“Non ti farai alcuna scultura né immagine qualsiasi di tutto quanto esiste in cielo al di sopra o in terra al di sotto o nelle acque al di sotto della terra” (Esodo   20, 4-5).
 
Senza dubbio una sfida il tema scelto quest’anno per la Giornata Europea della Cultura Ebraica: Arte ed Ebraismo, o meglio ARTEBRAISMO, come recita il bel logo dell’iniziativa.

L’appuntamento, giunto quest’anno all’undicesima edizione, vede coinvolti ben 28 Paesi europei e 62 città italiane, alcune delle quali autentici piccoli tesori riscoperti proprio in tale occasione. Capofila 2010-5770 è Livorno, scelta indovinata, tenuto conto dell’argomento: a tacer d’altro, Livorno ha dato i natali ad Amedeo Modigliani, il più rilevante artista ebreo del ‘900.
Il Museo Ebraico di Bologna, in collaborazione con la locale Comunità Ebraica, ha presentato domenica 5 mattina presso la propria sede, nella suggestiva cornice di Palazzo Pannolini, i diversi momenti della Giornata, scanditi da visite alla Sinagoga, all’ex Ghetto e ai luoghi ebraici della città -compreso ovviamente il Museo, rilevante per il suo carattere di istituzione in progress, un vero e proprio laboratorio di ricerca che sa avvalersi dei più avanzati strumenti tecnologici-.
Tali momenti alternano confronti culturali davanti agli scaffali della ricchissima Fiera del Libro Ebraico –posta nei locali del Museo, che ha visto la presenza di 60 case editrici e di oltre 1000 titoli, dove c’è l’opportunità, per i visitatori, di acquistare volumi avvalendosi di vantaggiosi sconti- a pause di convivialità, con assaggio e possibilità di acquisto di prodotti kasher, quali vini, dolcetti caratteristici e il tradizionale pane di Shabat, la Challa, dall’intensa simbologia nuziale.
Un breve cenno sul tema della Giornata, ben illustrato all’inizio dal Rabbino capo Alberto Sermoneta (il quale terrà pure una conferenza in materia nei prossimi giorni) e dal Vicepresidente della Comunità Daniele De Paz.
Il carattere fortemente iconoclasta dell’Ebraismo -fede monoteista che, al contrario delle religioni pagane, rifiuta di raffigurare il divino- nasce dal profondo rispetto per la realtà trascendente e dall’esigenza di amare e adorare il Signore nel Suo assoluto, e non tramite raffigurazioni, come tali relative e parziali. Dalla concezione dell’uomo creato ad “immagine e somiglianza di D-o” discende il divieto di rappresentazione scultorea, sia dell’essere umano che degli animali, quali creature del Signore a loro volta.
Occorre peraltro tener conto che sovente atteggiamenti e manifestazioni, pur considerate non aderenti alla normativa ebraica, sono state, nell’arco del tempo, accettate poiché aderenti alla cultura dell’epoca e del luogo in cui gli Ebrei stessi vivevano. La “Legge”, poi, è soggetta a numerose interpretazioni e discussioni -com’è d’uso nella tradizione-, a maggior ragione tenuto conto che, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera dei Romani (nel 70 e. v.), il popolo ebraico fu costretto alla dispersione e l’arte elaborata dallo stesso si trovò a coniugarsi e a mescolarsi con i caratteri espressivi dei popoli ospitanti, con arricchimento reciproco.
Quale conseguenza del divieto, l’arte si espresse, fin dalle origini, soprattutto negli oggetti dedicati al culto, negli arredi sacri delle sinagoghe, nell’illustrazione di manoscritti e contratti nuziali (ketubot). Del resto il termine ebraico Omanut (Arte) ha la stessa radice di Emunah (Fede): dunque l’Arte è il veicolo di comunicazione col Divino, attraverso di essa lo Spazio viene ordinato dal Tempo. Ciò è evidente proprio dopo la distruzione del Tempio, quando lo Spazio (in precedenza simboleggiato in primo luogo dal Tempio ) si temporalizza attraverso la scansione delle Feste, celebrate nelle Sinagoghe, divenute il centro della vita religiosa e sociale, autentici Musei vivi a cielo aperto, che sfidano gli sfregi loro inferti dal tempo e dagli uomini.
Quanto alla Pittura, profondamente condizionata dal divieto biblico (ma vi sono importanti eccezioni, pensiamo agli stupendi mosaici della Sinagoga di Bet Alpha in Israele), essa riuscì ad esprimersi in pieno all’epoca della Haskalah, l’Illuminismo ebraico.
Non dimentichiamo poi altre arti, come la Musica, “legittimata” nel secolo XIX e, successivamente, il Cinema e la Fotografia.
A tale ultimo proposito, proprio in occasione di questa Giornata, ha aperto i battenti l’Esposizione fotografica Il viaggio di Elia – Immagini dal mondo ebraico di MONIKA BULAJ.
L’Autrice, presente all’inaugurazione, nata a Varsavia nel 1966, residente a Trieste, è fotografa, scrittrice, antropologa. Collabora a diversi periodici italiani ed esteri; ha scritto alcuni volumi, tra i quali (2008) Genti di Dio, Viaggio nell’altra Europa e ottenuto numerosi riconoscimenti internazionali.
Monica è una giovane signora alta e sottile, con i capelli castani e occhi chiari mobilissimi. Vanta seri studi di filologia classica, storia, antropologia, con particolare riguardo al Sacro.

Ci ha guidati attraverso il percorso della Mostra, percorso che è pure un itinerario spirituale. In un italiano venato dal caratteristico, suggestivo accento dell’Est Europa, ci ha confidato che la sua passione per la spiritualità, per così dire, di confine nacque in anni lontani, nella casa di sua nonna, nata anch’ella a Varsavia, ma originaria di un piccolo paese vicino.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale un profondo silenzio, circa gli eventi accaduti, era sceso su quei luoghi, un immenso tragico vuoto era lì, immobile. La parola “Ebreo” veniva pronunciata sottovoce, in un misto di disprezzo e forse di terrore. Un tabù, insomma.
Invano la piccola Monika aveva posto alla nonna insistenti domande sul passato dopo che, per caso, una gelida giornata d’inverno -mentre giocava a scivolare lungo un pendio innevato-, si era imbattuta in una pietra sulla quale era incisa la misteriosa figura di un leone……
La nonna continuava a tacere.
Un giorno però, tanto tempo dopo, la nonna parlerà: il suo villaggio, prima dell’invasione tedesca, era a maggioranza ebraica, in un Paese a forte identità cattolica. Ella, non ebrea, ha confessato alla nipote di essere stata attratta dai complessi rituali che si svolgevano nella sinagoga; anzi talora, non vista, spiava le funzioni ed ammirava quei vetri dipinti che illustravano i versetti del Salmo 137 (“…ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre…”).
Anche grazie a tali racconti in Monika è andata crescendo una profonda partecipazione per la spiritualità delle minoranze: si tratti di Ebrei, di Cristiano-ortodossi (anch’essi minoranza in Polonia) o Musulmani, a cominciare dai mistici Sufi, nella costante ricerca di ciò che unisce i diversi gruppi e realtà umane, nel profondo rispetto per l’identità di ciascuno.
Tale attenzione le consente di inserirsi in pieno nei microcosmi oggetto del suo interesse, anche se ciò sovente può risultare difficile.
Uno degli ambiti studiati -verrebbe da dire “vissuti”- con maggiore intensità è quello ebraico, in specie hassidico, nelle sue variegate componenti. Il motivo di tale attrazione, confessa Monika, è che esso è alla base della cultura polacca, “delle leggende di mio Paese, della musica, della letteratura”. Il quartiere di Mea Shearim (le Cento Porte o i Cento Cancelli) in Gerusalemme è la perfetta riproduzione di un villaggio polacco, di uno Shtetl, con le viuzze e i cortili angusti, in cui tutto è consacrato alla preghiera.
L’esposizione che visitiamo, dopo Trieste e Otranto, approda a Bologna (vi resterà fino al 5 dicembre) per offrirci una selezione di stupende immagini riguardanti ciò che è rimasto di un mondo, fortemente decimato in primo luogo dai pogromi zaristi indi dalla Shoah:Polonia, Bielorussia, Lituania, Ucraina, Bucovina, Serbia….. Una sorta di topografia dell’esilio.
Ma la ricerca si spinge ancor più lontano, fino alle montagne del Caucaso, in Azerbaigian (Krasnaja Soboda) dove la nostra foto-antropologa incontra una minuscola comunità. Si tratta dei cosiddetti Ebrei di montagna, considerati dai hassidim alla stregua di…selvaggi, i quali si esprimono in un’antichissima lingua persiana (il tat) e poco lontano da una comunità musulmana sciita.
Non mancano assaggi di Turchia, Anatolia e perfino di Iran in cui, nel Paese retto dal regime più antisemita del mondo, sopravvivono Ebrei eroici.
Fino a concludersi in Israele dove l’Autrice ritrae, senza escluderne altri (i Samaritani di evangelica memoria, ad esempio, intenti a convenire presso il loro Monte Garizim per una grande celebrazione), un ambiente, quello ultraortodosso, assai diversificato nei suoi aspetti, ma accomunato nell’ostinata esclusione della donna dalla mistica esperienza del divino -ciò comporta prevedibili problemi per un Stato che ha, tra i propri valori portanti, laicità e parità sessuale-. Con incredibile pazienza e notevole inventiva, nell’eccezionale capacità di superare ostacoli in quanto donna, Monika è riuscita ad immortalare ineffabili momenti di incontro con la trascendenza. Come Kiryat Sefer (la Città del Libro), la cui immagine è il simbolo della Mostra, una sorta di fortezza costruita in mezzo al deserto e dedicata esclusivamente allo studio del Tamud.
 

O il grande raduno dei Hassidim sulla montagna a loro sacra, il Monte Meron, in Galilea, luogo sacro pure ai musulmani. L’immensa folla fa largo intorno all’uomo giovane che danza solitario al suono di un clarinetto, una sorta di “farfalla impazzita intorno ad una fiamma”.
Il coinvolgimento di tutto l’essere, a cominciare dal corpo, nell’accompagnare la preghiera, i gesti ripetuti e ripetuti portano, secondo queste dottrine spirituali, alla pace interiore, in unione con D-o e in armonia con il creato. La capriola fatta all’improvviso da uno dei fedeli non è tanto un virtuosismo ginnico, quanto un modo pittoresco per cacciare il più lontano possibile i peccati.
Inevitabile il parallelo con l’Esicasmo, la dottrina e pratica ascetica, ancora oggi amata all’interno della Chiesa ortodossa, diffusa tra i monaci dell’Oriente cristiano fin dai tempi dei Padri del deserto (IV secolo), consistente nella ripetizione incessante di una stessa formula di preghiera, secondo il ritmo del respiro.
 
Il pomeriggio…mistico trova compimento nel Concerto con cui si conclude la Giornata.
Nell’elegante cortile porticato di Palazzo Pannolini è di scena The Peace Ensemble, piccolo, valente gruppo guidato da Amit Arieli, giovane rilevante artista del clarinetto, nato in Israele, apprezzato in tutto il mondo, che avevo incontrato nell’estate 2008 in occasione dell’iniziativa, curata dal Museo Ebraico in tema di Letteratura israeliana, Sotto la Stella di Davide.
Il progetto The Peace Ensemble scaturisce dall’incontro tra artisti provenienti da diversi ambienti culturali e religiosi, impegnati da tempo nella diffusione della musica quale strumento di pace, poiché il suo linguaggio universale può unificare i popoli divisi da frontiere, odio, guerre e inganni politici.
Le musiche proposte oggi sono una suggestiva reinterpretazione di temi di provenienza mediorientale, di canti balcanici e dell’Est Europa, di armonie ispirate alle diverse tradizioni liturgiche.
 

Le melodie nordafricane si alternano a canti nostalgici del mondo perduto degli Shtetlach polacchi…..Eshet è un brano che si richiama alla tradizione klezmer: il clarinetto di Amit balla sempre più su e in tutte le direzioni, il ritmo è in sintonia coi movimenti del corpo e dello spirito.
Siamo all’aperto e, ogni tanto, un’improvvida pioggerellina vorrebbe far valere i propri diritti, ma noi, pubblico appassionato, non gliela diamo vinta e restiamo imperterriti seduti ai nostri posti.
Mentre la stupenda voce, con lievi venature metalliche, di Amira Garine ci cattura con un canto in “ladino” -la lingua degli Ebrei sefarditi che riecheggia tanto lo spagnolo- una coppia di residenti nel palazzo in maglietta/sandali/pantaloncini/valigie con ruote rientra dalle ferie e passa proprio davanti ai musicisti, seguita dalla colf filippina con in braccio il cagnolino di casa.
Un quadretto, pur stonato, nel quadretto. Ma Amira, Amit e i loro compagni non si scompongono.
Non possono certo sciuparsi nelle banalità quotidiane né il dolcissimo inno yemenita che celebra le meraviglie della regina Hadassa (Ester) né l’intensità drammatica di Avinu Malkenu (Nostro Padre, Nostro Re), la preghiera recitata e cantata nei giorni “terribili”di Yom Kippur.
La gioia senza confini esplode infine nella filastrocca ladina di Hanukkah: Ocho Kandelikas, dal significato intuitivo. Viene richiesto il bis.

 
Una, Dos, Tres……Ocho Kandelikas para mi accompagna tutti noi felici, dopo che abbiamo aperto gli ombrelli e indossato i k way. Ma quest’ultimo particolare, nemmeno per noi, ha importanza.
 
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