Dal 1997 Festivaletteratura a Mantova è un appuntamento fisso in questo ambrato scorcio di fine estate: cinque giorni davvero pieni, ricchi di incontri con scrittori, di manifestazioni diverse, concerti, letture. Un’iniziativa nata dalla sensibilità e lungimiranza di un gruppo di persone di cultura ed operatori economici e finanziari, che riscuote un crescente successo ad ogni edizione, poiché in grado di richiamare non solo gli appassionati di letteratura, ma anche coloro che, curiosi del bello, amano assistere a spettacoli e incontrare Autori di tutto il mondo -celebrati o agli esordi- passeggiando per le vie di una città il cui centro storico è pressoché interamente pedonalizzato.

Qui la fanno da padrone ecologiche biciclette, anziché automobili o fetidi, nonché incivili, motocicli, con dimostrato beneficio vuoi per la salute degli abitanti e dei monumenti, vuoi anche per le casse dei locali commercianti, occupati nel far conoscere al folto pubblico i loro prodotti, praticando, in queste giornate, congrui sconti a vantaggio di tutti. Ciò in controtendenza con il luogo comune espresso -altrove, in ottemperanza ad una comoda “diseducazione civica”- dai paladini di un  preteso, pur non ben chiaro nel significato e nei contenuti, “diritto alla mobilità” .
Un’atmosfera di festa, insomma, cui contribuiscono in primo luogo i numerosi volontari dell’Associazione Filofestival (molti dei quali giovanissimi), riconoscibili dalle magliette color azzurro carico portanti il logo ironico “Gatta ci cova”. Ma io so che non saranno un inganno gli appuntamenti con i due scrittori israeliani per i quali mi sono concessa poco più di ventiquattrore di libertà: Lizzie Doron, nel pomeriggio di Giovedì 9 settembre e Amos Oz, venerdi 10 mattina; entrambi presso il cinema/teatro Ariston.
Poco dopo la nostra entrata in sala ecco Lizzie. E’ più alta rispetto a come la ricordavo in occasione del nostro ultimo incontro a Firenze nell’ottobre 2009, spigliata e sorridente, assai elegante nel completo pantalone nero, ravvivato da una lunga sciarpa a grandi quadri bianchi e grigio scuri. L’accompagna il marito, un bel signore alto come lei, con folti capelli argentei: si siede in prima fila a godersi il successo della consorte. Saluto Lizzie, che si ricorda di me e della nostra ultima chiacchierata fiorentina. Accanto c’è Marina Astrologo, la valente interprete dall’inglese; impegnatissima tra una conversazione e l’altra, tra un teatro moderno e il cortile di un palazzo rinascimentale, ma con l’aria distesa e divertita di chi si trova ad una scampagnata tra amici.
Un paio di ragazze si avvicinano alla scrittrice per la dedica sui libri che le porgono: caratteri latini o ebraici? Domanda lei cordiale. Arriva Lella Costa, la brava attrice e regista teatrale, che condurrà l’incontro. Prego la foto. Scatti, abbracci, risate e battute in inglese.
Silenzio in sala.

Lella parte dalla pagina introduttiva di C’era una volta una famiglia, la seconda opera di Doron, pubblicata in Italia, nel 2009, da Giuntina,  come del resto le altre: “All’inizio degli anni cinquanta, nello Stato di Israele nacque un nuovo paese, il paese di qua. In questo paese vive un popolo estraneo che viene dalla terra di là….E quella terra, che con i suoi morti giace moribonda….risuscitò: per sette giorni tornò di nuovo in vita un paese sconosciuto, un paese che mi è stato patria e famiglia…”. La lettura è intensissima, di rado ho udito un’interpretazione così forte. E pensare che Lella si definisce, modestamente, soubrette, forse perché conduce anche spettacoli di cabaret. Mamma mia, è in grado di dar lezioni a tanti/e zeppi di alterigia (pseudo) intellettuale, i numerosi campioni senza valore che affollano inesorabili i nostri salotti televisivi.
Lizzie, grazie alla traduzione simultanea di Marina, ne è colpita; anzi sembra, all’inizio, che quasi non si riconosca in quelle parole. E’ comprensibile: quando scrivi, entri in una sorta di trance, in uno stato di magia dal quale difficilmente ti distacchi; ma, una volta tornata tra…i comuni mortali, fatichi poi a ritrovare in te la traccia di quel cammino che ti aveva condotta all’incantesimo.
Ma si tratta solo di un attimo. Quella famiglia amata, idealizzata, negata, quel dolore che è una pena infinita, è il mio dolore di bambina, confessa l’Autrice. Da adulta ho compreso, e comprendo, gli incubi dei miei genitori, e in primo luogo di Helena, mia madre, i silenzi su quanto era accaduto, sulla Shoah, ma dentro di me sono pure, ancora oggi, la piccola alla ricerca di una vita migliore, colei alla quale una vera famiglia è mancata.
Lizzie è profondamente commossa, alterna al sorriso malcelate lacrime.
“Avrei voluto sotterrare quei ricordi che lasciava intravvedere mia madre con le sue frasi emblematiche (al mondo ci sono persone buone, persone cattive e…persone che sono state ad Auschwitz, talora ripeteva). Io sono cresciuta in un ambiente nel quale ciascuno è una storia, una storia non raccontata dall’interessato, ma da un’altra persona. E le vicende di quest’ultima sono magari narrate da altri” accenna con riferimento alle tematiche dei suoi romanzi, e, in specie, all’ultima “fatica”, uscita nel nostro Paese alcuni mesi fa, Giornate tranquille, altro emozionante gioiello letterario.
“Da bambina” prosegue “non ho mai letto libri sulla Shoah, né visto film sul tema. Mi ero fabbricata una mia autobiografia: i miei genitori, raccontavo, sono nati in Israele. Poi, da adulta, con la mia vita da tempo impostata, è arrivato il progetto Radici…” e riferisce della nascita casuale di se stessa come scrittrice, proprio a motivo, com’è noto, di tale progetto, consistente nell’affidare ad ogni studente israeliano degli istituti superiori una ricerca sulle origini della propria famiglia.
La figlia Dana, a questo proposito, chiese aiuto a mamma Lizzie, docente universitaria…Il seguito della vicenda entra, con il fulminante Perché non sei venuta prima della guerra? (pubblicato in Patria nel 1998 e in Italia nel 2008), nella “Storia della letteratura d’Israele”. Anche se la Nostra non ama presentarsi come scrittrice, ma quale semplice…fotografa della realtà. E aggiunge ironica: “Quest’ultima affermazione non piace al mio editore, è ovvio. Se vado a Parigi o a Berlino, metropoli importanti, allora sì, parlo di me come scrittrice” e assume una posa comica, come qualcuno che sta in cattedra. “Ma qui a Mantova, in una stupenda piccola città, mi sento a mio agio, come in famiglia, e mi viene più facile condividere con Voi, senza alcuna pretesa, queste mie storie intime”.
Una grande dimostrazione di affetto. With love, ama scrivere sui libri, quale dedica ai lettori. Non è un’espressione di circostanza.


A mia volta mi emoziono. Capita sempre così quando la leggo o la sento raccontare di Helena, lettrice di Heine, persona colta, figura eroica e bizzarra, con un mondo interiore complesso più di un sistema solare, prigioniera per sempre dei suoi incubi (defunta nel 1990, per “una seconda volta”), questa “morta veterana”, come amava definirsi, che tuttavia ha cresciuto -da sola, poiché il marito era scomparso presto per una grave malattia- con grande amore la figlia, cercando di insegnarle la passione per la vita. Passione espressa in quel modo tutto suo -all’apparenza paradossale, in realtà carico di razionale buonsenso- di concepire l’esistenza e i rapporti col prossimo, compresi la contrarietà a far partecipare la sua ragazzina alla celebrazione di Yom Hashoah: “…non ha un nonno o una nonna…e….ogni sabato e…anche ogni giorno normale lei ha un giorno della memoria. E allora perché non lasciarle almeno un giorno all’anno di riposo?”.
O l’avversione radicale nei confronti della retorica guerresca: “….dalla mia esperienza so che le persone che pensano che è bene morire generalmente sono malate” sostiene in una lettera al preside della scuola frequentata dalla figlia, a proposito di una celebre frase attribuita a Yosef Trumpeldor, l’eroe sionista di origine russa, ucciso a Tel Hai nel 1920 “….Alla mia bambina…devo insegnare ad amare la vita…Nel caso, non sia mai, dovesse combattere, dovrà combattere per vivere e non per morire, come Lei e Trumpeldor pensate”.
“Non lascerò che mio figlio muoia” è il motivo conduttore di C’era una volta una famiglia e chiave di lettura per comprendere, al di là delle numerose differenze, il comune sentire del popolo di Israele nei confronti della Guerra, della Famiglia, della Vita e della Morte.
Perché, se i nostri figli, che con fatica abbiamo messo al mondo ed educato alla vita, “qua”, ritiene Helena, muoiono, ecco che finiremo per perdere anche la partita nel Paese “di là”. E saremmo due volte morti. Un rapporto d’amore, quello con Helena, forte, ma molto difficile e, quando la madre era viva, era ancora più conflittuale, confessa Lizzie.
Con grande levità e sorridendo al marito, che è lì a pochi passi, ci parla dei loro figli, spiriti inquieti: Dana, laureata in medicina, ma ancora alla ricerca della propria strada, e Ariel, che ha deciso di essere…burattinaio, un burattinaio i cui spettacoli trattano il tema della Shoah. Una bella famiglia.
Ci confessa che, con le sue frasi elaborate (ma tanto evocative e profonde), cerca di interpretare quelle brevi della madre; il tentativo è ben lungi dall’essere finito ed è per questo che scrive!
E’ felice di stare con il suo pubblico: “Vorrei portarvi con me” conclude e, nell’abbracciare Lella e Marina, abbraccia pure noi tutti.
 
E’ piacevole far risuonare i propri passi sul selciato di questa città elegante, ducale, con palazzi attestanti un passato ricco di memoria e cultura.
Dall’origine lontanissima, poiché la leggenda della fondazione etrusca è confermata da serie indagini archeologiche, passando per la Mantua romana -Virgilio nacque a pochi passi da qui, a Pietole-, un piccolo oppidum, alla civitas vetus altomedievale. Di quest’ultimo periodo è fulgido esempio la meravigliosa Rotonda di S. Lorenzo, in Piazza delle Erbe, risalente all’anno 1000, eretta a ricordo della “Anàstasis” (Resurrezione) di Gerusalemme, la Rotonda costruita intorno al S. Sepolcro; inglobata successivamente nelle case del ghetto ebraico, dopo complesse vicende e a rischio di distruzione, riemerse, per così dire, all’inizio del secolo scorso in seguito ad un radicale ripristino della zona. All’interno, oltre alla splendida architettura, si possono ammirare affreschi (pochi, per la verità), raro esempio di pittura romanico-lombarda di quell’epoca (secoli XI e XII).
Nell’età comunale (Mantova partecipò a due leghe lombarde) abbiamo le grandi sistemazioni del Mincio, fino allo splendore gonzaghesco (che ha lasciato pure un’inconfondibile impronta nella cucina, dove sapori dolci e piccanti si sposano tra loro con ardite combinazioni, ma in armonia), iniziato nel 1328 e terminato solo nel 1707, quando la città passò all’Austria, che ne fece una delle piazzeforti del cosiddetto “quadrilatero” (con Verona, Peschiera e Legnago). Divenne parte del Regno d’Italia nel 1866.
I laghi (Superiore, di Mezzo e Inferiore) che la circondano hanno tenuto lontani gli insediamenti industriali, visibili a distanza, oltre le cime degli alberi, se si passeggia per i sentieri lungo le rive costeggiate da salici e altre essenze. Un’isola fluviale la cui forma mi ricorda Manhattan, sia pure in una disposizione all’incontrario.
 
Festivaletteratura 2010 dedica quest’anno al grande scrittore israeliano Amos Oz una retrospettiva scandita in tre appuntamenti, ciascuno dedicato ad una precisa tematica.
L’approfondimento storico (con Luciano Minerva), dove l’Autore racconta se stesso partendo dal capolavoro Una storia di amore e di tenebra: la Storia come somma di tante storie, il potere prodigioso della letteratura e della lettura.
L’amore nelle più varie declinazioni, sempre presente nei suoi romanzi (pensiamo in primo luogo al più recente La vita fa rima con la morte, ma anche a Michael mio o Conoscere una donna), trattato attraverso le domande di Marilia Piccone.
Infine il villaggio, microcosmo della Storia, incrocio di tante vite che insieme definiscono l’intera umanità. In compagnia di Lorenzo Pavolini, Oz riflette sul senso di comunità, sul kibbutz e la sua nascita, partendo dall’ultimo romanzo, Scene dalla vita di un villaggio.
Tre tematiche costituenti il fiume vivo di tutte le opere.
 
Lo incontro al terzo appuntamento, nell’impossibilità di partecipare ai primi due.
Confesso di essere in preda ad una certa tensione. Fra tutti gli scrittori israeliani viventi, per così dire, classici, ve ne sono due che non ho ancora conosciuto di persona, pur avendone letti alcuni romanzi: Aharon Appelfeld ed Amos Oz. Per il primo provvederò appena possibile -ho mancato alcune occasioni, ma farò in modo di non lasciarmi sfuggire la prossima, pur consapevole che si tratta di un uomo riservato al quale non fa piacere stare sul proscenio, poiché preferisce essere conosciuto per le sue opere piuttosto che per le sue parole o, peggio ancora, per gli orientamenti politici-; quanto al secondo…beh, l’autobiografico Una storia di amore e di tenebra, la cui lettura è stata un’avvincente compagnia nell’estate di due anni fa, mi ha così appassionata da vedere ancora in lui, prima dell’illustre Autore, il ragazzo quindicenne il quale, dopo il Dramma che gli ha sconvolto l’esistenza (il suicidio della madre Fania), volta pagina nella sua vita, va a vivere in kibbutz, un ambiente radicalmente diverso da quello in cui era cresciuto (il piccolo appartamento cupo, zeppo di libri, a Gerusalemme), cambia perfino il cognome, dall’europeo Klausner all’ebraico ed emblematico Oz (Coraggio). Quanto “Oz” gli è occorso e quanti problemi ha dovuto affrontare!
Eccolo il ragazzo. Abbigliamento all’insegna di una spontanea nonchalance tipicamente israeliana, occhiali sostenuti dalla classica catenella, capelli grigi un po’ scompigliati….non è alto come me lo ero immaginato, ma ciò non toglie né carisma, né autorevolezza alla sua figura, anzi.

Il volto, illuminato da un sorriso ironico, è l’antica Terra di Israele, solcata dalle rughe millenarie di un vivere difficile, vivere dal quale ha imparato una saggezza che è, in primo luogo, capacità di immedesimarsi nell’altro, incontrandosi con lui a metà strada. E’ ciò che Oz definisce “Arte del Compromesso”. Lo accompagna una signora, più o meno coetanea; immagino sia Nilli, l’amata moglie.
Luca Pavolini, giornalista e scrittore, dalla simpatica parlata toscana, fa gli onori di casa.
Alla domanda di come si senta, giunto al terzo incontro col pubblico, l’ospite risponde che è “davvero emozionante il tempo trascorso con il pubblico: stimola l’interesse, la curiosità e la curiosità è il miglior antidoto contro il fanatismo”. La persona curiosa è sempre ricca di spirito, prosegue, contrariamente al fanatico (perennemente occupato a prendersi tanto, troppo, sul serio), è stimolante e inoltre, ammicca, fa meglio all’amore. “Ma non è il momento per approfondire questo tema!” aggiunge ridendo.
Chissà quante volte, domanda Pavolini, Le avranno chiesto perché scrivi e perché scrivi così?
“Non esistono rispose precise, dirette. Posso solo confessare che la mia vocazione è nata quando, da bambino, i miei genitori mi portavano con loro in interminabili passeggiate per Gerusalemme, durante le quali incontravano sempre, purtroppo, qualche persona conosciuta. Le conversazioni erano interminabili ed io, in attesa del premio per la mia pazienza fattomi balenare, per lo più un gelato, per sopravvivere alla noia, inventavo delle storie, studiando la gente: ne osservavo i comportamenti, le scarpe…..Non avete idea di quanto si impari del carattere e dei pensieri degli altri scrutando loro le scarpe…Attenti” minaccia con gesto significativo della mano verso il basso “non perdo di vista le vostre!” e ride divertito, suscitando l’ilarità generale.
L’illustre Autore, consacrato da prestigiosi Premi in Patria e all’estero -tra cui, nel nostro Paese, ultimo quello conferitogli dal Salone Internazionale del Libro di Torino, la cui consegna avverrà a inizio novembre in una località delle Langhe, in barba all’inevitabile, pur fallito, tentativo di boicottaggio attuato nei suoi confronti (quale israeliano) dall’immarcescibile “Governo degli Ignoranti”, ben rigoglioso nel nostro vecchio, in primo luogo di idee, continente-, l’illustre Autore, il Classico-in-carne-e-ossa, voglio dire, sa ridere di se stesso.
E con tono spesso divertito, in un inglese a tutti chiarissimo, grazie certo anche all’opera preziosa di Marina, ma in primo luogo per la dote impagabile di saper comunicare senza preamboli il proprio mondo interiore, ci parla della piccola comunità protagonista della serie di racconti che costituiscono il volume uscito pochi mesi fa in Italia, Scene dalla vita di un villaggio, in cui i protagonisti di una storia fanno capolino in un’altra, come in un tessuto ben intrecciato.
E ci cattura raccontandoci la genesi dell’opera, il Sogno dal quale era nato Tel Ilan (la Collina delle Querce), il villaggio in questione, non esistente nella realtà, ma simile ad alcuni reali, fondati dai pionieri circa cento anni or sono. E sono proprio io, confida, ad aggirarmi per le vie silenziose di quel luogo, privo di esseri umani e di animali, alla ricerca di qualcosa (o di qualcuno) impossibile da definire o identificare. All’improvviso, però, mi accorgo che ora è “qualcuno” a cercare me, un essere misterioso dal quale, spaventato, devo nascondermi.
?????? Ma, come inevitabilmente accade, sopraggiunge il risveglio e, con esso, la consapevolezza che la vicenda sognata sarà lo spunto per il prossimo libro. Libro che i lettori amano per quel non so che di intrigo indecifrabile: il mistero, il perdersi (si tratti del nipote, della propria moglie o del tempo che fu), il silenzio, certi enigmi mai chiariti, o quelle ferite mai rimarginate del tutto….La ricerca di qualcuno o di qualcosa nella quale gli abitanti di Tel Ilan sono impegnati, ma quel qualcuno o quel qualcosa (forse) sono essi stessi ad averlo sepolto in un luogo remoto, sovente senza rendersene conto e, men che mai, riuscire ritrovarlo.
Ma il fatto di continuare la ricerca può essere motivo di speranza. Sognare in un futuro migliore, come il giovane arabo Adel, o rimpiangere il passato, oggi rivissuto idealizzandolo -e accanendosi tra sé e sé con gli antichi compagni-, com’è il caso dell’anziano ex esponente politico Pesach Kedem, i due protagonisti, insieme a Rahel (figlia del secondo), di “Scavano”.
I primi due, odono entrambi di notte strani rumori come se qualcuno scavasse sotto i loro piedi; e perfino la concreta Rahel, all’inizio scettica, ad un certo punto….
E a Voi, ci domanda Oz di punto in bianco, vi è mai capitato di sentir qualcuno “scavare”?
E quel rimpianto verso un’epoca “in cui tutto era chiaro a tutti”, cioè l’età d’oro del kibbutz, vagheggiata in “Si canta”, l’ultima delle sette “scene” avente come contesto Tel Ilan (l’ottava, narrata in prima persona, si svolge in un luogo diverso, non precisato, ma angosciante), porta sì, magari, la speranza in un futuro, se si resta uniti, ma il mistero di una tragedia (rimossa illusoriamente in un limbo lontano, in realtà presente) è lì, a pochi passi.
Il guardare avanti, nella lucida consapevolezza che fermare il tempo è un’illusione; e dunque sono ineludibili scelte dolorose, ma necessarie. Lo sa bene Yossi Sasson, l’immobiliarista di “Smarriti”.
Con Luca Pavolini, degno maieuta, il Grande Affabulatore fa perdere noi, a nostra volta, nel suo mondo, talora complesso e indecifrabile come la labirintica casa del defunto scrittore Eldar Rubin, visitata da Yossi.
Non è facile, in poche pagine, sintetizzare quanto è emerso da una mattinata così ricca di contenuti e di umanità, ma proverò a mettere “sulla carta” alcuni ulteriori interessanti spunti, consapevole di sminuire quanto espresso a viva voce dallo scrittore.
Israele, per esempio. Tempo fa Oz chiuse un’intervista a Susanna Nirenstein – cito spesso la Susy: grazie, sorellina, per la tua sensibilità- con queste parole: “Sono nato prima dello Stato di Israele. Ho visto tanto, tutto. Una vita difficile. Ma essere israeliano è un buon affare; al prezzo di un’esistenza normale è come aver vissuto 200 anni”.
Israele è nato (o nata) da un sogno, egli riflette, ma non da uno solo, bensì da tanti.
C’era chi pensava di far rivivere i tempi della Bibbia, chi invece intendeva ricostruire pari pari uno shtetl dell’Est Europa….ma non mancavano i mitteleuropei con in mente composte città borghesi dove si sarebbero sprecati i “Prego, prima Lei, Herr Doktor…” Ve lo immaginate, in Medio Oriente…..
Per converso i comunisti non desideravano altro che concretizzare in pieno la loro utopia: così avrebbero potuto invitare Stalin, il quale, giunto in Israele e constatata la realizzazione fedele dei suoi ideali, accidenti che bravi questi Ebrei!, sarebbe morto di gioia!
Quando è particolarmente divertito, Oz sorride stringendo gli occhi.
Alcuni sogni, aggiunge serio, sono morti, altri sono tuttora ben presenti; altri ancora si sono trasformati in incubi. E, insieme a Luca, ripercorre la storia di Yoni, il giovane protagonista di Una pace perfetta; il romanzo uscito in Israele nel 1982, pubblicato da noi a febbraio 2009, avente come teatro il kibbutz Granot, in Galilea, nell’inverno del 1965, “tra una guerra e l’altra”. Yoni è stanco della vita di kibbutz, così prevedibile e povera di spunti, decide di andarsene; e suo padre, Yoleck, segretario del villaggio, già esponente laburista ed amico del Capo del Governo in carica, Levi Eshkol, in una lunga invettiva, alla presenza del Primo Ministro, accorso perché chiamato d’urgenza a seguito della fuga del giovane, grida tutta la sua disillusione per gl’ideali comunitari e solidali traditi (“Yoni si è accorto che la nave sta affondando…”). Ma Yoleck la nave non l’avrebbe abbandonata mai.
E pensare, confida lo scrittore con una punta di umoristica amarezza, che tanti ritenevano il kibbutz in grado di compiere il miracolo: migliorare la natura umana nell’arco di una generazione.
Anche fare all’amore sarebbe stato…diverso, si diceva. Ma vi pare possibile tutto ciò?
Altro tema, pur legato a quanto in precedenza trattato. Il romanzo D’un tratto nel folto del bosco (1985) si svolge anch’esso in un villaggio. Luca confessa d’averlo letto di recente insieme alla propria figlia; e con profitto. E’ logico: come sappiamo Amos Oz, alla pari di tanti altri narratori israeliani, ha scritto libri per bambini, dunque ne conosce la psicologia (oltre ad essere padre e nonno). Il libro è nato proprio da una novella narrata ai nipotini; anzi, c’è il loro contributo, come si può leggere nella dedica iniziale.
Il villaggio protagonista della vicenda ha una spiacevolissima caratteristica: è stato abbandonato dagli animali, con relative conseguenze: “Il paese era grigio, triste. Tutt’intorno solo montagne e boschi…Non c’erano altri abitanti, nella zona……Quasi mai arrivavano dei visitatori……il villaggio era…oppresso da uno strano, totale silenzio. Non un muggito, un raglio, un cinguettìo….” La maestra Emanuela spiega in classe com’è fatto un orso, poiché i bambini non ne hanno mai visto uno, anzi sono perplessi di fronte a tali descrizioni. Essi rivolgono ai genitori domande in merito a “che cosa” doveva essere successo in precedenza, per dare origine ad una situazione così strana, e gli adulti per converso rispondono in modo evasivo (come fanno due su tre di loro).
Finché due ragazzi, Mati e Maya, non partono alla ricerca del segreto che sta alla base della scomparsa di tutti gli animali. E nel folto del bosco troveranno…..
Ecco il sogno può rinascere nella verità trovata da due bambini, i quali, al contrario dei “grandi”, hanno l’innocenza originaria di coloro che rispettano in pieno chiunque incontrino, a cominciare dalle persone all’apparenza più distanti.
Questa storia, incentrata sull’interessante rapporto Bambini / Animali, tratta i temi del Senso di Colpa (“Noi ebrei l’abbiamo inventato a Gerusalemme circa tremila anni fa…”) , dell’Esclusione, dell’esigenza di Rispetto nei confronti dell’Altro. Non parlo di Amore, sottolinea l’Autore, questo sarebbe illusorio, bensì, come detto, di Rispetto. Con la curiosità di domandarmi: se fossi io al posto dell’altro, come mi comporterei?
La conversazione è terminata, anche se vorresti che continuasse all’infinito, con riflessioni, quesiti e risposte.
Dalla platea partono alcune domande: in primo luogo quale sia il significato dell’ultimo racconto di Scene dalla vita di un villaggio, sul quale tanti si sono posti interrogativi e, in specie, il seguente: si tratta di un’allegoria politica?
No, in quel luogo malsano e mortifero non c’è un’allusione ad Israele; quanto piuttosto alle nostre più recondite paure. Egli si rammarica, prendendo all’avvio dall’osservazione di uno spettatore, che Shmuel Yosef Agnon, il Nobel per la letteratura 1966 (tutt’oggi l’unico israeliano), sia ora abbastanza trascurato, poiché è una rilevante figura di scrittore, nel quale ironia e compassione ben si mescolano.
Amos è un incantevole profeta, ironico e profondo. Esprime pensieri e sentimenti che ognuno di noi tiene dentro di sé, ma che non riesce a far emergere. C’è in lui qualcosa di antico e familiare.
Mi alzo e gli domando se sogna ancora di mollare tutto e di partire con sua moglie alla volta di un giro del mondo a bordo di un’automobile rossa, come affermò tempo fa nel corso di un’intervista.
Dopo la traduzione di Marina: “Beh, intanto l’automobile la noleggerei, non posso comperarla! Ma penso che rimanderò questo progetto. Non ho intenzione al momento di andare in pensione; se mai andrò… in pensione”.
E sorride, stringendo gli occhi.
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