(Titolo originale Yamin shel sheqet, 2003)
Trad. Anna Linda Callow, Ed. Giuntina, collana Israeliana, Marzo 2010, pp. 169
“Da dove vieni? Mi domandò….Non lo so, risposi. Lei capì subito e non chiese altro. Anch’io vengo da là, mi disse…Poi mi chiese cosa avessi intenzione di fare. Una famiglia, le dissi, voglio una famiglia”.
Bisogna ringraziare di cuore coloro che, in Israele, hanno dato vita al progetto Radici: affidare ad ogni studente degli istituti superiori una ricerca sulle origini della propria famiglia, affinché i giovani si impadroniscano della loro storia e memoria. Com’è ormai noto, fu grazie a questa circostanza -e alle insistenze della figlia, desiderosa di riportare un buon voto nell’elaborato- che, anni fa, Lizzie Doron iniziò l’indagine sulle vicende della madre Helena, sopravvissuta alla Shoah, indi approdata in Israele, morta nell’autunno 1990, della cui vita passata ella conosceva ben poco.
Tale indagine, col trascorrere dei mesi, la coinvolse al punto che Lizzie, dapprima chiese un periodo di congedo dall’Università, dov’era impegnata col dottorato in Scienze cognitive, indi si appassionò tanto da tradire, in definitiva, l’Accademia per la Letteratura.
Da tale “tradimento” nacquero Perché non sei venuta prima della guerra? e C’era una volta una famiglia, stupendi affreschi del complesso universo di coloro che hanno vissuto la tragedia della Shoah e ne sono ritornati; romanzi amati da pubblico e critica internazionali e gratificati con importanti riconoscimenti, tra i quali, solo in Italia lo scorso anno, il Premio Adei Wizo – Adelina Della Pergola e il Premio Alziator.
Ora, dopo i primi due, la Casa Editrice Giuntina pubblica la terza opera, Giornate tranquille, uscita in Israele nel 2003, dedicata, significativamente, a “Coloro di cui nessuno si ricorderà”.
La vicenda è raccontata in prima persona da Lèale (Lea), una donna di circa sessant’anni, capelli biondi, occhi azzurri, un’esistenza tragica. Sola al mondo, bambina magra “trasparente, pallida e contratta”, con le lunghe trecce, era stata, possiamo dire, trovata -alla fine della guerra- in un orfanotrofio della Polonia da Mordekhai, autentico sabra, recatosi in quel Paese alla ricerca di piccoli ebrei rimasti soli per condurli in Terra di Israele e iniziare una nuova vita. Egli, persona dai modi spicci con la quale per tutta la vita Lèale ha un difficile rapporto, la conduce in un kibbutz, dove crescerà e resterà diverso tempo, senza peraltro acquistare né serenità, né gioia. Queste le verranno donate verso i diciotto anni da Srulik, un uomo più anziano di lei di circa vent’anni, sarto, che aveva vissuto la tremenda esperienza del campo di concentramento. I due si innamorano, si sposano e si stabiliscono in città, a Tel Aviv, in un quartiere abitato per lo più da ex deportati. Dal matrimonio nasce un figlio, Eytan. Una famiglia vera, finalmente, questo era il desiderio più forte di Lèale.
Dopo solo quattro anni, però, Srulik, all’improvviso, muore, lasciando la moglie, poco più che ventenne, e il piccolo di quattro anni. Essi tuttavia non sono soli: a proteggerli c’è il parrucchiere Zaytshik -il “bello”, capelli neri curatissimi, occhi verdi, inappuntabile casacca bianca-, amico fraterno del defunto poiché i due erano stati insieme ad Auschwitz e ciò li aveva uniti per sempre.
Zaytshik propone a Lèale di lavorare con lui nel suo negozio; anzi le inventa una professione di tutto rispetto, quella di manicure. Pian piano la giovane vedova si innamora di quest’uomo affascinante, sorprendente, coltissimo, amante dei fiori e del verde, che gli ricordano la terra natale, la Romania. Zaytshik, con i suoi segreti e i suoi tormenti, primo tra tutti quello di non riuscire a cancellare quel numero blu tatuato sul braccio, nonostante i ripetuti tentativi. Il suo negozio è il centro pulsante del piccolo quartiere, un luogo in cui non si fanno domande, ma si ascolta, in silenzio. Dove è “molto facile sapere quello che sarebbe successo domani, ma impossibile conoscere ciò che era avvenuto ieri” e dove “non si piangeva mai su ciò che faceva male davvero”.
Attraverso il suo lavoro Lèale impara a conoscere le persone che frequentano quel luogo: se guardi le mani di qualcuno, ne interpreti la personalità, ne intuisci le sofferenze, come capita con Zila, dalla “bocca piena di parole mostruose”, ma in realtà piena di buone intenzioni, alla quale i nazisti avevano strappato le unghie e che di conseguenza non sopporta il manicure; Dorka, la sua, per così dire, “interfaccia”: in apparenza gentile, ma in realtà donna sputante veleno per carattere e non “perché avesse avuto chissà che Shoah terribile”; Ida, l’estetista, moglie di un calzolaio muto, alla quale sarebbe piaciuto tanto aprire un salone di bellezza a Parigi con Zaytshik! Ella però un giorno esprime un desiderio chiaro e netto: “Voglio morire!”. Tragica figura, Ida, che coltiva il sogno di ritrovare il suo cavallo, “ebreo”, alle porte del giardino di Eden. Quel cavallo, chiamato Zaddik (Giusto), era stato ucciso dai tedeschi, perché appartenuto al padre di lei, un ebreo.
E Kalman, il lattaio, con la dura punizione inflittagli dagli abitanti del quartiere, a causa dei suoi trascorsi…E Monsieur Résistence, così soprannominato perché aveva combattuto nella Resistenza francese, con moglie e figlia, Rita. Figure tragiche, quei tre, a cominciare dalla ragazza: un giorno ella manifesta l’intenzione di lasciare i genitori per iniziare una nuova vita in un kibbutz, ma prima esige dal parrucchiere un taglio cortissimo dei capelli, gli stupendi lunghi boccoli, che le avevano meritato il soprannome di Shirley Temple, la bimba prodigio del cinema americano in anni lontani. E la visione di quei mucchi di capelli tagliati in un angolo…quale ricordo tremendo riesce ad evocare in Zaytshik!
La persona alla quale Lèale è più legata, dopo Zaytshik, è Rosa Ornshteyn, conosciuta al suo arrivo con Srulik nel quartiere; a Rosa erano bastate poche parole per comprendere che anche quella giovane, alla ricerca di una famiglia, veniva da là. Rosa (sposata ad un uomo che si esprime solo in yiddish) diventa la sua più cara amica, una specie di madre adottiva: insegna a Lèale ad essere una brava padrona di casa, a cucinare il gefilte fish o il borsht, la conforta nei momenti di paura (“Rosa mi diede il coraggio di essere madre”), la educa con pazienza, osservando che si può imparare dalla vita e…dai libri. Le instilla l’amore per la lettura, così come farà col piccolo Eytan. E la ammaestra in molto altro. A non formulare domande dirette, tanto per cominciare. “Chi vuole sapere qualcosa su D-o, meydele [ragazza], può chiedere a me, e se qualcuno vuole sapere di me, la cosa migliore è che chieda a te”. Rosa, amata da tutti, è persona di grande sensibilità e cultura, tanto che di lei si diceva che, se non ci fosse stata la guerra -guai nominare direttamente la Shoah! Meglio parlare, in modo generico, di “guerra”-, ella sarebbe diventata una famosa scrittrice o un professore all’Università.
Rosa ha un conto in sospeso con l’Eterno, come talora capita a chi ha sofferto al punto di non riuscire a dare un significato al proprio dolore: “Non voglio che D-o si ricordi di me” suole affermare. E’ ideale anima gemella di un altro “angelo” del quartiere, il Dr. Wolmann, originario di Berlino, “prima” celebre e invidiato neurologo, con una bella famiglia; ora l’unico medico di cui ci si possa fidare in caso di malattie da Shoah, circondato dal rispetto di tutti: “Ogni volta che nel quartiere qualcuno stava male, chiamavano il medico della mutua per occuparsi della malattia e il Dottor Wolmann per occuparsi del malato”.
E’proprio Rosa, coadiuvata all’occorrenza dal dottore, la persona più vicina a Lèale quando, a causa di una grave malattia sopportata con coraggio e senza mai lamentarsi, anche Zaytshik muore. La perdita dell’uomo amato è insopportabile e Rosa mette in guardia l’amica dal lasciarsi andare ad un desiderio di morte che pare volerla travolgere.
Nel primo periodo di lutto la protagonista vive in una specie di stato confusionale, nel rammentare i ricordi di quel mondo che pulsava nel negozio: ricordi del parrucchiere e degli altri. Negli anni trascorsi aveva ascoltato tante storie, tanti segreti, ora non può fare a meno di raccontare tutto a se stessa e addirittura di scriverne spezzoni su un vecchio quaderno di scuola di Eytan. Il dolore le dà la forza di provare, proprio come aveva fatto Zaytshik, un’empatia profonda nei confronti di coloro che aveva incontrato ogni giorno; quelle persone per le quali la Shoah non diviene mai “Storia” poiché resterà sempre "Realtà quotidiana".
“….non chiesi mai che cosa (le) fosse accaduto. Ma ora, da quando è morto Zaytshik, mi vengono in mente tante vicende che pensavo di aver dimenticato da un pezzo”.
Il romanzo accompagna la donna nel racconto dei suoi ricordi, più lontani e più vicini, suoi e dei personaggi del quartiere. E’ questa la parte più intensa del libro: in un linguaggio tenero, delicato l’Autrice tratteggia bozzetti pieni di umanità, di vita vissuta, in quel mondo dove “ogni persona è una storia, una storia che nessuno vuole raccontare e nessuno vuole ascoltare”, venata dalla nostalgia del tempo che fu “prima” (della guerra!); storie nascoste, sì, ma con l’impulso irrefrenabile di uscire alla luce. Ricordi che, pian piano, inesorabili, si fanno strada, lottando col desiderio, da parte di lei, di negarsi agli altri, di sottrarsi alle loro non gradite premure; e di essere lasciata in pace, per annullarsi. “Avrei davvero voluto morire senza fare chiasso…”
La rispettosa, pur forzata, lontananza del prossimo, ad un certo punto, le dà la possibilità dunque di poter trascorrere, in solitudine, diverse "giornate tranquille”, espressione che dà il titolo all’opera, non priva peraltro di una certa ironia. Il linguaggio dell’anima di Helena, la mamma di Lizzie, fa capolino ad ogni pagina.
Poi c’è il tragico paradosso costituente l’infanzia della piccola Lèale; per un tempo difficilmente commensurabile ella aveva vissuto, in campagna, nascosta dentro una buca “nera nella terra”, da dove ogni notte una donna alta e magra -dalla voce inconfondibile, tuttora presente a decenni di distanza- la tirava fuori per darle da mangiare, bere e…farle pulire l’aia. La ragazzina a stento conosce il cognome della propria famiglia, Zucker forse, rammenta con fatica di essere stata affidata dai genitori ad una donna polacca (quella che le fa pulire il cortile, verosimilmente), con l’intesa che essi l’avrebbero ripresa dopo la guerra. Ma poi..nessuno si presentò. Privata di una vera infanzia -“d’estate, con un rametto disegnavo omini, animali…con le foglie che cadevano in autunno e con la paglia che copriva la fossa mi facevo dei gioielli…”-, ella venne condotta dalla donna in un orfanotrofio, dove aspettò e aspettò, fino all’arrivo di…..Mordekhai.
Poi c’è il tragico paradosso costituente l’infanzia della piccola Lèale; per un tempo difficilmente commensurabile ella aveva vissuto, in campagna, nascosta dentro una buca “nera nella terra”, da dove ogni notte una donna alta e magra -dalla voce inconfondibile, tuttora presente a decenni di distanza- la tirava fuori per darle da mangiare, bere e…farle pulire l’aia. La ragazzina a stento conosce il cognome della propria famiglia, Zucker forse, rammenta con fatica di essere stata affidata dai genitori ad una donna polacca (quella che le fa pulire il cortile, verosimilmente), con l’intesa che essi l’avrebbero ripresa dopo la guerra. Ma poi..nessuno si presentò. Privata di una vera infanzia -“d’estate, con un rametto disegnavo omini, animali…con le foglie che cadevano in autunno e con la paglia che copriva la fossa mi facevo dei gioielli…”-, ella venne condotta dalla donna in un orfanotrofio, dove aspettò e aspettò, fino all’arrivo di…..Mordekhai.
Tutta l’esistenza di Lèale è un confronto con la solitudine, ne è condizionato anche il rapporto col figlio Eytan. Questi, divenuto un uomo, vive e lavora a New York. Padre di due gemelli, è sposato con un’americana, Nancy, con la quale Lèale non lega affatto (come sovente capita, ella prova una certa gelosia nei confronti della nuora: “..non penso che per una donna estranea si possa rinunciare alla propria madre…”). Il rapporto Madre/Figlio è aspro, ma indistruttibile: ella ama Eytan in modo viscerale proprio perché, per quanto la riguarda, non ha avuto, se non per un periodo di tempo troppo breve, una vera famiglia ad insegnarle che c’è un tempo per gli abbracci e uno per…. il distacco.
Giornate tranquille dev’essere letto con calma, senza lasciarsi fuorviare dall’apparente semplicità espressiva, e ti dispiace quando l’hai terminato; vorresti che continuasse. Sono lieta per Lizzie che l’opera abbia ricevuto da Yad Vashem il Premio Buchman.
Il caldo trasporto nella narrazione si sposa ad una tenera ironia in alcuni passaggi in sé drammatici, come il terrore suscitato dall’apparizione improvvisa -in quel quartiere di Tel Aviv!- di un uomo sconosciuto, dai capelli biondi e dalla bella voce, ma di lingua tedesca, alla ricerca di….
Il romanzo tocca tutte le cifre espressive e gli aggettivi non bastano a definirlo: inatteso, a volte folle, in grado di immaginare per una vicenda finali diversi; non vi è infatti una vera e propria trama, né una conclusione. I ricordi, le esperienze della protagonista e delle persone a lei vicine si mescolano nella fatica e nel dolore quotidiani, in un alternarsi tra ansia di annientamento e insopprimibile desiderio di vita, di lancinanti ricordi e visioni della persona amata.
Questo è il segreto del suo fascino. Perché, come fa osservare un giorno Zaytshik a Lèale “Nel nostro mondo, meydele, non c’è veramente una verità”.
QUELLO CHE SEGUE E’ UN BREVE SCAMBIO DI MESSAGGI CON UN QUALIFICATO LETTORE, DAL QUALE HO SEMPRE TANTO DA IMPARARE
QUELLO CHE SEGUE E’ UN BREVE SCAMBIO DI MESSAGGI CON UN QUALIFICATO LETTORE, DAL QUALE HO SEMPRE TANTO DA IMPARARE
Cara Mara,
grazie, tanto per cominciare.
Ho letto Giornate tranquille, nello scorso week end, e dunque prima di leggere la tua recensione,
che me ne ha fatto apprezzare anche aspetti che mi erano sfuggiti. Sono d’accordo con te: è un libro bello,
più bello di quello che lo aveva preceduto (C’era una volta una famiglia), nel quale però figuravano già
tutti (o quasi) i personaggi di questo libro. C’era il dott. Wollman, il trio Durka, Gute e Tzila con la signora Polivoda
(c’è una qualche differenza nei nomi, probabilmente dovuta alla differenza dei traduttori); c’era Ida l’estetista;
c’era forse un preannuncio di questo libro (pag. 102: “a braccetto come due amanti arrivano poi Lea Bitterman che faceva la manicure
e Zeitchik il parrucchiere”).
Sembra quasi che Lizzie abbia piano piano registrato il suo stile. Ha cominciato con il folgorante
Perché non sei venuta prima della guerra, che comunque resta il mio preferito (per ora), nel quale ha
ricostruito questo quartiere di persone sopravvissute venute dal mondo di là, come una entità a sé,
distinta e non integrata nel nuovo stato di qua, ma da questo quasi inglobata e tenuta sotto una amorevole protezione
(e questa è una pagina bellissima nella fondazione dello stato di Israele).
E lo ha ricostruito guardandolo con i suoi occhi di bambina, che non capisce quello che capirà poi dopo.
Nel C’era una famiglia scrive in prima persona, ma con gli occhi dell’adulta: siamo nel momento della morte della madre
Forse non c’è più la freschezza delle immagini viste dalla bambina, ma un approccio problematico, doloroso,
al mondo della madre poco conosciuta in vita; c’è il tormento di capire, e di darne conto; insomma, era un libro più
difficile.
In Giornate tranquille c’è un cambio di passo: scrive in terza persona, fa parlare uno dei personaggi che avevano fatto capolino
nel libro precedente, dà uno spessore romanzesco al racconto, che è proprio bello. Certo, c’è sempre lei dietro, e c’è sempre la vita della madre,
ma c’è anche un racconto più piano, la ricostruzione di una vita, la vita di uno di quelli “di cui nessuno si ricorderà”
(come dice l’epigrafe del romanzo) e che viceversa simbolicamente accomuna tutti in un ricordo collettivo.
Voglio dirti che mi ha colpito molto è il capitolo 12: l’incontro fra madre e figlio, il loro rapporto conflittuale ma stretto,
il tentativo di spiegare e accettare le ragioni dell’uno e dell’altro. La madre che, come nelle storielle sulle madri ebree,
detesta la nuora che tiene il figlio “sotto la ciabatta” e vorrebbe averlo sempre sotto la sua ala. E’ invadente, e probabilmente
una convivenza con lei sarebbe insopportabile per la nuova famiglia, e tuttavia Lizzie la giustifica in modo struggente quando
le fa dire“se oggi mi dicessero che ho una madre all’altro capo della terra ci andrei anche a piedi”, e prima ci aveva raccontato in
che modo aveva perso non solo la madre, ma perfino la possibilità di sapere quale fosse la sua famiglia.
E il figlio che ha fatalmente dovuto andarsene e fare la sua strada, e l’ha fatta bene, e sa di non avere sbagliato, e tuttavia
soffre il distacco. Forse qui Lizzie ci ha messo un poco di sé e della sua storia.
Infine, aggiungo che ho trovato bello, struggente e misurato al tempo stesso, il breve racconto dell’ultimo
giorno in negozio (cap. 13).
Bene, grazie ancora, perché è grazie a te che ho conosciuta questa scrittrice.
Un caro saluto
Giuliano
Da: Mara [mailto:mara.1948@alice.it]
Inviato: venerdì 9 aprile 2010 11.45
A: BERTI ARNOALDI VELI Avv. Giuliano
Oggetto: Giornate tranquille
Inviato: venerdì 9 aprile 2010 11.45
A: BERTI ARNOALDI VELI Avv. Giuliano
Oggetto: Giornate tranquille
Caro Giuliano,
se, tempo professionale permettendo, sei interessato ad ascoltare dalla viva voce di Lizzie Doron una riflessione sul suo ultimo libro, puoi andare sul sito di Giuntina: www.giuntina.it
Sulla home page c’è la rubrica "In vetrina" con, tra gli altri, Kenaz e Doron (e vi sono pure due mie recensioni), mentre, in basso a destra, cliccando su Giuntina Magazine c’è uno speciale dedicato a Lizzie , con una sua breve, ma commossa, dichiarazione sull’importanza che, quel negozio, ha avuto nella sua vita di bambina.
A presto.
Mara