Ugo Mursia Editore S.p.A., Aprile 2010, pp. 474   €. 18

 
“Sono uno yekke, David, non dimenticarlo mai. Ho molti conti in sospeso con la Germania, la mia patria. E l’Einsatz è uno di questi: forse non li chiuderò mai tutti, ma questo sì. Stanne certo”.
 
Che cosa sarebbe accaduto se, nella decisiva battaglia di El Alamein dell’autunno 1942, avesse prevalso l’Asse anziché la Gran Bretagna? In tempi rapidissimi il Deutsches Afrika Korps di Erwin Rommel, sbaragliata l’Ottava Armata britannica comandata da Bernard Law Montgomery, da Alessandria d’Egitto sarebbe arrivato in Palestina e ciò avrebbe segnato la fine dello Yishuv, la Comunità ebraica colà residente. Una squadra della morte composta da membri delle SS, schierata in segreto ad Atene, il porto conquistato dall’Asse più vicino alla Palestina, era pronta ad entrare in azione, per ripetere ciò che i nazisti stavano facendo nell’Est Europa. Avvalendosi delle camere a gas mobili, già sperimentate con successo, e grazie all’aiuto dei nazionalisti arabi -il cui leader storico era la massima autorità arabo palestinese di allora, il Gran Muftì di Gerusalemme Mohammed Amin al- Husseini, buon amico e ospite di Adolf Hitler e Heirinch Himmler, nonché parente, per parte di madre, di Yasser Arafat; che volete, amici, il sangue non è acqua, lo sappiamo- i nazisti avrebbero sterminato gli odiatissimi ebrei, a cominciare da quelli che si erano rifugiati nella Terra dei Padri per sfuggire alla Shoah.
Restò segreto per decenni il piano diabolico del cosiddetto Einsatzgruppe (Unità d’azione) Egypt, elaborato probabilmente nel gennaio 1942 -alcuni mesi prima di El Alamein- nella villa fatale posta sul lago di Wannsee, vicino a Berlino, dove fu elaborata la “Soluzione finale”, lo sterminio del popolo ebraico, peraltro in pratica già in atto.
Nel 2006 in Germania è uscito un libro, scritto dagli storici Klaus Michael Mallman e Martin Cüppers, dal titolo (emblematico!) Tedeschi-Ebrei-Genocidio. L’Olocausto come storia e attualità, edito da Mallman e Jürgen Matthaeus, che tratta di tale piano di sterminio in Medio Oriente. Il volume -pubblicato negli Stati Uniti alcuni mesi fa, col contributo del Museo dell’Olocausto di Washington e il titolo Nazi Palestine. The Plans for the Extermination of the Jews in Palestine- rivela i rapporti tra Adolf Eichmann, l’attuatore della “Soluzione Finale” e Walter Rauff, l’ufficiale delle SS che aveva ideato e messo in pratica, in URSS e in Jugoslavia, occupate dai nazisti, le “camere a gas” mobili, montate su camion Opel o Mercedes.
A Rauff Hitler e Eichmann affidano, come detto, nel 1942 il comando dell’Einsatz per attuare l’operazione in Medio Oriente.
In che cosa consiste….l’operazione? Un commando composto di pochi (motivatissimi) uomini si sarebbe infiltrato oltre le linee nemiche con il preciso compito di preparare la via al meccanismo genocidario.
Ma i responsabili dello Yishuv, in primo luogo David Ben Gurion, capo dell’Agenzia Ebraica, e Itzhak Sadeh, il leader del Palmach (Plugot Hamahatz, Truppe scelte d’assalto della Haganah, cioè il futuro esercito dello Stato di Israele), ben consapevoli del tremendo rischio incombente, avevano ideato, nel caso dell’avverarsi della drammatica ipotesi, una contromossa tanto pazzesca, quanto, forse proprio per questa ragione, suscettibile di successo. Vedremo di che si tratta.
 
Massimo Lomonaco, professionalmente nato come giornalista Ansa, si è fatto conoscere al grande pubblico grazie a Nili (Ed. Mursia, 2002), un affascinante romanzo focalizzato sulla storia di un gruppo di giovani ebrei -aiutati da alcuni arabi-, i quali, riuniti in Terra di Israele attorno alla famiglia Aaronsohn, negli anni della Prima Guerra Mondiale, diede vita ad una cellula spionistica (denominata appunto Nili, un acronimo che in ebraico significa: l’Eterno di Israele non ti deluderà) in favore degl’Inglesi, che fu di notevole aiuto a questi ultimi nella vittoria contro l’Impero turco. Grazie all’Autore, le figure dei fratelli Sarah, Aaron, Rivkà e Alexander Aaronsohn, del padre Ephraim, degli amici Absalom Feinberg e Yosef Lishansky, sono diventate familiari anche agli appassionati nostrani della storia di Israele.
Nella sua seconda opera, La caccia di Salomon Klein, Massimo, scrittore sensibile ed appassionato, si cimenta con fatti rimasti nell’ombra, ma di notevole rilievo. Egli sceglie il Medio Oriente, o meglio la Palestina mandataria, come angolo di osservazione per eventi di portata mondiale, e si concentra sull’anno 1942 -a parte la scena di apertura, nel giugno 1938, presso il confine franco tedesco- quale snodo rilevante nella storia di un Paese, Israele appunto (ma non solo: quanto accade è notevole anche per Germania e Gran Bretagna), e nella vita di un uomo, Salomon Klein, il protagonista.
Questi è, per la verità, un personaggio di fantasia, ma simboleggia, in modo direi palpabile, tutte le persone di alto sentire morale e, in specie, l’Ebreo europeo -magari, come nel caso, niente affatto sionista-, perfettamente integrato nella società laica in cui è nato e vive, il quale, da un giorno all’altro, con l’avvento di un regime antisemita, si ritrova, in casa sua, straniero, anzi nemico. Cancellato di brutto, in quanto ebreo.
Berlinese di nascita, di famiglia non praticante (i Klein…”tedeschi di fede mosaica…”), quarantaduenne all’epoca della nostra storia, cresciuto nel quartiere centrale di Charlottenburg, Salomon aveva aderito alla Repubblica di Weimar e, prima ancora, combattuto giovanissimo nella Prima Guerra Mondiale, che era stata per lui una palestra di vita, poiché lì aveva interiorizzato il valore dell’uguaglianza tra gli uomini.
All’avvento del nazismo tutto il suo mondo era andato in frantumi, distrutto senza speranza; come Berlino, trasformatasi in breve da gaia città in un irriconoscibile ambiente buio, sempre più fanatizzato.
E i genitori, a cominciare dal padre Moritz? Li aveva colti, insieme alla paura consapevole, una disperazione irrimediabile: “Non aveva nessuno oltre a se stesso: il destino gli aveva appena portato via i genitori. Uccisi dal crepacuore per quei tempi infami. Rivide suo padre indossare come scudo agli insulti crescenti la sua vecchia divisa di ufficiale del Kaiser. Rivide sua madre chiusa a casa per la paura di uscire. La morte -che li aveva colti insieme-…era stata per loro un regalo della Provvidenza. La mattina stessa del funerale decise che non sarebbe stato a Berlino un giorno di più…”.
Dopo varie vicissitudini egli approda in quella Terra di Israele, dove, nonostante divenga dopo qualche tempo militante del Palmach e goda della stima dei membri più autorevoli dello Yishuv, si sente in definitiva un profugo, un estraneo: “…l’ebraico non era la sua lingua…ma soprattutto [egli] era lontano da quel mondo fatto di valori forti come ‘patria’, ‘nazione’. La stessa parola ‘futuro’ aveva per lui un valore incerto”.
Man mano che la narrazione procede emerge la personalità del protagonista: Salomon, al contrario di suo padre, incontrato una notte in un drammatico sogno -poi raccontato in lingua tedesca al risveglio- sente che non è giusto dimenticare il passato: l’oblio significherebbe uccidere una seconda volta il proprio vissuto; e con esso la famiglia, gli amati genitori, se stesso.
L’uomo ha un conto in sospeso con la Germania, un conto da saldare più importante della propria incolumità. Ed è proprio facendo leva in primo luogo su tale ansia di giustizia (oltre che sulla conoscenza della lingua tedesca) che David Ben Gurion affida a Salomon Klein il rischioso compito di dare la caccia al kommando di sei SS che, sotto la responsabilità del Col. Walter Rauff, per ora acquattato a El Alamein, e la guida diretta di Wolfgang Blucher, braccio destro del primo, si apprestano ad entrare in Palestina per compiere la loro missione criminale.
Queste le parole del Capo dell’Agenzia Ebraica rivolte a Salomon in una sorta di discorso di investitura: “Lei è un uomo che vuole continuare a vivere; dei molti che sono qui, alcuni sono in fuga dal passato, altri ci vivono ancora: lei non ha dimenticato chi è stato. Non so neppure se, quando finirà la follia che è scesa sul mondo, resterà con noi. E non mi interessa neanche. Lei vuole unire passato e presente, ritrovare il filo che ha smarrito. Non…so se ci riuscirà… Ma…sarà un nemico implacabile di chi nega il senso del passato per costruire un presente senza giustificazioni nella storia e nei sentimenti. Per questo ho scelto Lei”.
Nella difficile impresa il protagonista trova un aiuto prezioso in Noah, giovane donna (34 anni) ricca di fascino, avvocato nella vita civile. Persona di fiducia di Sadeh, ella è valido elemento della Haganah, incaricata, tra l’altro, di tenere i collegamenti coi Servizi Segreti inglesi. In più è la responsabile di KOL ISRAEL (Voce d’Israele), la radio clandestina della Haganah. E’ nata a Zikhron Yaacoov da genitori -pionieri romeni- che avevano fatto parte del Nili (un omaggio dell’Autore alle figure narrate nel primo romanzo); dunque è una sabra e non deve fare, contrariamente a Klein, i conti con un passato doloroso.
Ella ha passato un certo numero di anni presso una zia, al Cairo, dove, per contrappunto, pian piano era emersa la sua identità ebraica, anche alla luce di ciò che stava accadendo in Europa.
Col trascorrere del tempo si era andata formando in lei la consapevolezza della propria ebraicità non tanto come fatto religioso, ma come coscienza di essere parte di un popolo. Una consapevolezza che l’aveva indotta, ritornata a casa, ad entrare nella Haganah, ritenuta un mezzo “per avere una patria”. E conseguire la tanto agognata “normalità”. Illuminanti le sue parole in occasione del primo incontro con Salomon: “Quando finalmente avrò quella patria, io….potrò tornare ad essere solo un avvocato, una donna e a pregare, se vorrò, in sinagoga…”
Tra i due, pur in apparenza così diversi, nasce un’intesa immediata che si trasforma in un profondo rapporto d’amore.
Il sentimento di estraneità nei confronti di quella terra, un non luogo per Salomon, quel non so che di inadeguatezza, tutti questi stati d’animo fanno sì che, grazie a Noah, egli guardi pian piano con maggiore indulgenza le persone incontrate ogni giorno, percepite in precedenza da lui quali estranei nella loro terra.
Come scrivevo all’inizio, i responsabili dello Yishuv non attendono in modo fatalistico l’evolversi degli eventi. Conoscono alla perfezione ciò che sta accadendo in Europa ai loro correligionari.
Qual’è la sorpresa pronta per gli invasori?
Con la consulenza operativa dell’illustre architetto Yohanan Ratner essi mettono a punto il cosiddetto Piano del Nord, conosciuto dagl’Inglesi con il nome di Palestine Scheme, da attuarsi in caso di occupazione della Palestina da parte delle armate di Rommel. Un recinto fortificato, a forma di quadrilatero un po’ sbilenco, con il limite nord nella città di Basa, quello sud in Zikhron Yaacov, a est due linee fino a Safed e Tiberiade. All’interno tutta una serie di località fortificate, campi minati, batterie di cannoni, mitragliatrici e mezzi corazzati. La presenza di grotte e boschi in zona avrebbe favorito la creazione di nascondigli. Da Ramat David -al centro del territorio- e da Betzet a nord si sarebbero levati in volo gli aerei da difesa e attacco; aerei lasciati dai britannici, ma pilotati da ebrei.
Parola d’ordine: resistenza ad oltranza, in attesa del controattacco degli Alleati. Nel mezzo il Monte Carmelo e Haifa come unico accesso al mare.
In tutta segretezza ponti, strade e tunnel intorno all’area sarebbero stati minati, allo scopo di farli saltare in aria isolando così lo spazio all’interno del quale lo Yishuv avrebbe resistito.
Quanti abitanti della Comunità ebraica sarebbero stati coinvolti? Non più di 100.000 persone, compresi i residenti nella zona interessata, per un totale di meno di 15.000 combattenti.
L’insolita fortezza avrebbe costituito il punto di partenza per le azioni di sabotaggio del Palmach, in stretto contatto con gli infiltrati dietro le linee nemiche; completamente mimetizzati e “tedeschizzati” in quanto perfetti conoscitori della lingua.
Paradosso sul campo: da un lato, Salomon aveva il compito di cercare un gruppo di sei tedeschi mimetizzati con gli Ebrei, forti di un’ineccepibile conoscenza del mondo islamico e parlanti un perfetto ebraico: ai sei incursori, dopo accurate ricerche in diversi campi di concentramento, era stata fatta subito assumere l’identità di sei ignari deportati, ben presto uccisi per non lasciar traccia.
Dall’altro lato, in caso di invasione, altri uomini, ebrei, trasformati in tedeschi, avrebbero svolto azioni di sabotaggio per salvare lo Yishuv.
 
Massimo Lomonaco dà vita ad un romanzo complesso avvalendosi di uno stile sempre avvincente; di un linguaggio immediato e chiaro; di un ritmo incalzante.
Vi sono tutti gli ingredienti di una spy story costruita alla perfezione, complessa quel tanto da tenere l’attenzione sempre vigile: cerchi di prevedere le mosse successive, ma sei per lo più spiazzato dai colpi di scena, di cui uno -riguardante il protagonista- davvero magistrale.
La vicenda è intricatissima, ma con un impianto quanto mai solido, poiché l’A. non perde un istante il filo; il pallino, per così dire, è tenuto da lui sempre ben saldo in mano.
Certo, come precisa l’Autore, il romanzo, opera di fantasia, si ispira a fatti “realmente avvenuti e a persone esistite”; non è comunque sempre facile distinguere le figure storiche da quelle di fantasia, tanta è l’efficacia con la quale le une e le altre vengono presentate al lettore.
Per quanto mi riguarda ho rinvenuto e ordinato importanti tasselli storico/spionistici che mi mancavano (ad esempio: che cosa, per lungo tempo, rese imbattibile Erwin Rommel, pur disponendo il leggendario Feldmaresciallo di forze militari -non più di 100.000 uomini- inferiori per numero agli avversari?), ritrovato l’importanza dei “diabolici” strumenti di crittazione e decrittazione dei messaggi militari, come Ultra (al servizio degl’Inglesi) e soprattutto Enigma (l’inquietante meccanismo a cilindri rotanti, messo a punto dai Tedeschi per cifrare le proprie comunicazioni, già incontrato tra le pagine di Oltre le cenere di Monica Dogliani e Andrea Ronchetti) e conosciuto l’esistenza di figure che, ritengo, siano note solo agli esperti di strategia bellica.
Il contesto, però, non è quello di una storia di genere, cioè uno scenario in definitiva indifferente, buono per tutte le stagioni e i contesti di guerra, ma assume uno specifico rilievo etico/politico.
Nel complesso intreccio, si passa, per dialettica alternanza, dalla storia personale di un Uomo a quella di una Nazione; il racconto suscita in chi legge domande e problemi, quanto mai attuali nell’odierno quadro di politica internazionale.
A lettura terminata comprendo quindi bene perché Lomonaco mi abbia confessato quanto tenga a questo libro, forse ancor più che a Nili, vicenda affascinante, d’accordo, ma, di per sé, conclusa.
I personaggi storici sono dipinti con maestria: David Ben Gurion, in primo luogo, la cui arma migliore è rendere normali le imprese più disperate: i suoi ordini sono chiari, comprensibili, senza equivoci; una specie di….barriera frangiflutti “…pronto ad affrontare le peggiori tempeste a protezione del porto”.
O Itzhak Sadeh, vera “colonna” della Haganah, responsabile delle truppe d’élite, il Palmach, soprannominato Hazaken, il Vecchio, uomo di primordine e di grande polso; non per nulla, in anni precedenti, era stato un ufficiale dell’Armata Rossa. Una “miscela di intelligenza, devozione, arroganza. Un maledetto e consapevole rompiscatole. Ma certo un uomo che non conosceva ostacoli e che sapeva trarre il meglio da ognuno”.
Alla figura di Winston Churchill sono dedicate pagine magistrali: “Io bevo, fumo e sono in forma al duecento per cento” così l’epicureo corpulento Premier britannico ribatte da par suo al nuovo Comandante dell’Ottava Armata, Bernard Law Montgomery (Monty per i suoi soldati), il quale, assai incautamente, in occasione del loro primo incontro, aveva attribuito i propri successi militari ad una maniacale sobrietà (“Non bevo, non fumo e sono in forma al cento per cento”).
Senza dimenticare il capo dello MI 6, il controspionaggio inglese, Sir Stewart Menzies, al lavoro nella discreta villa a due piani, sede dell’organizzazione, posta a Bletchley Park, 50 miglia a nord est della capitale, nella tranquilla campagna inglese. E che cosa scopre un’attenta collaboratrice di Sir Menzies?
O Jasper Maskelyne, l’illusionista inglese, celebre per aver ideato, in favore del Servizio Segreto britannico, tecniche di mimetizzazione su larga scala che permisero agli Alleati di far fallire diverse operazioni belliche tedesche, tra le quali l’ “occultamento” del vero porto di Alessandria d’Egitto in favore di uno simile (in paglia, fango e legno), costruito qualche miglio più in là. Grazie a tali éscamotages i britannici misero in atto una serie di diversivi nei mesi precedenti la battaglia decisiva per sviare il comando dell’Asse, non solo in ordine al punto dell’attacco, ma anche sui tempi in cui esso sarebbe avvenuto. Tale operazione si chiamava in codice Operazione Bertram.
I sei esponenti delle SS sono tratteggiati con parlante efficacia: di ciascuno è composto un ritratto nel quale aspetto fisico e personalità divengono un tutt’uno. Lascio al lettore il piacere di seguirne le “imprese” istante dopo istante, comprese le prodezze di Walter Rauff. In una drammatica scena, alla fine del romanzo, lo vediamo allontanarsi in motocicletta dal suo “quartiere” di fortuna a Sidi Abd el Rahman, all’arrivo degl’Inglesi, dopo aver fatto saltare in aria tutto ciò che avrebbe potuto esser loro di una qualche utilità. Sappiamo che fu fortunato. Simon Wiesenthal, nonostante l’impegno profuso, non riuscì mai a catturarlo.
Morì tranquillo nel 1984 in Cile, protetto da un governo amico, questo zelante allievo di Reinhardt Heidrich e benché le brevi scene del suo funerale, visionabili su You Tube, non assomiglino alla lettera alle vecchie immagini delle esequie solenni del “maestro”, tuttavia osservare, davanti alla fossa, quegli uomini anziani col braccio alzato, nel tragicamente caratteristico saluto, suscita ancora oggi orrore e paura.
Altro aspetto fondamentale messo in luce dal romanzo sono i drammatici Contrasti.
In campo tedesco, tanto per cominciare.
Se il Feldmaresciallo Rommel non gradisce a El Alamein la presenza del Col. Rauff, esponente di punta delle SS, perché ne avverte l’indole traditrice, Wilhelm Canaris, il capo dell’Abwehr, il Servizio Segreto militare tedesco, prende coscienza degli orrori del nazismo antisemita e vede, nei trionfi hitleriani, la fine della Germania: una tragedia per lui, uomo del “Reich imperiale”.
Siamo circa due anni prima del celebre complotto del 20 luglio (1944), la cosiddetta Operation Walküre, diretta dal Col. Claus Schenk von Stauffenberg, ma si incominciano vedere con chiarezza i contorni di una vicenda che avrà sia Rommel che Canaris in essa tragicamente coinvolti, insieme a tanti altri.
Contrasti durissimi, in campo ebraico, tra Haganah (e la punta di diamante Palmach), pronta a collaborare, per il periodo della guerra, con la potenza mandataria britannica contro il nemico comune nazista, e la cosiddetta Banda Stern, il gruppo estremista, guidato, dopo l’uccisione -nel febbraio 1942, ad opera degl’Inglesi- del suo fondatore Avraham Stern, da Itzhak Shamir (nome di battaglia Michael), futuro Premier israeliano, il quale rifiuta ogni contatto con i Britannici e finisce per essere coinvolto in trame per lo meno rischiose.
Contrasti nel campo arabo/palestinese. Tra i sostenitori del sopracitato Gran Muftì e i moderati (pur sempre minoritari rispetto ai primi), come Raghib Nashashibi, ingegnere con laurea a Costantinopoli,tipo pragmatico; contrariamente al clan rivale degli Husseini, i Nashashibi non si augurano certo la vittoria nazista. Sindaco di Gerusalemme dal 1920 al 1934, Raghib è a favore di una collaborazione con le autorità mandatarie, pur avendo queste arrestato molti suoi uomini (!) e magari disposto anche ad un compromesso con gli Ebrei, se non per amore verso gli stessi, almeno perché comprende l’opportunità preziosa di una cooperazione.
Il tema del contrasto è ovviamente vissuto da Salomon, a cominciare dalle relazioni quotidiane.
George Montagu, maggiore dell’Intelligence britannica al Cairo, ad esempio, è uomo intelligente ed onesto, nonché osservatore molto acuto. Sincero ammiratore del protagonista, ne è anche amico e comprende fino in fondo il grave peso, anche psicologico, che questi deve sopportare.
Ma quando la guerra terminerà, quali saranno i rapporti tra i due uomini, allorché il problema dell’Indipendenza di Israele ritornerà attuale?
Anche i luoghi sono veri interpreti del romanzo: attraverso la lettura si compie un viaggio in Israele, nell’Israele del 1942, per ritrovare l’Israele di oggi.
Da Haifa, con le costruzioni tirate su in fretta per accogliere i profughi dall’Europa, dove il mare conta, “a differenza del resto del Paese”, a Bet Shéan, evocante sogni di pace vera in Ben Gurion, all’incredibile Sarona, la colonia tedesca, che ci parla dei tormenti di Thomas Lange.
Gerusalemme, il nucleo della Nazione, luce-ombre-misteri, bella nelle scene drammatiche all’Hotel King David, ma soprattutto nelle pagine finali della storia, al momento del redde rationem tra Salomon e i suoi nemici.
Ma sopra le altre località c’è Tel Aviv, il centro propulsore: la sua energia, mescolata alla paura della guerra, che ti induce sì a far scorta di cianuro, ma anche a intraprendere febbrilmente iniziative diverse, quasi che il domani fosse realtà sicura. O forse perché sai che per te potrebbe non esserci un domani.
Quel caldo umido, spesso soffocante, e quei meravigliosi tramonti sul lungomare: la scena dell’epilogo, dove si raccoglie il messaggio della vicenda, attraverso le riflessioni del protagonista: “ Se quella terra e quel popolo lo avevano scelto, allora sarebbero stati loro il futuro. Ricordò le parole di uno sconosciuto: per gli ebrei il passato è davanti agli uomini, il futuro è dietro…gli sembrava un concetto insensato. Non era così: aveva ragione lo sconosciuto. Non poteva che essere così. La sua anima era uscita dall’esilio…..Sorrise e si incamminò”.