[Continua 22 aprile]       
Col pullman passiamo davanti al Municipio dove stanno smontando il palco delle due celebrazioni di Yom Ha-zikkharon e Yom Ha’-atzmaut, il Dolore e la Gioia:
               
             il Ricordo di coloro che sono caduti per la salvezza di Israele, comprese le persone uccise negli attentati terroristici, e la Consapevolezza di essere un Popolo libero nella Terra dei Padri. Due momenti chiave in cui gli israeliani, al di là delle differenze che li dividono, si sentono un tutt’uno. Per quanto mi riguarda, questa specie di doccia scozzese, la felicità quando ancora non hai avuto il tempo di asciugarti le lacrime, mi ha sempre colpito e forse ispirato un po’ di perplessità, dal punto di vista emotivo. Ma forse è proprio quando hai provato un dolore molto intenso che riesci a esultare con tutto te stesso.
Puntiamo verso nord e passiamo vicini alla Torre dell’edificio del Ministero della Difesa (l’unico dicastero che non sia a Gerusalemme, per ovvie ragioni di sicurezza), soprannominata Il dito di Dio, che pare proteggere in primo luogo le vicine Azrieli, dove speriamo di far almeno una “capatina”, magari al termine del viaggio, prima del ritorno in Italia.
Percorrendo un lunghissimo viale chiamato Ibn Gvirol ci affacciamo un istante al locale Central Park, il Parco Hayarkon, sorto sulle rive dell’omonimo fiume, vasto diversi ettari, fornito di attrezzature sportive; aperto 24 ore su 24, illuminato di notte. Meta di passeggiate e gite, ospita spesso iniziative musicali diverse: dalle esibizioni delle grandi rock stars, quali Madonna o Elton John, ai concerti di musica classica, come il Requiem di Giuseppe Verdi, diretto dal nostro Riccardo Muti in occasione del Centenario della città.
Attraverso un vasto giro della città ci portiamo a sud nell’antichissima Jaffa (in origine Joppa), fondata sulla roccia calcarea, ricca dei suoi 5000 anni di storia, nella parte tradizionale a maggioranza araba -la comunità ebraica risale a metà ‘800, anche se, qui, come ovunque nel Paese, gruppi di ebrei hanno sempre abitato-. Ritorniamo per le stradine pittoresche dove fanno capolino botteghe di artisti ed artigiani e ricordiamo che, nel passato, questo era l’unico porto della costa e dunque qui veniva sbarcato il legname di cedro per la costruzione del Tempio di Salomone (come narra il secondo libro delle Cronache al cap. 2, 16: “…lo porteremo [il legno] per mare su zattere fino a Jaffa….”). Detto porto fu di sovente sottratto agli Ebrei da Filistei e Fenici, nonché dai Romani. La letteratura biblica risalente al periodo post esilico ci regala quella breve, succosa opera sapienziale che è il libro di Giona. Da Jaffa il recalcitrante profeta parte per svolgere la sua missione nella grande (“di tre giornate di cammino”) città di Ninive, capitale dell’Assiria.
Secondo la mitologia greca, ad una delle scogliere appena al largo fu incatenata la giovane Andromeda, destinata ad essere sacrificata all’immancabile mostro marino, per espiare le colpe della vanitosa madre Cassiopea. Lieto fine della storia, grazie all’intervento salvifico di Perseo in groppa al suo cavallo alato.
Molto significativi per la tradizione cristiana sono i racconti degli Atti degli Apostoli, al cap. 9. Pietro, che dimorava nella casa di Simone il conciatore -un luogo ancora oggi visitabile-, viene invitato, in seguito ad una visione, ad annunciare il Vangelo al centurione Cornelio, di stanza a Cesarea Marittima. Sempre a Jaffa è ambientata la vicenda, anch’essa narrata nel medesimo capitolo del libro, della resurrezione, ad opera dello stesso Pietro, di Tabità (Gazzella), una donna generosa, amata da tutti i poveri. Dal porto partirà l’Apostolo alla volta di Roma: il messaggio evangelico si allontanerà così dalla sua terra di origine, con tutte le notevoli conseguenze culturali, storiche, religiose. Jaffa per secoli fu il primo porto della Palestina e il punto di approdo dei pellegrini diretti in Terra Santa. A Jaffa approdò Francesco d’Assisi, qua giunto con l’ambizioso progetto di convertire il Saladino. Naturalmente quel sogno non si realizzò, ma, a ricordo della presenza di Francesco, all’Ordine da lui fondato fu affidato l’impegnativo compito della Custodia dei Luoghi Santi (cristiani, ovviamente). Domina la Città Vecchia l’imponente mole del Monastero francescano di S. Pietro (risalente, nelle forme attuali, agli inizi del ‘900), non lontano dalla casa di Simone il conciatore. La costruzione precedente funse sia da lazzaretto che da albergo, tant’è che vi soggiornò Napoleone durante la campagna in Medio Oriente, nel 1799. Campagna non felice per lui, ma che, come sappiamo, suscitò, nei confronti di quei luoghi, sepolti nell’oblio da lungo tempo, un grande interesse, anche culturale. A tale periodo dell’epopea napoleonica si riferisce un quadro famoso, ora al Museo del Louvre, dal titolo “Gli appestati di Jaffa”.
 

Il dipinto, di carattere celebrativo, è opera di Antoine Jean Gros e risale al 1804: raffigura l’Imperatore il quale, durante la campagna d’Egitto, indifferente al pericolo di contagio, volle visitare i suoi soldati ammalati di peste, ricoverati al lazzaretto. A proposito di Napoleone, questi aveva sempre guardato con una certa simpatia agli Ebrei e alle loro aspirazioni, non solo religiose, di ritorno nella Terra dei Padri. E proprio nel periodo della campagna d’Egitto li aveva esortati: “Affrettatevi, è arrivato il momento di rivendicare i vostri diritti…Dovete pretendere la vostra esistenza nazionale: uno Stato tra gli Stati”.
Nel 1898 qui sbarcò Theodor Herzl, diretto a Gerusalemme per incontrare il Kaiser Guglielmo II.
Negli anni successivi Jaffa fu in prima linea nelle rivolte arabe contro gli ebrei, a cominciare dagli anni ’20; in una di esse, ricordiamo, fu ucciso il noto scrittore Yosef Haim Brenner, immigrato dalla Russia in Terra di Israele nel 1909.Il grave fatto accadde il primo maggio 1921 durante una manifestazione in cui comunisti e socialisti ebrei si scontrarono tra loro; l’occasione fu colta al volo dal nuovo Muftì (l’arcinoto Haj Amin Al Husseini) che incitò gli Arabi ad attaccare le proprietà degli Ebrei nella stessa Jaffa e a Gerusalemme, pretendendo uno stop immediato all’immigrazione. Brenner non si illudeva certo che, perfino in Palestina, gli Ebrei potessero sfuggire all’odio antiebraico; e infatti egli stesso ne fu vittima[1] .
Secondo il piano di spartizione previsto dalla Risoluzione ONU n. 181 del 29 novembre 1947, la città avrebbe dovuto rientrare sotto l’autorità degli Arabi, ma il rifiuto autolesionista di costoro la condannò: gli abitanti fuggirono a seguito della sconfitta, non senza aver prima chiuso il porto, che non riaprì più -nel frattempo aveva acquistato importanza quello di Tel Aviv, che sarà, a sua volta, soppiantato nei decenni successivi da Ashdod; mentre il porto di Tel Aviv, oggi, è diventato….ma questa è un’altra storia-.
La conquista da parte delle truppe israeliane avvenne il 13 maggio 1948, con la cosiddetta “Operazione Hametz”.
Seguì per Jaffa un periodo di decadenza fino agli anni ’60, quando decollò la sua ricostruzione poiché il luogo era diventato meta di artisti e intellettuali. Gli immobili risalenti al periodo turco, in sabbia solidificata, sono risorti a vita nuova.
 
Accarezzati da una piacevole brezza marina giungiamo su una collina erbosa, chiamata Giardini HaPisgah, da dove si gode uno splendido panorama dello sky line di Tel Aviv, con il lungomare e i grattacieli. C’è pure una composita scultura moderna di colore bianco (1975), in stile vagamente precolombiano, che raffigura la caduta di Gerico, il sacrificio di Isacco e il sogno di Giacobbe.
 
 
Nel primo pomeriggio, dopo un veloce spuntino in un locale nel quale pare non tengano in grande considerazione i turisti, ci attendono alcune sorprese; almeno tali per me.
La prima: la Ferrovia con Stazione. Accanto a grandi arterie di traffico, intensissimo ma scorrevole, quali Derekh Menahem Begin e Rehov Eliezer Kaplan, a brevissima distanza dal complesso Azrieli -è uno dei paradossi di questa città, lì per lì non te ne rendi conto, scaraventato tra tali contrasti, ti senti spaesato o meglio, “spaesaggiato”, come disse una volta Alain Elkann usando un termine coniato da lui e a sua misura, cioè molto intrigante-, ad una manciata di metri dal presente / futuro c’è una piccola stazione ferroviaria, in disuso, che, fino al 1948, collegava Tel Aviv a Gerusalemme. Ne stanno costruendo un’altra, rassicura Angela di fronte al nostro stupore, ma sarà pronta tra circa quattro anni. Incredibile. Herzl poté recarsi in treno da Jaffa (ovviamente Tel Aviv era di là da venire) a Gerusalemme, ma noi no.
Ecco un’immagine del 1893, inviatami tempo fa da Chicca, davvero evocativa.
 

 
Ci aggiriamo come ipnotizzati in un ambiente surreale.
 

 

 
                

                Ma c’è la seconda sorpresa.

Ne parla Elena Loewenthal, nella sua operetta su Tel Aviv. Cita, tra l’altro, un brano di Una storia di amore e di tenebra in cui Amos Oz, nel rievocare il suo incontro, da adolescente, con David Ben Gurion, ci racconta che l’ufficio del primo Ministro (nonché titolare del dicastero della Difesa) si trovava dentro “una piccola baita stile bavarese…”; ammetto però che, per un complesso meccanismo psicologico, avevo rimosso quelle pagine, da rileggere ora con pazienza [2] .
In questo luogo, dove ora ci troviamo, chiamato Sarona (o Sharona), si era stabilito un gruppo di cristiani luterani, la “Società per il raduno del Popolo di Dio a Gerusalemme”, fondato in Germania nel 1861 da Christoph Hoffmann e Georg David Hardegg. Erano detti Das Volk Gottes (il Popolo di Dio) o, più spesso, Templari (Deutscher Tempel) -da non confondersi con il discusso ordine medievale dei monaci guerrieri- poiché intendevano vivere secondo quanto scrive S. Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (3,16): “Non sapete [Voi] che siete Tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in Voi?” Il concetto di “Tempio di Dio” non è, per così dire, simbolico, bensì materiale, anzi territoriale: soltanto vivendo nei luoghi dove Cristo ha operato, si sarebbe affrettato il suo ritorno sulla terra e realizzata l’epoca messianica. Il gruppo, all’inizio abbastanza piccolo, ma determinato ed organizzato, raggiunge la Terra Santa e si stabilisce in diversi luoghi, a cominciare da Haifa, dove s’installa sulle pendici del Carmelo (1868). Vengono costruiti qua e là lindi abitati, con strade diritte. Si tratta di persone colte, architetti, agronomi, specializzati nella bonifica dei terreni paludosi e nella coltivazione degli agrumi. Stravaganze della storia: il famoso marchio Jaffa (pompelmi), sovente a rischio di boicottaggio, almeno strisciante, in quanto made in Israel, appare per la prima volta sui prodotti di questi agricoltori non ebrei i quali, nell’arco di alcuni anni, raggiungono il rispettabile numero di alcune migliaia di persone. Ecco qua il marchio, tratto da www.bpbase.com.
 

 
E’ ovvio che i primi moshavim e kibbutzim ebraici si ispirano a queste esperienze.
Brava gente, insomma; peccato davvero quel viziaccio di cui dirò tra una dozzina di righe.
Quando arrivano non lontano da Giaffa, negli anni ’70 dell’800, acquistano un terreno, già di proprietà di un monastero greco, cui danno il nome di Sharona per la vicinanza con l’omonima pianura di Sharon. E via a tirar su case, piantare giardini, costruire strade.
Guten Morgen!” Si saranno salutati l’un l’altro, soddisfatti per la loro opera di rendere quella terra, da tanto tempo così negletta, degna di accogliere il Cristo nella sua seconda, definitiva, venuta.
 
 
 
Questo in cui ci troviamo ora non era l’unico nucleo in zona; ve ne era uno, ad esempio, chiamato Wilhelma -in onore del Kaiser Guglielmo II, il quale, possa egli averlo gradito o meno, un certo rapporto con la storia contemporanea di questo Paese ce l’ha-, a poco più di venti chilometri verso est. Anzi l’Aeroporto Internazionale (ora) Ben Gurion, quando fu costruito, nel 1936, si chiamò “Aeroporto Wilhelma” poiché si trovava vicino all’omonimo insediamento, divenuto in seguito la località di Bnei Atarot.
Inoltre essi danno vita, a Haifa, ad un regolare servizio di collegamento con mezzi pubblici tra la città e altri centri, promuovono lo sviluppo economico e sociale.
Con l’arrivo degli Inglesi, nel 1917, iniziano i problemi, acuitisi irrimediabilmente, quando, negli anni seguenti, i “Templari”, paradosso dei paradossi, si scoprono, chissà mai per quale motivo,  entusiasti seguaci di Adolf Hitler. Ohibò. Proprio qua. Quale disdetta.
Addirittura pare,  a seguito di indagini svolte dalle autorità britanniche, che nel 1937 oltre il 30% dei membri della comunità avesse in tasca la tessera del partito nazista!
“Non molto dopo l’avvento del nazismo, dal balcone del primo piano dello stabile, proprio sopra l’ingresso della banca [la Banca della Società dei Templari, l’istituto di credito che fungeva da polmone economico/finanziario del gruppo], aveva sventolato la bandiera rossa, bianca e nera con al centro la svastica. Nel cuore dell’Yishuv, a Tel Aviv, mentre in Germania davano fuoco alle sinagoghe e si bastonavano gli ebrei prima di ucciderli o deportarli, incredibilmente il vessillo del Terzo Reich si era mosso liberamente al vento nel cielo blu cobalto della Palestina” [3].
All’inizio del conflitto i “Templari” sono cacciati dalle autorità mandatarie e le loro proprietà requisite, compresi gl’istituti finanziari, come quello citato sopra.
Successivamente (dal novembre 1947 al maggio 1948) il luogo diviene “La Cittadella”, HaKirya, il centro di governo del nuovo Stato che andava sorgendo, in una clandestinità…abbastanza notoria, direi. Il sito peraltro era ideale data la posizione riposta, col vantaggio ulteriore della presenza di cantine collegate tra loro da un tunnel, dove i “Templari” in precedenza si riunivano sia per la preghiera, sia per collocare al buio le botti di vino ad invecchiare.  E ancora Massimo Lomonaco ci racconta, a p. 457 del suo romanzo: "In quelle cantine segrete e silenziose, trasformate in celle di sicurezza, erano rinchiusi -l'uno all'insaputa dell'altro- gli unici tre tedeschi rimasti a Sarona: Wolgang Blucher, Herbert Wannsee e Manfred Mayer", cioè tre membri superstiti dell'Einsatz Egypt"; il primo e il terzo erano, rispettivamente, il capo operativo del gruppo e il marconista, catturati vivi, come da programma. 
  Qui, al “Campo Yehoshua” (da Yehoshua Globermann, un combattente ucciso nei pressi di Latrun), si tennero importanti riunioni politiche ed operative e pure furono montati, pezzo dopo pezzo, i primi aerei da guerra sottratti dalla Haganah all’esercito britannico.

Passeggiamo tra vialetti ordinati e casette basse dai tetti rossi, in via di ristrutturazione: tutto il complesso è destinato a diventare, nel volgere di pochi anni, uno dei nuovi luoghi di ritrovo più trendy della città. Ha'tahana, la Stazione.
 
                 Diamo un’occhiata ai manifesti colorati che illustrano una mostra, “Aftershock”, dedicata al notevole contributo, in mezzi e persone, fornito dallo Stato di Israele ad Haiti, in occasione del recente terremoto. I confronti son sempre antipatici, si sa; ma non risulta che i ricchissimi Paesi petroliferi, in primo luogo mediorientali, sempre pronti a “far la morale” a Israele, si siano dati altrettanto da fare.
Ci riposiamo pochi minuti all’ombra di un rigoglioso sicomoro, degno di Zaccheo, il capo dei pubblicani citato nel Vangelo di Luca (19: 1-10), prima di risalire sul pullman, diretti ad un altro sito chiave.
Neve Tsedek, Pascolo di Giustizia. E’ il primo quartiere interamente ebraico, insieme a Neve Shalom (Pascolo di Pace), costruito fuori delle mura di Giaffa, da Aaron Shlush, nel 1887, oltre vent’anni prima della nascita di Tel Aviv.
Dopo un lungo periodo di decadenza, verso il 1960 è iniziata la rinascita della zona, non ancora terminata perché ovunque ci sono cantieri aperti e ristrutturazioni in atto.
Torno con piacere in questo luogo; anzi mi pare che un anno non sia passato da quando, in occasione del Viaggio del 2009, venni qui per la prima volta e rimasi incantata: palazzetti eleganti e familiari al tempo stesso, con le persiane colorate, alcune di un evocativo azzurro, come il mare che sai essere vicino….O magari ti appare all’improvviso un portone di casa color rosso.
Hai presente i disegni dei bambini? Anzi l’ingrediente base è proprio la raffinatezza tipica dei quadri infantili.
             Botteghe artistiche, ingressi ben curati, oltre i quali immagini giardini odorosi. Vicoli, vicoletti e, sullo sfondo, i grattacieli, resi ancor più di vetro dalla giornata luminosa.
 
   Daniela, la bergamasca, mi racconta teneri aneddoti sulla famiglia del comune amico Marco (Paganoni), in particolare sulla compianta mamma di lui, Patrizia, persona davvero notevole.
Ci prendiamo una pausa in una piazzetta ricca di palme ed essenze profumate
 
                
                dove si affaccia, insieme ad alcuni bei bar, un’importante istituzione.
 
Si tratta del Suzanne Dellal Center for Dance and Theatre, il principale centro della danza israeliana, moderna e contemporanea. Fondato nel 1989 sulle rovine di due scuole, istituite nel 1908 -dirimpettaie, una maschile e l’altra femminile, con una strada in mezzo che collegava Neve TsedekconNeve Shalom-, è diretto dal suo ideatore, il famoso ballerino e coreografo Yair Vardi. Il Centro è un punto di riferimento nel Paese per tutti gli appassionati del settore e si è fatto conoscere ed apprezzare in tutto il mondo, Italia compresa. All’interno, un grande giardino alberato, curatissimo.
Quando, nel 2007, Neve Tsedek ha compiuto 120 anni, la Municipalità ha affidato la celebrazione dell’evento a David Tartakover. Nato nel 1944 a Tel Aviv, dove vive e lavora (anzi il suo studio è proprio qui, a Neve Tsedek), è un celebre e quanto mai polivalente designer grafico, uscito dalla prestigiosa Accademia di Arte e Design Bezalel di Gerusalemme. E’ docente, a sua volta, di design, vincitore dell’Israel Prize nel 2002 per il suo settore di attività, oltre che attivista politico del movimento di sinistra Shalom Akhshav.
Nella piazzetta in cui ora ci troviamo Tartakover ha predisposto un murale suddiviso in tre riquadri, dove sono raffigurate le persone, gli aspetti e gli eventi più importanti dell’epoca, con scritte in ebraico e in tedesco: la ferrovia Jaffa-Gerusalemme; il liceo Herzliya; Via Herzl; la scuola femminile; Jaffa con i suoi aranceti; nonché i volti di alcuni, per così dire, “padri spirituali”, tra i quali riconosco gli scrittori Shmuel Yosef Agnon e Yosef Haim Brenner; il poeta David Shimoni [4] e Rav. Avraham I. Cook, mentre, in un cammeo sotto di loro, c’è la poetessa Dvora Baron.
Quest’ultima (1887/1959) è figura poco nota al grande pubblico, ma assai rilevante perché è la prima scrittrice moderna in lingua ebraica. Figlia di un rabbino, nata in un piccolo villaggio dell’Impero russo vicino alla Lituania, era giunta in Terra di Israele nel 1911. Narratrice precoce, traduttrice di Flaubert e Cechov, attraverso racconti brevi, ha saputo raffigurare con efficacia le lacerazioni familiari e i conflitti personali e sociali delle donne del suo tempo [5] .


          

        Il murale, a colori vivacissimi, ha un non so che di naïf: i volti delle persone scrutano l’osservatore e le essenze raffigurate sono un tutt’uno con quelle che adornano il luogo.
Lungo Rehov Shalom Shabazi ci incantiamo davanti a rigogliose siepi di gelsomino e ad un tripudio di balconi fioriti.
Poco più avanti ecco la Shalom Tower, o Migdal Shalom, così chiamata dal nome del padre -Shalom, appunto- di colui che l’ha fatta costruire, Mordekhai Meir, a inizio anni ’60.
E’ un palazzo non bello, direi un po' sgraziato -in confronto ad altri edifici-, a forma prevedibile di parallelepipedo, alto poco più di 140 metri, ora largamente superato dagli altri “colossi” locali, (come le Azrieli o i grattacieli di Ramat Gan), che ospita un’esposizione multimediale sulla storia di Tel Aviv.
Fu eretto nel luogo in cui sorgeva, fino al 1960, un edificio assai più caratteristico: il Liceo ginnasio Herzliya, opera di Yosef Barsky, dalle caratteristiche forme eclettiche, che si richiamavano alle descrizioni del Tempio di Re Salomone.

La scuola, il primo edificio pubblico della nuova città, anzi uno dei simboli di Tel Aviv, ospitò diversi studenti divenuti poi personaggi illustri. Alcuni anni fa è stato ricostruito, secondo la tipologia originaria, pur modernizzata, in Rehov Jabotinsky.
Memorizzo, tra me e me, un dato interessante: tra il 1995 e il 2008 il numero dei laureati in Israele è aumentato dal 14 al 23% della popolazione. In particolare, a Tel Aviv il 37% dei residenti ha un titolo accademico. Non male, vero?
Al ritorno in albergo siamo tutti stanchissimi, ma la giornata è stata davvero entusiasmante e “piena”.



[1] M. GILBERT, op. cit., p. 130.

[2] E. LOEWENTHAL, op. cit., pp. 76 e ss.

[3] M. LOMONACO, op. cit., p. 198.

[4] “…Tra l’altro, il mio piccolo libro sul poeta David Shimoni l’ho dato in dono al tuo caro padre, a condizione che lo legga anche tu. Perciò leggi, leggi, leggi!” Così il prozio Yosef Klausner ammoniva il nipote Amos, il futuro scrittore Amos OZ, in Una storia di amore e di tenebra, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 88; titolo originale Sippur al ahava ve hosekh, 2002.

[5] A tale proposito vedi Dvora BARON, Fradel. Schegge di Luce, a cura di Sarah Kaminski, Sipintegrazioni, Napoli, 2010, pp. 64.