbe origine nel 1937 allorché egli si separò dal cugino e ricco socio Justin Thannhauser, emigrato a New York dopo la chiusura delle gallerie Thannhauser di Monaco e Berlino Intuisco la causa di tale chiusura, mettendo in relazione gli anni e le assonanze, indubbiamente ebraiche, dei cognomi.

Quale ricompensa per i diciassette anni di attività come responsabile della succursale lucernese della galleria, Siegfried ricevette una piccola Natura Morta di Cézanne, del valore di diecimila franchi. Non riuscì a venderla, né allora, né mai, in realtà non volle separarsene, per ragioni affettive, nonostante le necessità economiche della famiglia.

Né fu mai venduto, da parte della Signora Rosengart (madre di Angela), un Paesaggio del medesimo pittore, comprato per la galleria. Erano così cari al cuore quei quadri! Incedibili.

Ella peraltro approvò sempre l’acquisto di quadri di Pissarro, Utrillo, Rouault, Matisse, corrispondenti al suo universo interiore.

Con siffatti genitori, il destino della figlia ne conseguiva: a far tempo dal 1948 Angela, nata nel 1932, affianca il padre nell’attività.

Attività intensa e lungimirante: poteva infatti capitare che i due avessero il coraggio di scegliere artisti i cui lavori, in quel determinato momento, era problematico vendere, poiché non incontravano il gusto del pubblico. Osavano, per così dire, certi del loro “fiuto”, costituito, in realtà, da radicata cultura. E i fatti davano loro ragione.

Il Museo Rosengart, il più “giovane” Museo lucernese, è nato nel 2002 (l’inaugurazione è avvenuta il 25 marzo di quell’anno) per iniziativa di Angela, la quale, circa un decennio prima, aveva dato vita all’omonima fondazione col nobile fine di far conoscere al pubblico di tutto il mondo le ben 220 opere costituenti il tesoro di famiglia, donato quindi alla città di Lucerna.

La stessa Angela confessava che, un tempo, tutti quei quadri erano appesi alle pareti della loro abitazione, alcuni addirittura senza le cornici! Gli artisti, e pure le loro opere, erano considerate dai Rosengart una sorta di persone di casa; con loro non ci si formalizzava di certo!

Picasso, Monet, Chagall, Klee e tanti altri sono gli Autori che possiamo ammirare qui.

Grazie alla profonda amicizia coi Rosengart, Pablo Picasso è presente con 32 stupendi dipinti, risalenti per lo più alla maturità, cioè dopo il 1938.

Vi è pure, di lui, un centinaio tra disegni (genere che in me suscita sempre grande suggestione), acquarelli, lavori grafici e scultorei diversi, concepiti anche in periodi precedenti.

Il tutto è valorizzato dalle impareggiabili fotografie scattate da David Douglas Duncan, grande amico del pittore, che danno perfettamente conto del suo temperamento.

Osservo incantata i capolavori di questo sorprendente personaggio, che non riesci ad incasellare da nessuna parte; che ti sfugge sempre, ma è proprio per questo che lo ami.

Lo sguardo cade su quanto Picasso scrive di sé, nel 1954: “Ho voluto, col disegno e il colore, le mie armi, penetrare sempre più avanti nella conoscenza del mondo e degli uomini. Sì ho consapevolezza di aver sempre lottato per la mia pittura, da vero rivoluzionario”.

Il secondo nucleo della Collezione è costituito da ben 125 tra acquarelli, disegni e dipinti realizzati, nel periodo: 1910 / 1940, da Paul Klee, pittore tedesco nato e morto in Svizzera (Müchenbuchsee, 1879 / Muralto, 1940), naturalizzato svizzero. Era, per l’esattezza, nato da padre tedesco e madre svizzera, entrambi musicisti.

Figura rilevante nell’arte del XX secolo, nel periodo della sua formazione Paul Klee si occupò di Musica, Poesia, Filosofia, Pittura, scegliendo alla fine la Pittura come ambito espressivo privilegiato e dando inizio ad una tra le più feconde esperienze artistiche del Novecento.

Si mantenne anche con i proventi derivanti dalla sua attività di violinista presso l’orchestra di Berna. Esponente dell’astrattismo, considerava l’arte una sorta di discorso sulla realtà -un punto di partenza, per così dire- e non una sua semplice riproduzione. Nelle opere di Klee la realtà è quindi rarefatta, essenziale, talora ridotta a semplici linee o campiture colorate. La sua ricerca si manifesta anche nella scelta dei materiali usati, dalla tradizionale tela alla carta di giornale, alla juta, a cartoncini di ogni qualità e spessore.

Le opere si trovano nel seminterrato della sede, illuminate da una luce artificiale soffusa, per non sciupare quelle più delicate. Esse ripercorrono tutte le fasi della vicenda artistica del grande pittore e danno conto, in modo chiaro, della sua idea-forza: “L’arte” diceva “non riproduce ciò che è visibile, bensì rende visibile”, ciò che evidentemente, ad un primo sguardo, non lo sembrerebbe.

Sarà che siamo a poche ore dal Concerto, ma mi sembra che questa riflessione si attagli perfettamente alla Musica. Essa, nella sua (solo apparente) astrattezza è in grado di dare visibilità e concretezza ai nostri sogni. Per coloro che intendano approfondire la figura e l’opera di Paul Klee consiglio la visita -che mi auguro di compiere presto, a mia volta- del Zentrum Paul Klee,  vicino a Berna, inaugurato il 20 giugno 2005 e progettato dal nostro Architetto Renzo Piano.

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Nel Zentrum sono conservate oltre 4000 opere, tra disegni, acquarelli, dipinti a olio.

La costruzione: tre leggere, ma potenti, onde di vetro e acciaio che s’insinuano tra le colline fino a diventarne parte. All’interno sono esposte le opere. Perché tre? Per far rivivere il complesso percorso dell’artista: insieme alla Pittura, egli, come detto, si dedicò a tre discipline: Musica (c’è anche un auditorium; vi ha suonato, tra gli altri, Maurizio Pollini), Poesia, Filosofia. Una visione interdisciplinare, cara a Renzo Piano, con la Pittura quale centro propulsore.

Le altre meraviglie spero di raccontarle in un viaggio ad hoc, dopo averne avuta personale esperienza.

Pure un altro genio del colore ha compiuto interessanti studi interdisciplinari. Si tratta di Vasilij Vasil’evič Kandiskij (Mosca, 1888/ Neully sur Seine, 1944), precursore e fondatore della pittura astratta, anch’egli esposto qui al Rosengart.

I diversi colori combinati, egli afferma, formano un’autentica Melodia.

Mi viene subito in mente lo stesso Piano il quale, tempo fa, nel paragonare l’Orchestra Mozart alla tavolozza di un pittore, si riferiva proprio a Kandiskij.

Il Pittore / Direttore Claudio Abbado era in grado, per gli autori e i brani da interpretare, di scegliere il musicista e/o i musicisti adatti, cioè i Colori giusti, estraendoli dalla Tavolozza / Orchestra.

O da altre compagini: li convocava e, voilà,  li  inseriva nella Mozart; innesti perfetti.

Oltre a Picasso, Klee, Kandinskij la Collezione Rosengart comprende altri notevoli artisti della modernità classica. Si tratta di opere, come si legge nella brochure, “scelte con il cuore”, selezionate cioè secondo criteri soggettivi, che rispecchiano le predilezioni dei nostri collezionisti.

E, come detto, non sbagliavano più di tanto nelle loro valutazioni (!).

Tra gli artisti, qui presenti, che possono essere considerati predecessori dell’astrattismo ricordiamo: Monet, Cézanne, Vuillard, Bonnard, Rouault, Matisse, Braque, Léger Mirò, Chagall.

Non allegherò nessuna immagine di questi capolavori, perché invito chi legge ad andare, appena possibile, a vederli -o meglio a scoprirli- di persona. Ne vale davvero la pena.

Un paio d’ore di relax, poi…ci siamo.

IL CONCERTO!

In pochi minuti di passeggiata siamo all’ingresso del KKL.

Manca oltre mezz’ora all’inizio dell’evento, programmato per le 18:30.

Per la centesima volta, verifico di avere con me, nella borsa, i preziosi biglietti, rimasti custoditi in un settore a parte della valigia fino al momento fatidico. OK….ci sono!

Entriamo, insieme ad un pubblico già folto.

Da dove comincio il mio racconto, che, giocoforza, non esprimerà appieno tutti pensieri e i sentimenti che questa esperienza ha suscitato, e continua a suscitare, in me?

Comincio dalla “veste”, cioè dalla sede del KKL, dove, per la maggior parte, si svolgerà il Festival.

Immagina una grande costruzione rettangolare, appoggiata sul bordo del lago e posta, come scrivevo il primo giorno qui, tra la Stazione ferroviaria e il molo dal quale partono le imbarcazioni per le gite nei luoghi circostanti. Nulla di speciale vista da lontano…Me n’ero già accorta.

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Ma, se ti avvicini, ti rendi conto meglio, sia pure dopo qualche attimo di sorpresa e superata quella sorta di ebbrezza che s’impadronisce di te non appena oltrepassi la soglia, che davvero l’acqua del lago penetra nel complesso, tramite canaletti / corridoio che attraversano le pareti in vetro.

E’ come se il lago e questo grande capannone (mi si perdoni il termine grezzo) si abbracciassero.

Il KKL, progettato dall’illustre architetto francese Jean Nouvel, riunisce sotto lo stesso tetto, come sappiamo (v. supra, primo giorno), una Sala da Concerti, un Centro congressuale e un Museo d’arte.

Sali -a piedi o tramite ascensori trasparenti- e, in un istante, hai il brillante specchio d’acqua ai tuoi piedi. Il tempo, per fortuna, è un po’ migliorato e la pioggia, ogni tanto, dà tregua; in ogni caso possiamo godere di una buona visibilità.

L’involucro, imponente e leggero ad un tempo, assomiglia….assomiglia…..

Ma certo! Assomiglia alla poppa di una nave, dai pannelli in legno e tutta aperta, raggiungibile in ogni sua parte ai diversi livelli -dalla platea alle gallerie- grazie a ponti, passerelle, piccole scale. La struttura è stata inaugurata nel 1998.

Consapevole del mio proverbiale senso dell’orientamento, cerco di non allontanarmi da Mauro nemmeno per un istante! Forte batticuore, perché no.

Quanta Storia, quanta Musica sono passate e passano da qui. Quante appassionanti e drammatiche vicende umane.

Accedi alla vasta Sala in forma ellittica, un poco schiacciata, e sei consapevole di trovarti a bordo di un veliero, in procinto di partire per un viaggio: il Viaggio nel Sogno della Musica.

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In ogni angolo dell’Auditorium, in color bianco e ciliegio, con un imponente organo centrale, lo spettatore domina il palco -o maggior parte di esso-: un emiciclo in legno dove le formazioni orchestrali si dispongono, su poltroncine blu, per ammaliare il pubblico.

Acustica perfetta, tra le migliori al mondo in assoluto, opera dell’architetto newyorkese Russel Johnson.

Essa è dovuta, in primo luogo, ad innovative soluzioni idrauliche (o idriche): la platea incassata in un bacino sotto il livello del lago e una cisterna mobile che permette  -insieme a 24.000 pannelli in gesso- di prolungare il suono di tre secondi (può apparire come una bazzecola, ma non lo è). Una voce fede degna mi ha raccontato che fu lo stesso Abbado a suggerire l’inserimento di questa sorta di…cuscino d’acqua. Diavolo d’un uomo.

Leggenda metropolitana: nella sala dicono che si possa udire uno spillo che cade a terra da un lato all’altro  della stessa, a 40 metri di distanza. Un paradosso, va da sé; ma ti vien da parlare a voce bassa appena entri.

Altri aspetti della perfetta vibrazione? Il principio della “scatola da scarpe”, cioè il rapporto tra le dimensioni: 1:1:2 -la lunghezza (m. 46) è doppia e passa  rispetto alla larghezza e all’altezza (m. 22, cadauna)-, oltre ai suddetti pannelli in gesso  e alle ben 50 camere di risonanza poste ai lati della sala.

C’è poi un volume supplementare di 6.000 metri cubi  la cui apertura è regolabile secondo le esigenze dei singoli eventi musicali.

Sul soffitto è appeso una sorta di “sottomarino volante”, il canopy (lett.: baldacchino), che aiuta i musicisti a sentirsi l’un l’altro in modo ottimale durante il concerto e quindi di : ZusammenMusizieren, cioè Far musica Insieme. Nella foto sotto è ben visibile.

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Tale struttura posta sopra il palco è un elemento riflettente composto da due parti e regolabile in altezza. Grazie ad esso i musicisti ricevono riflessioni dirette e il suono viene proiettato più rapidamente nella sala. Le diverse possibili configurazioni delle porte consentono di adattare l’acustica della sala all’opera e al genere musicale che deve essere rappresentato. Il soffitto acustico rappresenta un elemento di riflessione sonora regolabile che può assumere una funzione fonoassorbente: esso viene regolato in altezza a seconda del genere musicale che la sala deve ospitare.

 I nostri posti sono in prima galleria, non lontani dall’organo.

Ecco un’immagine del palco presa dall’alto, pur non molto significativa.

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Ben poche sono le seggiole vuote; il che significa che le oltre 1800 posizioni sono quasi tutte occupate.

Oggi, 11 agosto, è l’inaugurazione 2017 e gli appassionati vogliono esserci.

Si godranno questa esperienza meravigliosa fino a domenica 10 settembre. Potranno vedere e ascoltare dal vivo le più illustri orchestre -e solisti- del mondo. Non li nomino, va da sé, ma li lascio immaginare.

Preciso soltanto che la chiusura spetterà a Daniel Harding coi Wiener Philarmoniker: Debussy e Mahler.

Il Lucerne Festival è tra le più rilevanti rassegne di musica classica e ogni anno attira in città un pubblico sempre più numeroso ed entusiasta (oltre 120.000 presenze). D’altronde, anche l’offerta è andata via via crescendo in quantità (circa un centinaio di eventi), ma soprattutto in qualità.

Dal 1988 il Festival è arricchito dall’edizione di Pasqua, concentrato sulla musica sacra, con tanto di “artista in residenza”; nell’ultima edizione l’onore è toccato al magico direttore greco/russo Teodor Currentzis; mentre, a far tempo dal 1998, si è aggiunto il terzo appuntamento, il Festival Am Piano, dedicato agli strumenti a tastiera. Quest’anno esso si svolgerà dal 18 al 26 novembre e, per la prima volta, ci sarà anche Beatrice Rana, straordinaria giovane pianista pugliese. WOOW!!!

Dal 1999 capitano del veliero, cioè Direttore esecutivo ed artistico, è Michael -Master and Commander- Haefliger.

Solido uomo di Musica -è violinista-, figlio del tenore svizzero Ernst Haefliger, da quando è al timone Michael Haefliger non ne ha sbagliata una.

Nel 2003 ha fondato con Claudio Abbado la Lucerne Festival Orchestra; mentre insieme a Pierre Boulez ha dato vita ad un’Accademia per il sostegno e la valorizzazione dei giovani talenti.

Dopo la morte di Boulez, nel 2016, la direzione è stata assunta da Wolfgang Rihm.  Sempre coinvolte figure di primordine. “Nelle interpretazioni di Abbado c’è una luminosità interna che mi sembra un riflesso del suo carattere” così Rihm sul Maestro milanese.

Claudio Abbado aveva debuttato a Lucerna poco più che trentenne, nel lontano 1966, suscitando vasto consenso di pubblico e critica. Vi era poi ritornato a più riprese alla testa di diverse orchestre, come, nel 1998, i Berliner Philarmoniker, per l’inaugurazione del KKL. E da chi mai poteva essere inaugurato questo nuovo corso?

Il Maestro milanese, com’è noto, era già padre di numerose realtà musicali [9]; ora la nuova avventura rappresentava “la realizzazione di un Sogno” per lui che, reduce da un gravissimo intervento chirurgico, si rimetteva di nuovo in gioco, dopo aver lasciato la direzione della compagine berlinese (1989  / 2002) [10].

Il “Sogno” trae origine da quel concerto del lontano 25 agosto 1938, allorché, come sappiamo, Arturo Toscanini diresse un gruppo sceltissimo, cameristico, nel parco attorno a casa Wagner.

Abbado ha ben presente l’evento svoltosi a Tribschen.

Particolare significativo, biografico, ma non solo: era un ragazzino quando suonò Bach al pianoforte in casa Toscanini ricevendone gli elogi. “Avrai un grande avvenire” gli fu preconizzato dal Mago coi severi occhi azzurri.

Quel ricordo contribuisce a fargli plasmare un’Orchestra fantastica, che unisce elementi della prestigiosa Mahler Chamber Orchestra a solisti di fama internazionale, provenienti da ensembles diversi, come i Berliner Philarmoniker; ma non solo.

Ne cito solo alcuni: il violinista Kolja Blacher, i violisti Wolfram Christ e Diemut Poppen, i violoncellisti Natalia Gutman e Mario Brunello, il cornista Alessio Allegrini, il contrabbassista Alois Posch (già membro dei Wiener e conosciuto da Abbado fin dal 1978), i clarinettisti Alessandro Carbonare e Sabine Mayer (quest’ultima col suo Wind Ensemble), il timpanista Raymond Curfs, nonché gruppi musicali quali il Quartetto Alban Berg e il Quartetto Hagen.

Senza contare altri chiamati da Claudio Abbado nel corso degli anni, tra i quali giovani d’indiscusso talento, alcuni dei quali da me nominati in queste pagine.

Un “gruppone” di oltre cento componenti, capaci, grazie anzitutto al geniale direttore / concertatore, di fondersi in una sintesi mirabile tra la compattezza delle singole sezioni strumentali e gl’intensi “virtuosismi” dei solisti.

Il segreto? E’ l’idea-forza che ne è alla base: riunire musicisti delle più varie provenienze ed esperienze, felici di far musica insieme studiando e ascoltandosi l’un l’altro; una concezione tipica di coloro che sono abituati a far “Musica da camera”, dove necessariamente si studia e ci si ascolta a vicenda (oltre che ascoltare se stessi). Impostazione pure di alta valenza sociale.

Far musica insieme, si tratti di esser parte di un gruppo ristretto, di una vasta orchestra o di un coro di volontari, abitua all’ascolto dell’altro, alla responsabilità, alla condivisione, fondamenti tutti del vivere civile [11].

ZusammenMusizieren, cioè Fare Musica Insieme, espressione usata spesso dal Maestro.

Sembrerebbe un principio semplicissimo, se non banale; in realtà, a ben rifletterci, non lo è affatto.

Ma il costante approfondimento e confronto, con la guida -soprattutto tramite sguardo e mani- di chi sa valorizzarli poiché li conosce, lasciando, nello stesso tempo, a ciascuno notevole libertà, ha creato il prodigio. Te ne accorgi visionando i filmati relativi a sedute di prove, assai istruttivi per comprendere i segreti della “grande Orchestra che ha un’impostazione cameristica”.

 

L’anno successivo, nel 2004, nascerà  a Bologna, in minori dimensioni, ma fondata, modellata da Abbado sugli stessi principi, l’ Orchestra Mozart, sorta di “piccola Lucerna”, una realtà di eccellenza le cui complesse vicende seguo con trepidazione.

Un incanto lucernese rinnovatosi ogni volta fino all’estate 2013, agli ultimi due concerti di Claudio Abbado, il 17 e il 26 agosto, momenti drammatici e indimenticabili.

Pur tentata (e figuriamoci….), non ne parlo in modo diffuso perché non è questo il momento; ma chiunque desideri conoscere (e rievocare, se ha avuto la fortuna di viverle direttamente) quelle esperienze, attraverso filmati e testimonianze, e farle (o rifarle) proprie, ne riporterà un ricordo indimenticabile.

Del primo dei due concerti c’è il DVD, in grado di restituire, sia pure in modo parziale, ogni istante di commozione vissuta.

Dell’altro, o meglio del secondo dei due brani interpretati nell’occasione, cioè la Nona Sinfonia Incompiuta di Anton Bruckner (il primo, cioè l’Ottava Sinfonia Incompiuta di Franz Schubert, non è stato inserito, per motivi che non conosco) c’è il solo CD.

Se manca la visione diretta, in compenso il puro ascolto ti comunica, in modo ancor più nitido, se possibile, insieme alla coscienza dolorosa di un distacco ormai prossimo, la serena luminosità di un mondo trascendente, di un “oltre vita” del quale il Maestro aveva acquisito consapevolezza attraverso la sofferenza, secondo strade misteriose gelosamente custodite nel suo intimo.

Il Silenzio nel quale termina la Musica di Bruckner….. Il Silenzio del pubblico, alla fine.

Poi gli applausi interminabili; intensi come un abbraccio.

Lacrime. E’ stata l’ultima volta. Qualcuno l’aveva intuito e temuto. Altri non volevano accettare la realtà, di cui peraltro, ritengo, l’interessato era consapevole; anche se ha lottato, lottato fin quasi all’ultimo.

Resta, immagine emblematica, una tra le foto all’interno del CD. Mentre sul palco i musicisti si complimentano l’un l’altro, si abbracciano e scherzano  tra loro, Claudio Abbado esce di scena…

Lo vediamo di spalle; ma ho trovato pure un’altra immagine: quella qua sotto. E’ il congedo fisico definitivo da noi.

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Serio, sofferente  e tutto solo. Loro, i componenti dell’Orchestra, sono l’avvenire, qui sulla terra; lui va ad intraprendere il “viaggio misterioso”: carico di asperità nel dolore, quanto al primo tratto; poi, pian piano, ammantato di Luce.

Dopo che egli ci ha fisicamente lasciati, la Direzione dell’Orchestra è stata affidata a Riccardo Chailly, a sua volta milanese, nominato nel 2015 ed entrato in carica lo scorso anno.

Figura di grande prestigio, ottimo interprete, tra l’altro, di Mahler [12] e Direttore musicale della Scala; esattamente come il suo predecessore Abbado dal quale fu scelto, poco più che ventenne, come assistente [13].

Alla ricca compagine egli ha aggiunto 8 elementi della Filarmonica (della Scala). Tout se tient.

Chailly, insieme all’Orchestra di Lucerna, si esibisce, on tour,  nelle più rinomate sale da concerto del mondo.

Per la seconda parte del 2017 c’è un ricco carnet di appuntamenti in diversi Paesi, Cina e Giappone inclusi.

Io stessa assistetti, nel novembre 2015, ad un commovente concerto, in memoria di Claudio Abbado, a Ferrara (città che egli amava molto, ricambiato), tenuto dalla Lucerne Festival Orchestra -d’ora in poi, per brevità, LFO- diretta, in quell’occasione, da Andriss Nelsons; solista Martha Argerich.

Gli artisti “étoiles”, poi, sono una sorta portabandiera del nostro Festival, per la capacità di cercar vie sempre nuove nelle loro interpretazioni.

In questo 2017: Patricia Kopatchinskaja (moldava, violinista ben conosciuta da tempo) e Jay Campbell (statunitense, violoncellista, classe 1989). Campbell è il più giovane musicista della storia del Festival a conquistare a pieno merito questo titolo.

Ogni edizione è dedicata a un tema.

Per il 2017 è stato scelto IDENTITÄT (IDENTITA’)

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“Chi siamo? Che cosa facciamo? Dove andiamo”?

Queste le domande di fondo, cui la Musica, nelle sue svariate espressioni, cercherà di dare risposta.

Il punto di partenza è: “Ich bin, was ich höre”; che significa, all’incirca: Io sono ciò che ascolto.

Nei giorni scorsi avevo dato un’occhiata ai programmi, restando ammirata per la loro varietà e livello. Una meraviglia potersi godere non pretendo tutta la rassegna, ma almeno gli appuntamenti di maggiore rilievo.

Qualche esempio, fra i tanti, a proposito del focus 2017.

Il Direttore d’Orchestra britannico Sir John Eliot Gardiner, specialista di musica barocca (ma il suo repertorio si spinge ben oltre!) proporrà Claudio Monteverdi (Cremona, 1567 / Venezia 1643), il fondatore dell’opera, del quale si celebrano nel 2017 i 450 anni dalla nascita. Con Orfeo, Il ritorno di Ulisse in patria, L’incoronazione di Poppea verrà approfondito il tema delle origini della cultura occidentale.

Il composer in residence, l’olandese Michel van der Aa (47 anni), nato come tecnico del suono, in seguito divenuto compositore, si occuperà delle opere di teatro musicale, tra cui quelle cameristiche, come la sua Blank Out.

Con Gustav Mahler, Bela Bartòk, Dmitri Šostakovič e Sergej Prokof’ev saranno trattati autori la cui identità musicale è influenzata dall’ambiente: in primo piano le radici culturali, le società e i sistemi politici.

In un’unica serata sono in programma cinque concerti di pianoforte di Prokof’ev.

Il 27 agosto, poi, Jordi Savall (il celebre violoncellista, gambista, direttore e musicologo spagnolo) e il suo Ensemble ripercorreranno la tratta degli schiavi nell’epoca tra il XV e il XIX secolo; mentre con Idomeneo di Mozart, l’opera sulla guerra e la patria perduta -Idomeneo, il protagonista, viaggiò vent’anni per mare alla ricerca della sua Creta-, si potrà assistere ad un progetto operistico di integrazione coi rifugiati. Un gruppo di 25 persone, giovani e adulti, rifugiati, per un’intera giornata assisterà alle prove dei concerti e riferirà le proprie impressioni in un programma radiofonico trasmesso in diretta dall’Auditorium e sul sito web del Festival. Quel giorno si terrà un’autentica maratona musicale: 14 concerti in 12 ore! Vi rivolgerò il mio pensiero affettuoso.

Non ci saranno solo eventi all’interno del KKL. Davanti alla sede sarà possibile assistere per tutto il giorno a concerti di world music a cura di diversi ensembles [14].

E poi l’Asian Youh Orchestra alle prese con la Prima Sinfonia di Mahler, la cosiddetta Titano. Ad essa farà seguito un coro di profughi, che canteranno la loro storia.

Nonché l’Ensemble of Refugees, nato a Vienna poco tempo fa: musicisti provenienti dai Paesi più disparati si riuniranno in nome della Quarta Sinfonia di Beethoven. Evviva!!

Un percorso entusiasmante volto a rendere il Festival meno elitario, per così dire, in ottemperanza al principio dal quale trae vita la natura stessa della Musica, principio cui io, da modesta spettatrice con scarse competenze tecniche, credo molto: essa è fatta per essere ascoltata da tutti, senza preclusioni, in primo luogo sociali. Principio, a sua volta, molto semplice, ma non ancora compreso appieno da tanti che si dichiarano appassionati.

“La Musica” afferma con entusiasmo il Direttore Chailly in un’intervista di questi giorni “può mettere in comunicazione popoli diversi, aggregarli in un linguaggio comune. A ottobre con la Lucerne saremo in Giappone, Cina, Corea. Suoneremo Beethoven, Strauss e Stravinskij. E tutti capiranno, tutti si emozioneranno”.

Parole da incorniciare, queste del Maestro; le quali spiegano, tra l’altro, come la prima Arte che le dittature, giunte al potere, mettono al bando è proprio la Musica: essa è in grado di parlare al cuore prendendo per mano coloro che la vivono -o solo l’ascoltano- per accompagnarli lungo sentieri misteriosi: noti a lei, ma interdetti al Potere.

La Musica si rivolge a tutti, dunque, per sua vocazione, è democratica, supera i confini artificiosi e le pastoie burocratiche.

Quanto alla musica puramente sinfonica, la Lucerne Festival Orchestra offrirà tre programmi con il suo Direttore.

Il concerto di apertura di stasera -dedicato alla memoria del fondatore del Festival, Arturo Toscanini, del quale ricorre il 150° anniversario della nascita- prevede:

Richard Strauss (Monaco di Baviera, 1864/Garmish Pantenkirchen, 1949): Così parlò Zaratustra; Morte e Trasfigurazione; I tiri burloni di Till Eulenspiegel.

Esso verrà ripetuto domani, 12 agosto.

“Tre capolavori impegnativi dal punto di vista strumentale; un’occasione di alto virtuosismo strumentale” così Chailly ha definito i tre brani.

Nel secondo programma, via al Sogno di una notte di mezza estate di Felix Mendelssohn, e alla Sinfonia Manfred di Pëtr Il’ič Čajkovskij.

Infine: L’Ouverture dell’Egmont e la Sinfonia n. 8 di Ludwig van Beethoven a confronto con la Sagra della Primavera di Igor Stravinskij.

Traggo ispirazione da quanto è scritto sul sito web del Festival:

“Chi siamo? Come vogliamo essere? Attorno a queste domande sul tema dell’Identità Riccardo Chailly e la LFO aprono il Festival con un Autore che può dare molte risposte in proposito……”

Ecco Richard Strauss in un’immagine giovanile.

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Si comincia.

Nell’immensa aula non si sente davvero “volare una mosca”.

Nemmeno gl’immancabili colpi di tosse, quelli dei quali ne basta uno per far sobbalzare di sdegno certi, diciamo, musicofili…puristi, cioè emeriti rompiscatole.

Quale migliore inizio dei festeggiamenti del duo Kopatchinskaja /Campbell?

Due artisti – étoiles di nome e di fatto, intonatissimi al tema del Festival.

Anima moldava, antiche tradizioni di quelle terre…

Che spettacolo, la famiglia Kopatchinsky! Mamma Emilia al violino, papà Viktor al cimbalom (o salterio ungherese) e lei, Patricia. Nata nel 1977 a Chișinău, ha studiato composizione e violino a Vienna e Berna, dove risiede con marito -medico, ma violoncellista dilettante- e figlia.

Quando i genitori erano in tournée nei Paesi del blocco sovietico, la bambina era affidata ai nonni, che vivevano in un villaggio; ella ha così imparato tanta musica popolare del suo Paese che ha saputo pian piano coniugare coi classici nelle libere interpretazioni del suo strumento che suona da quando aveva sei anni. Stasera la nostra Patricia, sensuale abito rosso fuoco e regolamentari piedi scalzi (suona così da quando, una volta, col pensiero del tutto rivolto al concerto che avrebbe tenuto di lì a poco, lasciò per errore le scarpe in albergo! Ha tutta la  mia  solidarietà….), abbracciata al suo “Giovanni Francesco Pressenda” del 1834, dialoga musicalmente con Jay Campbell, giovanissimo e talentuoso violoncellista.

Terreno d’incontro, ben centrato sul concetto di Identità: duo per violino e violoncello di Zoltàn Kodaly: “Allegro serioso, ma non troppo”, dall’Opera 7.

Ah, Kodaly, Bela Bartok e le loro scorribande per la campagna ungherese alla ricerca delle musiche amate dai contadini, che essi tentavano poi di acchiappare con gli ingegnosi “cilindri di Edison”!

Un grato pensiero a Giacomo (Tesini), in procinto di entrare, a sua volta, in scena come violino secondo della LFO, cui debbo la conoscenza di quelle meraviglie storiche, in occasione del nostro recente soggiorno a Novacella.

Le due “Stelle” s’inchinano al pubblico per lasciar posto alla parte ufficiale.

Purtroppo anche questa occasione, che dovrebbe essere all’insegna della Musica e all’Armonia, è, in parte, banalizzata da tre interminabili interventi introduttivi -di autorità cittadine o simili- che si succedono sul palco. A ciascuno dei tre personaggi non parrà vero di esibirsi in un così prestigioso contesto.

Trascorre così oltre un’ora. Immedesimazione nel concerto e carica emotiva, ad un certo punto, rischiano di vanificarsi in me a causa di tale attesa, resa estenuante anche dalla scarsa conoscenza della lingua tedesca, in parte corretta da quella, più che discreta, di Mauro che funge un po’ da interprete.

Ah ecco, è finito.

Alcuni minuti di pausa, poi i diversi musicisti della Grande Orchestra cominciano a prendere posto.

Mi auguro che siano arrivati da poco e che non abbiano dovuto attendere tutto quel tempo fuori programma, un rischio per la loro capacità di concentrazione. Ma essi non temono nulla!

Entra per primo Johane Gonzales Seijas, venezuelano, cresciuto nel vivaio di El Sistema fondato da Josè Antonio Abreu, accompagnato dal suo “storico” contrabbasso; sembra che gli parli, comportati bene, mi raccomando! Ma non è solo, Johane: i contrabbassi sono in grande numero.

Da dietro le quinte, Wolfram Christ, grande prima viola, sta mettendo a punto il suo strumento, così la moglie e collega Tanja.

Ecco Raymond Curfs, la simpatia fatta timpanista.

La prima tromba, Reinhold Friedrich, sempre in vena di scherzi, ricco di umanità e talento, è concentratissimo; come gli altri, del resto.

Un pacifico esercito di oltre cento elementi, gli uomini in frack e le donne in abito scuro.

Passo in rassegna coloro che conosco personalmente. Le viole: Haim Steller e Danusha Waskiewicz; i violini: Giacomo Tesini, Verena Maria Fitz, Manuel Kastl e, poco dopo, scorgo i riccioli neri di Francesco Senese. Tutto a posto! I maghi del flauto: Chiara Tonelli, luminosa, e Jacques Zoon, dalla folta chioma bionda. Il clarinettista Alessandro Carbonare, incantevole interprete (anche) di musica klezmer, una garanzia; Guilhaume Santana e il suo fagotto rosso scuro.

E tanti volti noti, di alcuni dei quali non rammento il nome, ma che ho ben presenti.

I cornisti…. Il suonatore di tuba, il robusto Thomas Keller, è figura caratteristica.

Vi sono proprio tutti gli strumenti, a cominciare da due arpe, proseguendo con quelli meno usuali agli occhi di chi non ha familiarità con simili eventi: il clockenspiel, il triangolo, il tam tam, i piatti, il gong, la grancassa….

Insomma, se si considera che è presente pure il nobilissimo organo, qui c’è la Musica intera.

Il pianoforte entra di diritto coi solisti che, pure in questa edizione estiva, non mancheranno.

Infine, ciliegina!, i due primi violini: Raphael Christ e Gregory Ahss.

Ora ci sono proprio TUTTI.

Silenzio di rito.

Riccardo Chailly fa il suo ingresso: i musicisti si alzano in piedi ed egli s’inchina verso il pubblico che applaude con calore.

Una parte minore di esso è all’esterno, incurante della pioggerella ed attentissimo come chi siede in sala nelle prime file.

 

Concentrazione e Silenzio. Il Direttore si volge verso l’Orchestra….un accenno di sorriso gli appare sul volto. Perché? Perché dal Silenzio ecco nascere, e lui la sta aspettando, la Musica.

All’inizio impercettibile, poi via via sempre più robusta.

Curfs è potentissimo. Subito, tutti insieme gli ottoni.

E gli archi e l’Orchestra intera e Chailly che è un tutt’uno con lei. E il pubblico che trattiene il respiro.

Il sorgere del sole o la nascita di un mondo nuovo, la nuova era del Superuomo?

Il suono dell’organo, proprio a due passi da noi, lassù in cima, sembra sospeso nell’aria e stempera con  trascendente serenità questo inizio drammatico.

Così parlò Zarathustra, cioè Also sprach Zarathustra, poema sinfonico (op. 30) [15], composto da Strauss nel 1896 e rappresentato a Francoforte sul Meno nell’autunno dello stesso anno, diretto dall’Autore, è ispirato all’omonima opera poetico-filosofica di Friedrich Nietzsche, chiamata dal suo Autore anche: Un libro per tutti e per nessuno [16].

Riporto le parole di Richard Strauss: “Io non ho inteso scrivere una musica filosofica, né tradurre musicalmente l’opera di Nietzsche. Io ho voluto comunicare coi mezzi della musica un’idea dello sviluppo della razza umana, religioso e scientifico, conforme all’idea di Nietzsche sul superuomo”.

“Superuomo” il quale, aggiungo, facendo affidamento sulle proprie capacità, realizza le proprie idee, senza compromessi, superando tutti i confini.

Antico profeta persiano, Zarathustra [17] è l’espressione della saggezza dionisiaca, gioiosa accettazione della vita in ogni suo aspetto. Ritornato sulla terra infelice e lacerata, affronta una difficile esperienza tra gli uomini, deciso a redimerli e, soprattutto, a liberarli dalla morale cristiana.

E’ il tema della cosiddetta “Morte di Dio”, ripreso da più parti e a più riprese anche da pensatori meno autorevoli, il crollo di tutte le certezze, comprese quelle della fede ebraico/cristiana; anzi a cominciare proprio da esse.

Morte di Dio nel cuore e nella vita degli uomini.

Tale vuoto di valori è superato dalla scoperta della propria natura corporea e terrena, padrona di una forza creatrice che permette di sostituire ai vecchi doveri la propria volontà; principio collegato è quello dell’ “l’Eterno Ritorno”, caro alle filosofie orientali, in contrasto coi valori della nostra tradizione occidentale che prevede per l’universo un principio e una fine.

Va peraltro sottolineato che, a detta di autorevoli saggisti cattolici (come il Card. Gianfranco Ravasi, ad esempio), il noto anticristianesimo di Nietzsche non è tanto rivolto contro il messaggio di Cristo in sé, quanto alla sua applicazione concreta nell’ambito della Chiesa; cattolica o protestante, non importa.

Pur nella sua relativa brevità (mezz’ora circa), il poema sinfonico ha una struttura complessa, articolata in diversi movimenti; dunque ne risparmio l’analisi a chi ha la bontà di leggere queste pagine.

Il passo adottato da Direttore e Orchestra è elegante, in grado di dare una lettura ricca di sfumature, di cromatismi: bellissima.

Con momenti d’incanto, come, ad un certo punto, una sorta di dialogo tra il primo violino (Raphael Christ, direi) e la prima tromba (Reinhold Friedrich).

E le pennellate argentee dell’organo.

Il tutto valorizzato appieno dall’acustica della Sala.

Sono convinta che anche chi non condivide né la visione di Nietzsche, né quella ad essa adesiva di Strauss, ne arriva, per istinto, ad amare la Musica. Un brano splendido -come gli altri che seguiranno-, pieno di colore e di varietà di suoni.

Un Nietzsche, quello di Strauss, luminoso, verrebbe da dire, lontano dalla cupezza tragica che caratterizzò l’esistenza del filosofo.

Breve intervallo e pronti per la seconda parte.

Mi rendo conto ora che la commozione della “prima volta a Lucerna”, per paradosso, mi ha fatto dimenticare e scomparire dagli “schermi radar” mentali un giovane, ma già autorevole, membro dell’Orchestra, cui sono particolarmente affezionata.

Li ho ritrovati tutti, all’inizio e durante il concerto, ma a lui non ho pensato…Imperdonabile.

Ma la Musica mi ha stregata. Ora che stanno tutti rientrando, lo cerco con calma..….

Ma dov’è, accidenti? Possibile che la sua carriera di direttore, appena iniziata con successo, gl’impedisca di essere qui? Non sarebbe da lui!

E invece…. C’è, eccome! Lucas Macias Navarro, il…Caruso dell’oboe [18].

Saperle tutte riunite qui, queste care persone, mi dà una gioia indescrivibile.

Rientrano. In testa Giacomo, poi tutti gli altri.

Mettono, come di regola, a punto gli strumenti.

Provo ogni volta un’emozionante sentimento di attesa in quegli attimi di preparazione. C’è la consapevolezza condivisa da tutti che si sta costruendo qualcosa di importante.

Anche se magari capita che oggi suoni ciò che hai già suonato ieri, non conta.

La grande Musica è inesauribile, sul serio.

Entra il Direttore. Via!

Morte e Trasfigurazione, cioè Tod und Verklärung, (op. 24), è, a sua volta, un breve poema (durata: 25 minuti circa) per grande orchestra, la cui composizione Strauss iniziò nella tarda estate del 1888 per completarla nell’autunno dell’anno successivo. Prima esecuzione, al Festival di Eisenach, 21 giugno 1890, direzione dello stesso Autore; il quale diresse pure la prima apparizione a Londra, sette anni dopo, ad un concerto dedicato a Wagner con la locale Società Filarmonica.

L’opera è omaggio ad un amico, Friedrich Rosch.

Rappresenta la morte di un Artista: figura emblematica di chi si è sforzato di raggiungere le più alte vette del sapere e la cui anima deve trovare compimento “nell’eterno spazio cosmico”.

Essa si articola in quattro movimenti:

Largo: il malato prossimo alla morte. Archi e fiati discreti. Entriamo in punta di piedi nella stanza dove qualcuno giace, consapevole che quelli sono gli ultimi istanti. In una partitura è sempre racchiusa un’esistenza; tra quei fogli scritti in un linguaggio speciale, ci sono gioie, dolori, ansie, desideri….

Voci soffuse…

Allegro molto agitato: Poi, di colpo, irrompe la battaglia tra la vita e la morte…Nessuna tregua per il protagonista. Una Musica da rivivere; chiunque abbia assistito di persona alle sofferenze di una persona cara, oppure, da lontano, ne sia divenuto partecipe, prova un brivido di ricordo.

Meno mosso: mentre il protagonista è prossimo a morire, davanti a lui passa la vita trascorsa: l’innocenza dell’infanzia; le lotte nell’età adulta; il raggiungimento degli obiettivi prefissati; ma pure i tormenti. Moderato: Con la dolcezza degli archi e, a sottolineare, l’accompagnamento delle arpe, ecco, alla fine l’agognata Trasfigurazione nell’ “infinita grandezza del cielo”.

Piano, Piano, Pianissimo.

Un cielo, immagino, non trascendente, espressione di una Natura che sostituisce Dio creatore; visione che può forse -rilievo da profana- ricordare quella di Richard Wagner.

Ma poi tutto ciò ha valore? In una tale meraviglia, chi siamo noi (parlo per me, anzitutto) per sentenziare: qui, cioè in questo brano, in questa partitura, D-o c’è, oppure, al contrario, non c’è?

Silenzio. Anche il pubblico, incantato, lo vive.

Il volto di Riccardo Chailly ha un’espressione  commossa. Chiude gli occhi.

Molto diversa è la strada intrapresa col terzo poema sinfonico, op. 28.

Subito, a seguire.

I tiri burloni di Till Eulenspiegel (Till Eulenspiegel lustiche Streiche) fu composto tra il 1894 e il 1895, con prima assoluta a Colonia il 5 novembre 1895, per la direzione di Franz Wüllner, compositore e direttore d’orchestra tedesco.

Si snoda lungo sette movimenti, ma è assai rapido: la sua durata infatti è di circa un quarto d’ora.

E’ il racconto delle avventure e burle di un personaggio molto popolare in Germania, Till Eulenspiegel. Racconto la storia perché è oltremodo divertente, nella sua drammaticità, e mi ha sempre appassionato, fin dai tempi della scuola.

Till, secondo una leggenda diffusa oralmente nella Germania centrale, è un personaggio folcloristico, una sorta di bricconcello vissuto nella prima metà del XIV secolo, che amava andare a zonzo per i territori del Sacro Romano Impero, Italia e Paesi Bassi compresi.

Di lui, che la tradizione vuole vissuto e morto a Mölln (Schleswig Holstein) nel 1350,

till-1

till-2

si narrano gli scherzi con i quali si prendeva gioco di potenti e benpensanti.

Ma ahimé, a tirarla troppo, la corda, come dire, si spezza. E allora, le cose si mettono male per il Nostro…

La figura di Till colpì l’attenzione di Richard Strauss nel 1889 allorché assistette, in Germania, alla rappresentazione di Eulenspiegel, opera comica del musicista tedesco Cyrill Kistler (1848/1907). Quella fu la sua fonte ispiratrice.

Anzi, secondo qualcuno, con il suo poema, Strauss ha identificato, nel protagonista, se stesso impegnato a stupire pubblico e critica presentando un’immagine nuova e sorprendente di sé: si mette nei panni di un burlone per vendicarsi di chi, tempo prima, lo aveva fischiato in una precedente opera (Guntram, 1894).

Nel poema sinfonico i due temi iniziali che danno vita a Till sono rappresentati da corno e clarinetto: il primo interpreta una melodia cadenzata che precede fino al suo culmine per poi decrescere; il tema del clarinetto invece è più articolato perché ci accompagna Till nelle sue scorribande per le campagne e i villaggi.

L’oboe (ehm..) non è da meno.

Il protagonista arriva cavalcando nel bel mezzo di un mercato e ribalta le merci; gioca tiri birboni ai preti; prende di mira le ragazze (c’è un tema d’amore con violino e viola protagonisti). Ovviamente i personaggi più seriosi e importanti sono le vittime preferite.

Ma…..Tutto cambia di colpo: il tema è ora un’inesorabile marcia funebre. Till è stato catturato e condannato all’impiccagione con l’accusa nientemeno che di atti blasfemi. L’eroe però non demorde e cerca una via di salvezza facendo leva sul senso dell’umorismo del boia.

E ti pareva……Questi svolge il suo compito e tira la corda.

Il clarinetto suona ora il tema iniziale in modo strano, quasi falsato, ad indicare l’agonia di Till, mentre il pizzicare degli archi, sempre più lento, altro non è che il dondolio dell’impiccagione.

Quasi Silenzio. Silenzio.

Caro Maestro Chailly, davvero Il segreto è nelle pause, come Lei scrive nel Suo libro [19], che ho nella biblioteca della mia stanza, a casa, e che leggerò senz’altro, quando avrò un attimo di…pausa.

Sono lietissima di averLa incontrata, sia pure a distanza.

Ora il tema introduttivo ritorna, ad indicare che Till non può morire: la sua gioia e il suo comportamento scanzonato continuano a vivere al di là di lui.

Esplosione finale.

Divertimento, Felicità dell’Orchestra e del Direttore.

Applausi a scena aperta.

Come bis è offerto un brano dal tono dal sapore orientaleggiante e talora un po’ misterioso, come si addice al tema. Splendido. Si tratta di un’altra piccola meraviglia di Strauss: La danza dei sette veli dalla Salome. Anche qui è incredibile come il complesso tutto intero, cioè l’Orchestra, ben integrato, dia ampio spazio ai grandi solisti, come, nel presente brano, oboe e flauto.

Musica ricca di sorprese, mobilissima, cui danno contributo essenziale le arpe e quei piccoli strumenti, che non vedi, ma senti.

Ti sembra davvero di volare. Meritata ovazione.

C’è energia in sala, lo percepisci fin dalla prima nota.

Per questo è formativo ed emozionante assistere, quando è possibile, ai Concerti di persona.

Percorso ideale, non sempre realizzabile. Studiare un brano (o più) inquadrandolo dal punto di vista storico e, per quanto possibile per una profana, musicologico; assistere di persona alla sua interpretazione; indi, a qualche giorno di distanza, vedere on line (o ascoltare) i medesimi brani, per percepire con calma le sfumature che magari, per varie motivazioni, non hai colto nell’esperienza diretta.

I più dotati, anzitutto di tempo a disposizione, possono confrontare diverse (di più artisti) interpretazioni di uno stesso brano.

O magari confrontare, in un unico musicista, le interpretazioni nell’arco di un certo numero di anni, di un medesimo brano; che sono giocoforza differenti, poiché le esperienze della vita ti cambiano.

Il Direttore stringe ora la mano ai primi violini, alle prime viole, ad altri musicisti ed indica, con gesti significativi, tutti i componenti di questa compagine meravigliosa.

Vasta sì, ma, lo ripeto fino alla noia, in grado di esprimersi come un gruppo cameristico, secondo quell’insegnamento che è parte del suo DNA fin dall’inizio.

Ci si abbraccia.

E’ terminato il Concerto vero e proprio, ma non la Magia, che risuonerà a lungo in noi.

Il pubblico va lentamente scemando. Nel vasto atrio a pianterreno, sorrisi e commenti soddisfatti.

Neppure da prendere in considerazione l’ipotesi di cercare i membri della L.F.O., magari quelli più vicini, per  congratularsi.

A parte la costante difficoltà di realizzare questo desiderio a causa degl’intralci frapposti dal personale di “sicurezza”, immagino che tutti siano molto stanchi e desiderino solo restarsene in pace.

Devi riposarti, dopo la Musica: capita ad uno spettatore, figuriamoci ad un musicista!

Non mancheranno le occasioni, anche prossime. Ad esempio, a metà settembre, Giacomo suonerà con la formazione Spira Mirabilis, un’orchestra giovane -di cui è cofondatore, con Lorenza Borrani e Timoti Fregni, violinisti, salvo altri-, molto significativa.

Essa, costituita in gran largo numero da “prime parti” delle migliori orchestre d’Europa, ha come idea portante….. Non ne parlo per brevità, ma ci tornerò su appena possibile.

Prossimi impegni di Spira Mirabilis, impegnata con la Sinfonia n. 3, Eroica, in mi bemolle maggiore di Ludwig van Beethoven: 15 settembre, presso la palestra della Polisportiva Formiginese (Formigine, prospero comune in provincia di Modena, ha accolto con entusiasmo, nel 2007, questi musicisti “ senza casa, senza orchestra, senza direttore”); 17 settembre: presso…. il Teatro alla Scala di Milano, dove c’è grande attesa, va da sé. Questo come assaggio.

Ma c’è qualcos’altro che posso fare, qui a Lucerna.

Proprio al centro dell’atrio, ci sono diversi banchi di vendita.

Uno, il più fornito, è dedicato al fondatore della LFO. Questi, tra i tanti personaggi veri o di fantasia cui lo accosto a seconda delle circostanze, mi fa pensare stasera a Hugo Cabret, il giovanissimo protagonista dell’omonimo film di Martin Scorsese [20] : la magica Sala del KKl era -è- la sua “Stanza delle Meraviglie”.

Ti va di vivere un’avventura? Chiede col sorriso Claudio Abbado; come fa Hugo con la coetanea Isabelle.

Torniamo sulla terra.

Caspita….Nella fretta di venir qua, stasera non avevo pensato di prendere con me un trolley!

Calma! Mi limiterò ad acquistare un solo DVD, registrato dal vivo.

In omaggio al tema del Festival, che parla della varietà tra le culture, i diversi colori, le tante storie, scelgo: Lucerna, Festival di Pasqua 2010.

Abbado dirige l’Orchestra Giovanile Simon Bolivar del Venezuela, a lui tanto cara, interpretando brani di Prokov’ev, Tschaikovsky, Berg e Mozart.

La giovane talentuosa soprano tedesca Anna Prohaska delizia il pubblico con Lulu Suite di Alban Berg e l’aria di Pamina dal Flauto Magico: Ach, ich fühl’s (Ah, lo sento).

Uno stupendo bottino da gustare al ritorno.

Mi viene in mente quanto afferma Ezio Bosso (e va bene…Perdonatemi!), in un’intervista a Helmut Failoni apparsa sul Corriere della Sera, edizione di Bologna, il 6 novembre 2016: “…la musica ha tre punti principali: entrare dalla pancia, passare per il cuore, ma poi deve far muovere la testa. Dialogo, discussione, pensiero. Il ruolo della musica è anche questo. Non è solo intrattenimento“.

Rientriamo in albergo. Siamo silenziosi. Per non sciupare l’incanto di questa serata memorabile.  

12 AGOSTO SABATO

Ci svegliamo con un certo comodo. Serbo ancora in me la commozione per la Musica di Strauss, per la grande LFO così evocativa, per il tocco del Maestro Chailly tanto autorevole e caldo.

E per quella sala nella quale sono abituata a trovarmi, col cuore, decine di volte.

Stamattina il sole, pian piano, si concede a noi mortali. Almeno il Festival sarà onorato come merita anche dal punto di vista meteorologico.

Compiamo una passeggiata di congedo da questa città che, giorno dopo giorno, è diventata anche nostra. Domani, la partenza.

Come prima meta scegliamo la Jesuitenkirche.

Visitiamo, all’interno, una piccola, ma importante mostra di carattere storico, focalizzata sulle cosiddette reducciones, costituite nel XVI e XVII secolo in Equador, Bolivia e Paraguay.

Due brevissime note su che cosa sono; o meglio, che cosa esse sono state.

Sono state uno straordinario esempio di socialità e cultura civile, scomparso alcuni decenni prima della Rivoluzione Francese per…eccessiva ingenuità.

Chi le fondò, cioè i Gesuiti, peccò, per dirla in sintesi, di malinteso pacifismo (nulla a che vedere con le lucrose buffonate di oggi): cioè quello di pensare che gli abitanti di una città, o di un villaggio, potessero vivere in pace senza organizzarsi per sostenere una guerra, senza dotarsi di adeguati mezzi di difesa: essenzialmente diplomazia e armi.

Così esse furono spazzate via, complici i contrasti tra le due potenze coloniali -Spagna e Portogallo, in lotta tra loro, ma entrambe impegnate nello schiavismo, con l’indispensabile aiuto del loro “braccio operativo”, costituito dai bandeirantes, cioè gli schiavisti, i commercianti di uomini che ritenevano i Gesuiti responsabili del crollo dei loro vantaggiosi affari-.

Com’erano nate le reducciones? Quindici anni dopo la fondazione dell’Ordine da parte di Ignazio di Loyola (1534), i Gesuiti erano presenti nel Nuovo Mondo, impegnati nell’attività di evangelizzazione.

Si erano insediati in Brasile, colonia portoghese; in particolare a S. Salvador de Bahia, dove avevano fondato il loro primo collegio sudamericano; dovranno però lasciarlo due secoli dopo, perseguitati dalla autorità locali che li ritenevano d’intralcio alle loro attività di rapina contro le popolazioni locali.

Nel 1586, eccoli in Perù; poi, nel 1607, nel territorio dei Guaranì (attuali Paraguay, Bolivia orientale, Argentina settentrionale; Uruguay e Brasile del sud ovest, allora colonizzato dagli spagnoli).

La ragione del successo è semplice: i guaranì vivevano un’esistenza miserabile, con forzose coabitazioni (in capanne dal tetto di fogliame) tra membri dello stesso clan. Ciascun clan era spesso in lotta coi clan vicini; il che costringeva inevitabilmente i membri del gruppo sconfitto ad andarsene per lasciar posto ai vincitori.

I Gesuiti riuscirono a mettere d’accordo tra loro queste piccole comunità, dando a tutti la possibilità di vivere in una maniera più comoda, cioè ciascuno in casa propria, e di mangiare qualcosa di diverso da quello che era stato, fino ad allora, il loro unico cibo, la manioca.

La manioca, per dirla in breve, è una pianta della famiglia delle Euphorbiacee, originaria del Sudamerica. Ha una radice tuberizzata commestibile, ricca di amido. La specie è coltivata in gran parte delle regioni tropicali e subtropicali del mondo. La radice di manioca è la terza più importante fonte di carboidrati, senza glutine, nell’alimentazione umana nei Paesi tropicali, insieme all’igname e all’albero del pane; ed è pure una delle principali fonti di cibo per molte popolazioni africane.

Sorsero dunque, grazie ai Gesuiti, le reducciones, cioè villaggi perfettamente organizzati, anche dal punto di vista del lavoro, che non dovevano sottostare ai funzionari del re perché dipendenti solo dal vicerè.

Il tutto al prezzo -modesto- di una certa quantità di mate (la celebre bevanda nazionale argentina) o altra derrata da spedire a Madrid.

Reducciones o “Riduzioni” deriva dal verbo latino ducere (lett.: condurre). L’espressione significa la conversione o “conquista” dei fedeli, come sinonimo di persuadere e convertire.

E’ utilizzato in riferimento al popolo indio; ma non si trattò di volgare sfruttamento, come altrove è successo -e, in parte, succede, anche se non per responsabilità dei missionari-, ma del tentativo di valorizzare i territori e di proteggere giuridicamente (anzitutto contro le potenze iberiche) gli abitanti autoctoni.

Le vicende delle reducciones sono narrate in un film di grande successo, Mission (1986), diretto da Roland Joffè, interpretato da Robert De Niro e Jeremy Irons.

Oggi è sabato e non manca il tradizionale mercatino di prodotti contadini.

Esso si snoda lungo la sponda sinistra del lago a cominciare dal sagrato della Jesuitenkirche.

Ne approfittiamo per acquistare due vasetti di miele, cibo che prediligo (miele di fiori, il primo; miele di castagno, il secondo), nonché, altra mia passione, una pianta di erba cipollina, che si aggiungerà a Bologna al mio, non piccolo per la verità, orto di casa, distribuito su due dei nostri tre terrazzi.

Perfino la Schwanenplatz, col sole, rinasce assumendo un’aria più rassicurante.

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Nel pomeriggio approfittiamo della giornata che va ancora migliorando per compiere una bella passeggiata lungolago.

Col terzo tentativo è premiata la nostra costanza.

Finalmente siamo in grado di apprezzare questo luogo nella sua bellezza naturale; specie se ci allontaniamo dalle zone più massificate e commercializzate.

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Il clima sereno ci permette finalmente di vedere con una certa chiarezza le cime circostanti.

Il Pilatus è ancora un po’ corrucciato, data la sua altezza

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ma la Rigi già sorride

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Percorriamo la banchina, Quai, intitolata allo scultore lucernese (nonché pittore e disegnatore) Hans Erni, il quale visse ben 106 anni: dal 1909 al 2015!

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Sue sono alcune belle sculture in bronzo che riproducono forme classiche, come questi due giovani, un ragazzo e una ragazza, l’uno accanto all’altra, che sono pure occasione di gioco per un gruppo di bambini.

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Ma ve ne sono anche altre, forse pure di Autori diversi da Erni.

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Mentre contempliamo il panorama del lago con la città sullo sfondo

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una piccola barca a motore, pressoché silenziosa, ci passa quasi accanto, vicino alla riva.

Peccato non aver fatto in tempo a fotografarla.

Una modesta imbarcazione penso sia in grado di rendere una gita assai più suggestiva rispetto a quelle compiute con battelli di maggiori dimensioni.

E chi era il Generale Guisan, al quale è dedicato il Quai successivo?

general_guisan

Henri Guisan, nato in Francia -Mézièrs- nel 1874, morto in Svizzera -Pully- nel 1960, è stato un generale e militare svizzero, comandante in capo dell’esercito svizzero, dal 1939 al 1945.

Fu l’ideatore della dottrina militare del Ridotto Nazionale, consistente nel ripiegare l’esercito all’interno dell’arco alpino in caso di invasione (da parte della Germania di Hitler, ovviamente).

In concreto si trattava di un sistema di postazioni e di strategie di difesa per la salvaguardia dei confini svizzeri.

“Piuttosto morire che vivere da schiavi” questo motto era scritto su un’opera militare del Ridotto Nazionale (Schweizer Reduit, in tedesco; Réduit national, in francese; Reduit nazional, in romancio).

Il 25 luglio 1940 egli rivolse un fremente discorso ai comandanti di corpo e di unità e quindi a tutto il popolo svizzero. Parlò del pericolo in cui si trovava la Nazione, ormai circondata dalle potenze dell’Asse. Presentò il concetto di “Ridotto Nazionale” e invitò tutti quanti, militari e cittadini, alla resistenza incondizionata. Il discorso ebbe grande risonanza in Svizzera e all’estero.

La sua figura è amata in tutta la Confederazione.

Quando morì un notevole numero di quotidiani gli rese omaggio.

Così La Suisse, l’8 aprile 1960. “Egli incarnava il cittadino svizzero e, sopra ogni altra cosa, il cittadino-soldato. E’ stato l’uomo -e il capo- adeguato alla situazione in un periodo turbolento della nostra storia, allorché un sì gran numero di forze contrarie agiva all’interno del Paese”.

E La Sentinelle, in pari data: “ Quello che i lavoratori e i soldati apprezzavano del generale erano la sua semplicità e la sua naturalezza. La sua giustizia era la stessa per tutti. Grazie alle sue qualità umane, il generale Guisan aveva saputo creare uno spirito nuovo nei rapporti tra l’esercito e il popolo”. Assonanze israeliane, verrebbe da dire.

Siamo alla vigilia della partenza.

Passiamo accanto al KKL: tra poco la Lucerna Festival Orchestra rivivrà, con Direttore e pubblico, il fantastico evento di ieri sera.

Alla prossima, con tutto il cuore!

E un affettuoso saluto pure alla Cattedrale

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e al suo  orologio

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13 AGOSTO DOMENICA

Oggi si torna a casa.

Montagne, ancora un poco con noi. Il S. Gottardo che tanta parte ha avuto nella storia della Svizzera e, in particolare, di Lucerna.

L’incanto di valli e prati che non vorremmo mai lasciare. Poi, via via la pianura.

Brevi considerazioni finali su questa esperienza europea.

E’ stata importante, sotto tutti i punti di vista: storico, culturale, musicale, umano.

La gioia di trascorrere alcune giornate insieme a nostro figlio e alla sua cara fidanzata, nuova figlia per noi. Studiare, insieme a persone appassionate e sinceramente partecipi, la Storia dell’Europa a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale con digressioni fino all’inizio del secolo, conoscere la Musica di alcuni tra i Paesi più importanti; ripercorrere la nostra Storia europea in Svizzera, Alsazia, Lorena, Lussemburgo; conoscere finalmente la città di Lucerna e il suo rilevante Festival Musicale; assistere ad un memorabile Concerto: tutto questo è un bene prezioso.

Purtroppo le classi dirigenti europee -mi riferisco non solo ai politici-, complici l’indifferenza di parte, non secondaria, delle rispettive opinioni pubbliche, non si rivelano all’altezza delle dure sfide cui l’Occidente, ricco -pur con i suoi, anche gravissimi, errori- di Storia, Memoria, Umanità, Cultura è chiamato; in primo luogo la guerra sferrata ad esso dall’integralismo islamico, assai prima della fatidica data dell’11 settembre 2001.

Valori come Uguaglianza; Democrazia; Lotta senza quartiere all’Antisemitismo -sissignore, a cominciare da quello travestito da Antisionismo, ricordiamoci le parole pronunciate da Martin Luther King mezzo secolo fa. L’Antisemitismo è chiaro sintomo di una società malata.  Vale per l’Occidente, vale per le società musulmane, ricche (a modo loro), ma malate, malatissime, ma che possono andare avanti chissà quanto tempo, mummificate nel loro imperialismo-; Parità Uomo / Donna; Libertà di Coscienza sembrano -secondo tanti, troppi- scomodi orpelli da mettere in soffitta, in cambio di lucrosi affari petroliferi. Anche se si è tanto ipocriti da non dirlo apertamente.

Ma quei valori sono le fondamenta dell’Europa, così come la conosciamo.  Principi non negoziabili. Non amo la retorica; ma si tratta di valori per l’affermazione dei quali tanti hanno sacrificato le loro vite e che ci arricchiscono.

Gli stessi valori in cui credono persone -una ristretta minoranza, ma esistono, con un coraggio da leoni-, cresciute in ambiente musulmano, ma che ne rifiutano il totalitarismo. Anzi, si indignano per la nostra cinica indifferenza.

A queste persone l’Occidente europeo riserva per lo più le stesse annoiate spallucce, sfumanti talora in autentica ostilità, come quella dedicata, nei decenni passati, ai dissidenti dell’Impero sovietico.

Si preferisce il business coi carnefici alla tutela delle indomite vittime.

Secondo il Parlamento europeo, per parlare dei diritti delle donne, è meglio invitare una matura signora con un “glorioso” passato di terrorista, piuttosto che una coraggiosa giovane yazida o cristiana vittima degli orrori perpetrati dallo Stato islamico.

“Giornata Europea della Cultura Ebraica” celebrata ogni anno a Settembre. Signori del Parlamento europeo, Presidente in testa, che vi fate vanto -immagino- di questa iniziativa, la Giornata cioè, non siete un po’, come dire, schizoidi?

“Europea”, in che senso, scusate? In senso democratico e alto; oppure genocidario – affaristico e basso?  Decidetevi. Affinché la gente di buona volontà possa  regolarsi. E mandarvi tutti a casa, come meritate, per indegnità.

Ecco quanto scrive a proposito Giulio Meotti, alcuni giorni fa. Parole dure, ma vere: “Non c’è modo di vincere questa guerra con l’Islam radicale in simili condizioni. La democrazia ha abdicato al suo ruolo. Racconta oggi il Telegraph che gli insegnanti in Inghilterra hanno paura di parlare ai loro studenti dell’11 settembre per timore di apparire come ‘islamofobici’. Nei manuali scolastici italiani Israele è il bullo e l’aggressore. [Basta far due chiacchiere con qualche insegnante conformista o intrattenersi con una sedicente persona di cultura per rendersi conto di ciò]. In molte scuole della Francia non si insegnano più l’Olocausto, le crociate e il colonialismo. Li istruiamo a scandire bene la parola “Daech”, proibendo loro di pensare che abbia a che fare con l’Islam. Asini fanatizzati crescono in tutta Europa.”

Non è un mistero che, grazie al multiculturalismo europeo, le donne musulmane hanno perduto molti dei diritti che avrebbero avuto in Europa. Interessa alle nostre… femministe? Per carità! Hanno sempre vergognosamente snobbato le loro “sorelle” musulmane in lotta per la democrazia.

Di fatto il dannato multiculturalismo si fonda sulla legalizzazione di una società, per così dire, parallela, fondata sulla sharia, cioè sul rifiuto dei valori occidentali, in primo luogo quelli di uguaglianza e libertà (il caso della Francia è emblematico). Le classi dirigenti europee hanno chiuso gli occhi -e aperto il portafoglio- mentre i capi musulmani violavano -e violano- i diritti dei loro popoli. Interessa qualcuno? Ma siamo seri…

Si nascondono sotto il tappeto i problemi posti dall’immigrazione, spesso divenuta, da potenziale, preziosa risorsa, grave problema per la vita delle nostre società, grazie alle sciagurate, suicide politiche adottate in materia dai vari governi europei, nessuno escluso, punitive, lo si comprende facilmente, anche nei confronti di chi sul serio cerca in Europa una speranza di vita; né si vogliono impostare le scomode questioni sulle quali ci interpella una scienza esatta, la demografia, strettamente collegata al tema dell’immigrazione.

Un continente stanco, in preda alla rassegnazione, intestardito in un ostinato cupio dissolvi, rincantucciato fatalisticamente su se stesso, è destinato a morte certa per mancanza di fiducia nel Presente e nel Futuro.

Un continente dove, in nome di un’errata concezione di libertà di scelta, è ritenuto valore positivo il non voler avere figli; non nascondiamoci “dietro un filo d’erba” -tralascio  il resto dell’espressione, che qualunque ex studente universitario ha ben presente!-:  questo è l’andazzo generale da molti anni e la cosiddetta “crisi”  c’entra ben poco. C’entra casomai l’ostinata disattenzione verso le esigenze della famiglia e, in primo luogo, quelle delle lavoratrici. Guai fare anche solo un vago accenno alla necessità vitale (per le nostre società occidentali; e democratiche, almeno sulla carta) di incrementare le nascite! Come minimo ti tacciano di….fascismo (????), di impicciarti di questioni rigorosamente private, ecc., ecc. In Italia, tanto per fare un esempio, abbiamo perduto 100.000 nascite in dieci anni (un quinto del totale). E’ il trionfante e tronfio childless, l’ideologia dominante in Occidente, espressa nella childfree life, la beata  (sarebbe meglio sostituire alla prima “a” una “o”; ma tant’è) senza figli, riportata sui settimanali, non sai se complici o preoccupati con tanto di foto di una coppia spaparanzata al sole, felice e libera da mocciosi rompiballe.

 Inoltre -questo va detto- le misure pro natalità che, in altri Paesi europei esistono davvero e non solo sulla carta e/o da burletta come da noi, si sono rivelate inefficaci. In Germania, dove la rete welfare è assai diffusa, la demografia agonizza e le nascite sono riprese grazie agl’immigrati, per lo più di religione islamica. Tutto come da copione, con  conseguenze da far  ridere, se non fossero tragiche: si lavora per “il re  di Prussia”, a dirla in breve! Idem per la Spagna e per i Paesi del Nord Europa.

Tutto ciò significa che, prima di misure economiche e sociali, utilissime certo, ma che vengono dopo, è imprescindibile un cambiamento culturale. Nascite sì, nascite no -o  il meno possibile- è un fatto di cultura, di capacità di propiziare e sviluppare una cultura aperta e democratica, dei diritti (e dei doveri), dell’uguaglianza, e non fondata, come oggi, sullo strapotere del danaro che tutto appiattisce e distrugge.

Facciamo un confronto con lo Stato di Israele, un Paese non certo perfetto (e che di sicuro non si ritiene tale), ma felice di vivere, nonostante abbia il privilegio di godere dell’esecrazione mondiale -vai a vedere perché; si fa per dire…Lo sappiamo, invece, il motivo- e si trovi in guerra con acerrimi nemici assai prima della sua formale ricostituzione: guardiamo le case degli israeliani, piene di bambini; e ciò non è certo prerogativa dei religiosi. Madri che lavorano, grazie al cielo, e servizi sociali efficienti. Una vita del tutto diversa dalla nostra.

Qua siamo sempre…in affanno.

Altra questione, strettamente collegata. Rav. Giuseppe Laras, Presidente del Tribunale rabbinico del Centro – Nord Italia (già amico del Card. Carlo Maria Martini -soprannominato quest’ultimo per le sue posizioni progressiste, sempre lungimiranti, il “cardinale rosso” da alcuni imbecilli della carta stampata-, il quale, fin dal lontano 1990, aveva cercato, invano, di indurre, nei politici e nell’opinione pubblica, distratta allora come ora, una seria riflessione circa i problemi posti da una massiccia immigrazione islamica, tramite un intervento scritto, scomodo e dunque prontamente occultato, ma riemerso, ahiloro, di recente), Rav Laras, dicevo, scrive, tra l’altro [21]: “…una comprensione innocente delle religioni è falsa e pericolosa. La melassa, svicolante dal reale per una composizione emozionale dei conflitti sotto lo stendardo dell’incontro [fuor dai denti: la prevalente, deleteria politica vaticana attuale, che parla a vanvera di pace e accoglienza indiscriminata, che mette le religioni monoteiste sullo stesso piano; mentre tra il D-o ebraico cristiano e Allah dei musulmani non c’è nulla in comune: “Non è lo stesso D-o, non è lo stesso Uomo”, come afferma Carlo Panella], deve invitare a diffidenza. Tutto ciò non esclude il dialogo. Ma salvare il futuro, percorso non garantito, significa impegnarsi per concreti margini di sicurezza e stabilità a lungo corso”.

Chi, magari fischiettando sul fondamentalismo islamico, rifiuta, in buona sostanza, in nome di un ottuso malinteso sentimento di laicità, le radici ebraico/cristiane dell’Europa compie un grave errore di valutazione. Accettare e sostenere con coraggio tali radici non significa affatto, di per sé, professare la fede ebraica o quella cristiana: significa, a prescindere dalla religione (o non religione) professata, credere nei valori democratici, gli stessi che animarono i Padri Fondatori.

Indispensabili per garantire un’esistenza degna di questo nome, a noi e a chi ci seguirà.

NOTE

[1] Sébastien Le Prestre, poi Marchese di Vauban, 1633/1707, uno dei più grandi ingegneri militari di tutti i tempi e una delle maggiori figure nella Francia del Re Sole.

[2] Di Francesco Senese e di altri cari amici Musicisti scrivo, tra l’altro, in Orchestra Mozart Risuona – 6 Gennaio 2017 Si riaccende la Gioia su questo sito (Gennaio 2017).

[3] FUBINI Enrico, Musicisti ebrei nel mondo cristiano – La ricerca di una difficile identità, Ed. Giuntina Firenze, Collana Schulim Vogelmann, 2016, pp. 156

[4] ABBADO Claudio, La Musica scorre a Berlino Conversazione con Lidia Bramani, Ed. Il Saggiatore, Collana I grandi tascabili, Milano, Novembre 2015, pp. 152. V., a tale proposito, mio commento, su questo sito, Gennaio 2016.

[5] Op. cit., pp. 141/142.

[6] Scrittore e storico della Musica, Harvey Sachs (U.S.A., 1946) è autore delle biografie di Arturo Toscanini e Arthur Rubinstein, oltre che di Musica e Regime una storia della Musica in Italia durante il Ventennio fascista (il Saggiatore, 1995). Collabora con varie testate americane, britanniche e francesi, oltre che al supplemento culturale de il Sole 24 Ore. Nel 2003 è uscito, con Garzanti, l’epistolario del Maestro, Nel mio cuore troppo d’assoluto, lettere di Arturo Toscanini, curato da Sachs. E’ in corso la redazione di una nuova ed esaustiva biografia del musicista, che uscirà in Italia il prossimo anno, 2018.

[7] AA. VV. (a cura di Gastòn FOURNIER FACIO), Claudio Abbado Ascoltare il silenzio, Ed. Il Saggiatore, Milano, in collaborazione con la Fondazione Claudio Abbado, Dicembre 2015, pp. 332. V., in particolare, il capitolo dedicato all’Orchestra di Lucerna, pp. 177/201, e, all’interno di esso, su questo punto: pp. 177/178. Il volume è prezioso. Tra l’altro, il curatore riesce nell’intento di amalgamare benissimo tutti i contributi; diversi nel tempo e nello spazio, oltre che nella prospettiva. Peccato manchi, quasi del tutto, un capitolo sulla, per così dire, vita quotidiana. Senza scivolare nella banale anedottica, si  sarebbero potute raccogliere le testimonianze di musicisti, cresciuti col Maestro, mettendo in luce quale impronta egli ha lasciato nelle loro vite. Pensiamo a chi ha suonato con lui fin quasi dall’adolescenza -la flautista Chiara Tonelli, ad esempio; ma non è certo stata l’unica-. Chissà che qualche “ritrattista” di buona volontà, con esperienza sul campo,  non ci pensi in futuro.

[8] Per quanto riguarda, in specie, la Terza Sinfonia, cosiddetta Renana, di Robert Schumann v. il mio contributo Orchestra Mozart risuona. 6 gennaio 2017 Si riaccende la Gioia, cit.

[9] Tralascio altre iniziative in campo musicale, quali, ma sono solo alcuni esempi, Ferrara Musica -e creature collegate- o l’Accademia Gustav Mahler di Bolzano. Mi limito a riepilogare le Orchestre, ben note, nate grazie a lui: 1976 / 1978: European Community Youth Orchestra (ECYO o EUYO); 1981: Chamber Orchestra of Europe (COE); 1982: Filarmonica della Scala; 1986: Gustav Mahler Jugendorchester (GMJO); 1997: Mahler Chamber Orchestra (MCO); 2004: Orchestra Mozart; quest’ultima non fondata propriamente da Claudio Abbado, ma plasmata da lui secondo la sua visione artistica, musicale, sociale. Ogni formazione ha avuto, nella sua genesi, una precisa ragion d’essere, Orchestra Mozart inclusa.

[10] Vi tornerà ogni anno, quale acclamato Direttore ospite, nel mese di maggio; fino al 2013.

[11] Tutta la vita del Maestro Abbado, com’è noto, è stata improntata a questi principi, dai primi anni milanesi (concerti nelle fabbriche, prove gratuite aperte a studenti e anziani, ecc.) e in altre città italiane (ad es. Reggio Emilia), passando per le iniziative interdisciplinari a Vienna e Berlino, fino all’esperienza dell’Orchestra Mozart, il cui testimone -sul versante sociale- è stato raccolto dalla Associazione Mozart 14, con sede in Bologna, costituita a fine 2014 e presieduta dalla figlia di Claudio Abbado, Alessandra.

Inoltre, notevole è sempre stato per lui l’impegno a valorizzare i siti rilevanti da un punto di vista storico/culturale.  “Tutti sanno che il patrimonio artistico e culturale del nostro Paese è unico al mondo. Nonostante questo, la cultura in Italia continua a non ricoprire ruoli di primaria importanza nei programmi di chi governa. Spesso si sente dire che la cultura ‘non rende’, ma ritengo sia vero il contrario. Piuttosto che proclami o polemiche, preferiamo, assieme a tanti amici musicisti, continuare a portare la musica in luoghi storici di grande valore e bellezza. Questo per noi è il modo più efficace  di valorizzare questi luoghi di grande importanza architettonica  e di sostenere fortemente chi si adopera a salvaguardarli”. Così, a margine di un bellissimo concerto promosso nel 2010 dal FAI, tenuto con l’Orchestra  Mozart presso l’Abbazia di Morimondo (MI).

[12] Il debutto di Riccardo Chailly, quale Direttore del Festival di Lucerna, nell’agosto del 2016, è avvenuto con l’Ottava Sinfonia di Gustav Mahler, detta “dei Mille” per il vastissimo organico che richiede; l’unica che Abbado non diresse a Lucerna, forse perché essa non era nelle sue corde come le altre (e ciascuna di esse è legata ad uno o più  ricordi), o forse perché, questa mi pare l’ipotesi più plausibile, a causa dei problemi di salute che lo affliggevano, non fece in tempo. Chailly ha, in qualche modo, chiuso il cerchio. Come che sia, il suo è stato un tributo all’illustre Collega, carico di rispetto e affetto. Non certo un gesto di altezzoso distacco, per così dire, da chi lo aveva preceduto, come hanno insinuato a mezza bocca certi “grilli parlanti” che sovente popolano le sale da concerto, riconoscibili per discutibile competenza e, in più, armati di amore per il pettegolezzo e l’insinuazione gratuita, con un filo di sterile rimpianto vittimistico; la quale ultima caratteristica, al di là di tutto, non è affatto un omaggio al Maestro Abbado.

[13] Tutta da leggere, in proposito, l’intervista rilasciata da Chailly a Gastòn Fournier Facio in AA.VV. Claudio Abbado Ascoltare il silenzio, cit. (pp. 279/285).

[14] La world music (in italiano: musica del mondo) è un genere musicale di contaminazione fra elementi di musica popolare e musica tradizionale (folk ed etnica) sviluppato negli anni ottanta. Si tratta di progetti musicali che attingono a fonti culturali diverse tendendo a travalicare le classiche classificazioni e divisioni.   [15] Sono 10 i Poemi sinfonici composti da Richard Strauss.

[16] Prima edizione integrale: 1892; uscita, in precedenza, suddivisa in quattro parti, a far tempo dal 1883. V., tra le varie edizioni italiane, buona quella uscita con gli Oscar Mondadori nel 1992, con esaustiva introduzione. Perché l’insolito sottotitolo? Secondo il filosofo il testo obbliga il lettore a pensare, al di là di ogni tecnicismo profetico e poetico. Chi può leggerlo? Tutti. Chi può comprenderlo? Probabilmente nessuno. Ogni volta che si prende in mano questo libro, carico di misteri, esso appare diverso, sorprendente, quasi che il suo significato non si esaurisca mai.

[17] Zarathuštra, anche Zarathuštra Spitāma (translitterazione dall’ avestico  Zaraθuštra; in parsi زرتشت, Zartosht), chiamato anche Zoroastro o Zoroastre (dalla forma greca Ζωροάστρης, Zōroástrēs, di Zarathuštra) (IX-XVIII secolo a.C. -forse Bactra-, IX-XVIII secolo a.C.), è stato un profeta e mistico iranico, fondatore dello Zoroastrismo e autore delle cinque gāthā  raccolte nell’Avestā. Non si conosce con precisione il luogo e il periodo in cui egli è vissuto Gli studiosi collocano il personaggio storico Zarathuštra tra l’XI e il VII secolo a.C. Ipotesi più recenti, attestate da una verifica filologica e archeologica, ritengono tuttavia più plausibile una sua collocazione nell’Età del Bronzo, tra il XVIII e il XV secolo a.C. L’area geografica in cui si ritiene egli possa aver vissuto e predicato è compresa tra gli odierni Afghanistan e Turkmenistan.

[18] Di Lucas Macias Navarro parlo, anzitutto, nel mio commento OM Risuona – Ovvero il ritorno di Beniamino, su questo sito, Marzo 2016; nonché in Orchestra Mozart risuona. 6 gennaio 2017 Si riaccende la Gioia, cit.

[19] CHAILLY Riccardo, Il segreto è nelle pause – Conversazione sulla musica, Ed. Rizzoli, Milano, 2015, pp. 229.

[20] V. mio commento su questo sito, Marzo 2012.

[ 21] Articolo apparso su Nazione, Resto del Carlino, il Giorno del 21 agosto 2017.