“Ancora pochi giorni e saremo di nuovo qua” Gabriele Geminiani (Violoncello)
Sabato 17 marzo scorso Gabriele Geminiani, primo violoncello dell’Orchestra Mozart, ha tenuto, con la violinista Mihaela Costea, il bellissimo concerto di apertura del ciclo Il Sabato all’Accademia (la Regia Accademia Filarmonica di Bologna). Musiche di Bach, Ravel, Kodàly.
Al termine, dopo i complimenti, il saluto: “Gabri, non vediamo l’ora di ritrovarvi [Voi, componenti dell’OM] tutti insieme!” “Tranquilla. Ancora pochi giorni e saremo di nuovo qua, subito dopo l’inizio a Lugano”, rassicura.
Infatti.
Esordio scintillante dell’Orchestra a Lugano, nella sua residenza, presso la sede del LAC (Lugano Arte e Cultura) dall’1 al 5 aprile, nell’ambito della Rassegna Lugano Musica.
Che cos’è il LAC?
LAC Lugano Arte e Cultura è il centro culturale dedicato alle arti visive, alla musica e alle arti sceniche, che si candida a diventare uno dei punti di riferimento culturali della Svizzera, con l’intento di valorizzare un’ampia offerta artistica ed esprimere l’identità di Lugano quale crocevia culturale fra il nord e il sud dell’Europa.
All’interno della suggestiva struttura architettonica affacciata sul lago, trova spazio una ricca programmazione di mostre ed eventi, stagioni musicali, rassegne di teatro e danza, unita da una varietà di iniziative culturali e un folto programma di attività per i giovani e le famiglie. Al LAC ha infatti sede il Museo d’Arte della Svizzera italiana-Lugano, nato dall’unione tra il Museo Cantonale d’Arte e il Museo d’Arte della città di Lugano. I suoi tre piani espositivi ospitano la collezione permanente della città di Lugano e del Canton Ticino, mostre temporanee e installazioni permanenti. Una sala concertistica e teatrale da 1000 posti, interamente rivestita in legno e dotata di una speciale conchiglia acustica modulare e rimovibile, accoglie invece un ampio calendario di spettacoli performativi e concerti. È la sede principale delle stagioni di Lugano InScena e di Lugano Musica alle quali si affiancano le attività della Compagnia Finzi Pasca e dell’Orchestra della Svizzera italiana (OSI), come pure parte della stagione concertistica della Radiotelevisione Svizzera di lingua Italiana (RSI).
Il LAC rappresenta il cuore pulsante di una rete culturale che si estende ben oltre i confini cittadini, coinvolgendo gli attori pubblici, para-pubblici e privati già attivi in territorio nell’ambito della cultura -musei, orchestre, artisti, associazionismo culturale, biblioteche, le istituzioni educative, gallerie d’arte, collezionisti- che intendono costruire un progetto condiviso.
Nato come luogo di condivisione e contaminazione fra diverse discipline artistiche, il LAC testimonia sin dalla sua configurazione architettonica la propria vocazione di realtà aperta, di incontro fra le arti, gli artisti e la collettività.
Il nuovo centro culturale svolge un ruolo importante per la trasformazione sociale ed economica della città. Lugano e il LAC -che non nasce come attrazione architettonica, ma come un vero e proprio nuovo quartiere per le arti e la cultura- dialogano senza sosta tra loro. A proposito di questo dialogo, l’architetto Gianola, che ha firmato il progetto, afferma: “È proprio la forza di tutta la città a dare forza al LAC. Quello del centro culturale non è il progetto di un edificio prestigioso, ma di una continuità territoriale e di una nuova urbanizzazione.”
Nel 2001, 130 studi hanno partecipato al concorso per la realizzazione del nuovo centro culturale, in seguito vinto dall’architetto Ivano Gianola. Esponente della cosiddetta “Scuola Ticinese”, Gianola si distingue per il forte legame dei suoi progetti architettonici con l’ambiente in cui sono inseriti. Anche in questa realizzazione il punto di forza del progetto è l’assenza di una separazione fisica tra le vie della città e l’edificio. Come la strada e la piazza, anche il pian terreno del LAC è pensato per essere accessibile a tutti. La conformazione della struttura che ospita il museo, sollevata da pilastri, non chiude lo spazio in un perimetro definito, ma lo apre verso il lago. Dalla piazza si possono poi prendere diverse direzioni: si può entrare al LAC per raggiungere il museo o il teatro, si possono attraversare le corti interne, entrare nel parco adiacente o incamminarsi verso il centro.
I visitatori sono accolti in un’ampia hall di 650 metri quadrati, pensata come una grande finestra che rende appena percepibile il limite tra interno ed esterno. Si affaccia, da un lato, sulla nuova piazza Bernardino Luini e sul lago; dall’altro, sull’anfiteatro esterno e sul parco creato a fianco del complesso. La hall – nella quale si trovano la biglietteria, il bookshop e un caffè – è percorribile, come una normale via urbana, per spostarsi da una parte all’altra della città: una scelta voluta per cercare di azzerare la separazione tra gli spazi fisici e un invito a vivere il LAC nella quotidianità di ogni giorno. “È importante permettere alla gente di camminare trasversalmente all’interno dell’edificio come se fosse un’ordinaria via di passaggio. Mi piacerebbe in futuro vedere un abitante di via Motta attraversare il parco e la hall per andare a lavorare” sottolinea l’architetto Gianola.
Abbiamo molto da imparare dai nostri vicini anche dal punto di vista politico; anzi a cominciare proprio da quello. L’Architettura è espressione di una concezione di vita e quindi politica. Chiaro come un torrente di montagna, ma ci si pensa poco.
Con un volume di ben 180.000 metri cubi, il LAC sorge sul sedime dell’ex albergo Palace.
Oltre alla grande hall, esso comprende un’innovativa sala teatrale e concertistica, un importante spazio museale ed espositivo; nonché diverse sale modulabili e polifunzionali per eventi artistici e non. L’intera superficie costruita è pari a circa 29.000 metri quadrati, senza contare la grande piazza antistante la struttura ed il parco retrostante. Il centro culturale, con tutto il comparto che lo costituisce, comprende alcuni gioielli architettonici già presenti o rinnovati, come l’importante chiesa di Santa Maria degli Angioli, che contiene affreschi cinquecenteschi di Bernardino Luini, il convento francescano e l’annesso chiostro. La struttura è stata pensata al centro di una croce: ai suoi estremi ci sono il centro storico, la nuova espansione urbana che si estende verso Paradiso, il parco e il lago.
Diventa così una sorta di filtro, di cuore pulsante, un muscolo della città che dà vita e racchiude in se stesso diversi contenuti urbanistici.
La combinazione di antico e moderno è una caratteristica del LAC. I vincoli di mantenimento originario delle facciate dell’ex Grand Hotel Palace e dei resti del convento e del chiostro sono stati fondamentali per lo sviluppo del progetto. Questa parte della città rivive non solo grazie ai nuovi edifici pubblici, ma anche grazie alle parti storiche che riacquistano la loro funzione. Le sale al pianterreno del chiostro, ad esempio, diventano nuovi spazi riaperti alla cittadinanza, mentre i piani superiori saranno –o sono- occupati dagli uffici del LAC.
Attraverso la hall si accede alla sala teatrale e concertistica (800 metri quadrati) con 1000 posti a sedere. La sala è un concentrato di soluzioni modulari e ingegneristiche all’avanguardia che permettono di ospitare ogni tipo di spettacolo: dai concerti sinfonici a quelli jazz, dall’opera all’operetta, dalla danza al teatro di prosa. Questa versatilità si deve in particolare alla conchiglia acustica modulabile e a un sistema mobile della fossa orchestrale che può alzarsi fino al livello del palco, estendendolo fino alla prima fila di sedie. Grazie alla collaborazione tra l’architetto Ivano Gianola e la Müller BBM di Monaco di Baviera -azienda leader nel campo dell’ingegneria acustica- la sala teatrale e concertistica del LAC combina sapientemente l’estetica architettonica alla qualità acustica.
Sul lato opposto della hall si accede invece al Museo; nato, come sappiamo, dall’unione tra il Museo Cantonale d’Arte e il Museo d’Arte della città di Lugano. Sviluppato su tre piani espositivi per una superficie complessiva di 2500 metri quadrati, ospita le prestigiose collezioni d’arte di Lugano e del Canton Ticino. Su un piano ha sede la mostra permanente, negli altri le temporanee.
L’architettura museale è stata pensata per ospitare le opere d’arte e non per entrare in competizione con esse: gli spazi sono semplici, bianchi, flessibili e inondati di luce per meglio apprezzare le opere.
Completano la struttura architettonica, il Teatrostudio -dedicato agli spettacoli più piccoli e alla sala prove per le attività teatrali e concertistiche, dove sarà possibile montare anche le scenografie- con diverse sale multiuso che soddisfano perfettamente i criteri di multifunzionalità. A pochi metri dalla struttura si trova infine lo Spazio1 che ospita la Collezione d’arte contemporanea Giancarlo e Danna Olgiati.
Pasqua con l’Orchestra Mozart e Bernard Haitink è stato un susseguirsi di
Concerti, preceduti da adeguata presentazione, ottima iniziativa.
Essi sono in parte coincidenti con quelli cui assisteremo in questi giorni nella nostra città.
Iniziative culturali diverse all’insegna dell’interdisciplinarietà che tanto piaceva a Claudio Abbado: Franz Liszt e Dante Alighieri con la Divina Commedia; ancora Liszt, ma in coppia con Francesco Petrarca e i suoi sonetti. Sappiamo come il grande musicista ungherese fosse appassionato conoscitore dell’Arte italiana, poesia compresa, al punto di dedicarvi brani al pianoforte: Après une lecture de Dante, S 161; Tre sonetti del Petrarca, S 270, qui interpretati.
A tale proposito, assolutamente conservare -per studiarlo con calma- il programma delle giornate, in formato pdf, all’insegna di una visione sincronica o interdisciplinare, con spunti d’ascolto e riflessione. E’ un tesoretto, giocoforza semplificato, ma utile come base di partenza per studi approfonditi.
Un esempio. La Sinfonia n. 9 in do maggiore n. 9, la Grande per intenderci, viene composta da Franz Schubert nel 1828. Un paragrafo sottostante racconta che, in quello stesso anno, nasce l’8 maggio a Ginevra l’umanista, imprenditore e filantropo svizzero Henry Dunant, il quale istituirà, nel 1863, la Croce Rossa; mentre il 20 marzo vede la luce a Skien, in Norvegia, Henrik Ibsen, il celebre drammaturgo, poeta e regista teatrale che, per primo, porterà in scena le problematiche della borghesia del suo tempo (Casa di bambola, Hedda Gabler, per citare i drammi più famosi). E, per restare in ambito musicale, nel 1828 tiene il primo concerto, a Parigi, l’Orchestre de la Société des Concerts du Conservatoire: musiche di Beethoven, Rossini e Cherubini. E’ costituita da professori e allievi del Conservatorio con il fine di dedicarsi ad un repertorio, per quell’epoca, di avanguardia.
Ritorniamo all’oggi con la nostra Rassegna.
Musica, Letteratura e altre Arti.
Subito dopo il concerto luganese di apertura, il Prof. Loris Azzaroni, Presidente della Regia Accademia Filarmonica, in dialogo con la musicologa Giada Marsadri, ha raccontato all’attento pubblico svizzero la genesi e le vicende dell’Orchestra (Mozart), che noi ben conosciamo; ma pure la storia e le attività della stessa Regia Accademia: uno scrigno di (Storia della) Musica che sempre si rinnova.
Da Via Guerrazzi, presso la sede in Palazzo Carrati, sono passati -e passano- le personalità più rilevanti di questa nobile Arte.
E insiste con giusto orgoglio sullo spirito di OM, su ciò che la rende così…speciale: la gioia di stare, insieme, a far Musica per giungere, insieme, alla perfezione. L’insegnamento di Claudio Abbado, vivo palpitante, fa sì che “quello” spirito di corpo rinasca dopo alcuni istanti tra i suoi musicisti, i quali, giocoforza, restano talora lontani gli uni dagli altri per mesi.
Sono sufficienti poche battute e le distanze svaniscono. “E’ come andare in bicicletta, non disimpari”, osserva con la consueta arguzia il violoncellista Luca Franzetti.
Gli spettatori seguono, incantati. D’altronde, l’ho ben compreso a Lucerna, qui in Svizzera, come in Austria e Germania, l’amore per la Musica è un dato di fatto, è parte del DNA locale.
Per esempio, dove ti capita di vedere, da noi, com’è successo a me l’estate scorsa per le strade di un paesino della confederazione elvetica, un gruppetto di persone -riunitosi così, in modo improvvisato- che intona con passione l’Inno alla Gioia tratto dalla Nona Sinfonia di Beethoven, sgorgato dal cuore…a prescindere da un’iniziativa precisa? Forse un corrispondente atteggiamento puoi rinvenirlo tra i cosiddetti melomani; ma non direi caratterizzato dalla medesima intensità.
Gli italiani sono più contegnosi, avvinghiati ancora ad una concezione elitaria della Musica, dalla quale faticano a distaccarsi.
Appuntamenti presso il Caffè degli Artisti nella Hall della sede LAC, verso le ore 19:00, per incontri di approfondimento, dibattiti e ascolti della letteratura italiana.
Abbiamo da imparare, magari per il futuro. E, logico corollario: quanto maggiori saranno le risorse economiche destinate, tanto più varie saranno le iniziative; ma occorre, in ogni caso, anche nel nostro “piccolo”, armarsi di coraggio e osare, uscendo dalle strettoie causate dalla notevole carenza di spazi adeguati per la Musica-mi riferisco, in specifico, a Bologna- .
Immagino che Claudio Abbado pensasse a tutto questo quando, con Renzo Piano, avevano progettato per la nostra città l’Auditorium della Musica e delle Arti, idea per nulla appoggiata in alto loco e dunque destinata a restare una mirabile visione. Archiviata per sempre. E sì che quel “sogno abbadiano” avrebbe costituito un richiamo culturale, un’opportunità senza pari per la città e la Regione. Ma qui non siamo in Svizzera; e, men che mai, a Berlino, tra Havel e Sprea, bensì solo ahimé tra…Savena e Reno.
Momenti di condivisione con l’Orchestra, oltre ai concerti, fulcro della Rassegna.
Stupenda penso sia stata, a conclusione, La Festa dell’Orchestra Mozart, sempre nella Hall: Festa aperta a Tutti e non riservata ai soliti noti, come, per lo più, accade dalle nostre parti. La Mozart è un tesoro da valorizzare con orgoglio, patrimonio comune di qualunque appassionato (munito di adeguato bagaglio tecnico o armato di istintiva passione, poco importa) e non soltanto di ristrette cerchie di privilegiati.
(Arci)ben venga la residenza a Lugano: essa restituisce a questa compagine il suo respiro internazionale (acquisito, a suo tempo, subito col Maestro milanese) e le consente di guardare al futuro con un certo, sia pur realistico, ottimismo. E, lo ha dichiarato espressamente il Prof. Azzaroni, intermediario essenziale in tutta l’operazione è stato proprio Bernard Haitink.
Certo che, inutile nasconderlo, l’Orchestra ha dovuto cercare oltreconfine, sia pure a poca distanza dall’Italia, qualcuno che…la “prendesse sottobraccio” (faccio mia un’espressione usata da Gabriele Geminiani, in un’intervista rilasciata al termine del Concerto tenuto il 6 gennaio dell’anno scorso, inserita nel video allegato al mio commento) per avere un avvenire dopo tre anni e passa di pausa; conseguenza della freddezza -espressione benevola- con cui è stata gratificata dalle istituzioni e dagli operatori economici locali (e non) negli anni di guida da parte del più illustre Direttore del mondo.
L’attenzione da parte di pubblico e stampa luganesi è stata totale; possiamo tranquillamente parlare di trionfo, avendo seguito gli amici dell’Orchestra attraverso i social network.
Fatta questa necessaria premessa, concentriamoci sul nostro ORCHESTRA MOZART FESTIVAL [1].
La stampa si è fatta onore in questa circostanza: in primo luogo Helmut Failoni sul Corriere della Sera, amico da sempre dell’Orchestra e dei suoi musicisti, Luca Baccolini su Repubblica, Cesare Sughi su Il Resto del Carlino e altri hanno scritto articoli entusiasti e profondi; tali da rallegrare i sostenitori e sciogliere i dubbi, mi auguro, dei soliti immancabili gufi -che non mancano mai, specie dalle parti nostre-.
Una precisazione di metodo. Poiché non mi era possibile registrare dal vivo i singoli brani, ne ho fornito, come ho fatto in precedenti circostanze, delle versioni opera di altri interpreti. Ciò al fine di rendere la narrazione più completa, dando un aggancio concreto, reale alla Musica raccontata.
VENERDI’ 6 APRILE 2018, ore 20:30, Teatro Auditorium Manzoni
In apertura, riservo un affettuoso omaggio a Bernard Haitink, il grande Maestro olandese: la persona nelle cui mani Claudio Abbado aveva posto l’avvenire musicale del suo “Beniamino”, “qualcosa per lui di molto intimo, di molto personale”. Queste ultime parole sono di Francesco Senese, pronunciate poco prima del debutto in Lugano. Quando Francesco si esprime, lo ripeto spesso e l’ho confidato anche a lui, riesce a farti battere il cuore perché tocca le corde importanti dell’anima dell’interlocutore. Immagini questi due grandi della Musica -Claudio Abbado e Bernard Haitink- che parlano dell’Orchestra di Bologna. Ma forse essi non hanno avuto bisogno di comunicare tra loro a parole per comprendersi.
L’eterno “ragazzo Claudio”, consapevole della difficile situazione della Mozart, nei suoi ultimi tempi di vita terrena, aveva deciso, da saggio signore quale era, di affidarla non ad uno dei suoi giovani e validi allievi, ma a questo collega di altissimo livello, di lunga esperienza, al riparo da eventuali critiche e riserve di varia indole.
Bernard Haitink, anzi: Bernard Johan Herman Haitink, uno dei “miti” della Direzione d’orchestra. Ovvio che, nel tracciarne un breve profilo, mi atterrò alle notizie di base.
Nato il 4 marzo 1929 a Hilversum, Paesi Bassi, inizia a suonare in orchestra come violinista e debutta ventiseienne, quale direttore, alla locale Radio Filharmonisch Orkest.
Il 7 novembre 1956 sostituisce Carlo Maria Giulini, indisposto, sul podio del Concertgebouw di Amsterdam. Circa tre anni dopo ne assume la direzione, fino al 1988. Ha guidato -e guida-, nel ruolo di direttore principale o ospite, le più prestigiose compagini del mondo, come, tanto per dirne solo alcune, la London Philarmonic, i Berliner Philarmoniker, la Chicago e la Boston Symphony, la Lucerne Festival Orchestra, la Chamber Orchestra of Europe. Due anni fa ha debuttato alla Scala con il Requiem Tedesco di Brahms e la Missa Solemnis di Beethoven: “Che bell’orchestra e che coro meraviglioso!” ha dichiarato entusiasta “Li ho incontrati davvero tardi, ma sono contento di esserci riuscito”.
Ha accompagnato la European Union Youth Orchestra, della quale è Direttore Laureato, nella tournée celebrativa dei quarant’anni dalla fondazione [2].
Ha al suo attivo numerose incisioni discografiche per Philips, Decca e Emi; nonché una miriade di esibizioni dal vivo con London e Chicago Symphony, la Symphonieorchester des Bayerischen Rundfunks per le etichette ad esse collegate. Ha pubblicato su disco l’integrale della produzione sinfonica di Ludwig van Beethoven, Johannes Brahms, Robert Schumann, Pëtr Il’ič Čajkovskij, Anton Bruckner, Gustav Mahler, Dmitrij Šostakovič. E senz’altro molto mi sfugge.
Il Maestro ha sempre curato la formazione di giovani talenti: al momento attuale conduce ogni anno una masterclass in direzione d’orchestra al Festival di Pasqua di Lucerna; è docente di direzione alla Scuola Superiore delle Arti di Zurigo e collabora in modo continuo con l’orchestra del Royal College of Music.
Ha ricevuto numerose onorificenze per i suoi meriti musicali, tra cui diverse lauree ad honorem.
Un discorso a parte è il suo rapporto con l’Orchestra Mozart, già da lui guidata in anni precedenti, chiamato dal Collega Abbado quale Direttore ospite.
Un rapporto tutto speciale, di cui ho scritto a più riprese e, in particolare, nel brano pubblicato a gennaio 2017.
Il 25 marzo scorso è apparsa sul periodico La Lettura (Corriere della Sera) un’intervista di Enrico Parola a Bernard Haitink, significativa per conoscere da vicino il personaggio e il legame con l’Orchestra.
Ne riporto alcuni stralci.
“Che significato ha questo progetto” [dell’Orchestra Mozart, in seno all’Accademia Filarmonica] ?
“Bologna è la casa spirituale dell’Orchestra [meraviglioso, Maestro!]: è nata lì grazie a Claudio Abbado, penso sia importante mantenere questo legame. Il LAC di Lugano è una sala perfetta per un’orchestra come la Mozart e per questo repertorio: è un lusso meraviglioso poter maturare lì i programmi”. Atmosfera luminosa che percepisci nella visione, pur giocoforza breve, dei filmati trasmessi in questi giorni dal board dell’Orchestra agli affezionati amici.
“Perché proprio le sinfonie di Mozart e Schubert?”
“Perché sono nel DNA di questa formazione e sono capolavori assoluti: potrei sentirle ogni giorno rimanendone ogni volta stupito [a chi lo dice….]: il finale della Jupiter mi sciocca con la sua fuga stupefacente, nell’Incompiuta e nella Grande di Schubert c’è tutto: intimità, dramma, poesia”.
“Perché è sempre Lei a dirigere l’Orchestra Mozart?”
“Perché m’invitano! E accetto sempre volentieri per un motivo molto semplice: suona benissimo”.
“Che cosa rende speciale questa orchestra?”
“C’è uno spirito collettivo unico, quando sono tornato da loro l’ho percepito subito. La formano musicisti di livello assoluto che adorano suonare insieme, quando ne hanno la possibilità e vi si dedicano totalmente: la considerano una parte importante della loro vita professionale ed umana. E’ sorprendente, soprattutto pensando al panorama odierno, vedere come quest’orchestra sia riuscita dopo più di un anno inattività [e, in precedenza, dopo oltre tre anni] a mantenere una sua identità precisa”.
Parole da incorniciare, che ritraggono un’identità e spiegano l’entusiasmo e la passione di tanti amici.
Giungiamo al Teatro Manzoni con gioiosa trepidazione. Molta gente all’ingresso, visi noti; ci accingiamo a raggiungere i nostri posti: Balconata I; Ordine I; Posti 1 e 2.
Quando, a novembre (!), mi sono prenotata al Festival, ho scelto questa disposizione per tutti e tre i concerti in base ad una motivazione semplicissima: anche se non vedo l’Orchestra da vicino come accade nelle prime file, tuttavia ho la possibilità di abbracciarla per intero, cogliendo gli sguardi dell’uno e dell’altro, a cominciare dal Direttore. Respirerò insieme con loro.
Nell’atrio incrocio Mattia Petrilli e mi congratulo per la suggestiva intervista rilasciata a Repubblica alcuni giorni fa. Ci diamo appuntamento a fine concerto per i saluti.
Sul programma del Festival sono scritti i nomi dei partecipanti, dopo i trionfi lucernesi. In tutto sono 56, di cui 23 stranieri, per quel poco che vale; la Musica non ha confini, lo sappiamo.
Ci sono alcune assenze; ad esempio: Lucas Macias Navarro -ahimé, ma lo so impegnatissimo, non solo come assistente di Daniel Harding a Parigi, ma pure nella brillante carriera di Direttore, iniziata da alcuni anni: ora è in giro per la natia Spagna-; e Raphael Christ; ma, in compenso, ci sono Johane Gonzalez, nonché Thomas Hammerschmidt e Jakob Gollien, trombe d’oro. Oltre a qualche new entry, che non conosco.
Il ruolo di primo violino, Konzertmeister, è affidato a Lorenza Borrani.
Valente artista, fiorentina purosangue, capelli per lo più legati a coda di cavallo, la giovane e schietta Lorenza ha collaborato a lungo con Claudio Abbado: Orchestra Mozart; Chamber Orchestra of Europe; Orchestra di Lucerna.
In un’intervista rilasciata alcuni mesi fa agli Amici della Musica di Firenze dichiarava – mi sembra di udirne la voce- :”…certamente ho visto in Abbado….un musicista che ‘suona l’orchestra’ e la suona dandole l’impressione di essere libera, pur avendola completamente in pugno; senza troppe parole [sottolineatura mia] alle prove lui era in grado di entrare dentro la musica al punto di riuscire poi a farla scaturire da se stesso nel modo più naturale possibile. Non è qualcosa che si può davvero imparare o insegnare“.
Riflessione quanto mai esatta. Osservate i filmati del percorso di Abbado, lungo i decenni. Certo, il modo di dirigere cambia, alla luce delle esperienze di vita e, in particolare, dopo la grave operazione chirurgica subita nel luglio 2000; ma un filo rosso, ben evidente, c’è. L’istante prima di “partire”…Quel sospiro a entrare nella Musica a farla sua; e donarla all’Orchestra e al pubblico, insieme.
Alla fine….Si raccoglie in se stesso. Fa seguire alla Musica diversi istanti di Silenzio. Una mano sul petto, lo sguardo abbassato, pare trattenere il respiro. Grazie a quel gesto, tutti, musicisti e pubblico in sintonia con lui, abbracciano la Magia prima che scompaia, per trattenerla il più a lungo possibile. Più il Silenzio si prolunga, più quella Magia risuona in te. Il Silenzio prezioso, il Silenzio sapiente.
Poi riapre gli occhi e ritorna sulla terra dedicandoti un sorriso dolcissimo. Gli applausi, scroscianti, commossi. Non ho mai visto in nessun altro Direttore, per quanto geniale, una dedizione così piena.
Un insegnamento forte, costante, trasmesso con l’esempio fattivo a chi intenda mettersi in sintonia con lui. Anche oggi. Sintonia non tramite le parole -sappiamo che non amava le chiacchiere-, ma attraverso la Musica.
Di nuovo la nostra Lorenza. Ella, in quella conversazione, ha parole bellissime pure per un altro Maestro col quale ha lavorato nella Chamber Orchestra of Europe: “Veri ‘insegnamenti’ ne ho ricevuti da Nikolaus Harnoncourt le cui prove erano un pozzo di sapere, lezioni pazzesche di musica, rivelazioni sul linguaggio, sulla retorica della musica, condivisione di un bagaglio di conoscenza e di strumenti che ognuno era poi libero di provare ad approfondire e sperimentare da solo. Se quello con Abbado rimarrà il ricordo indelebile di bellissime emozioni e di certi colori che solo lui riusciva a dare all’orchestra, quello che mi / ci ha lasciato Harnoncourt è un sentiero illuminato affascinantissimo e ancora possibile da scoprire e percorrere“. Musicisti come Lorenza hanno imparato da queste luminose figure e divenendo, a loro volta, capaci di trasmettere quegl’insegnamenti a noi spettatori. L’ho vissuto e lo vivo.
Forte di queste esperienze la nostra violinista ha dato vita, nel 2007, con altri due “figli artistici” del Maestro Abbado, Giacomo Tesini e Timoti Fregni, a Spira Mirabilis, la cosiddetta “orchestra senza direttore”, che peraltro tale non è. Ma non ne parlo, poiché intendo evitare l’affastellamento di pensieri e concetti.
In queste giornate Lorenza non poteva mancare.
Puntuali, entrano e tutti li accogliamo con l’affetto che si riserva ad amici aspettati da lungo tempo, venato dal timore, diciamocelo, di non vederli più.
Il Maestro Haitink fa il suo ingresso, saluta pubblico e musicisti. Subito ti senti tranquilla perché sei certa che andrà tutto bene, con una siffatta guida.
Il primo brano di questa sera
W.A. Mozart, Concerto per pianoforte e orchestra n. 25 in Do maggiore (C major), K 503.
-Allegro maestoso
-Andante
-Allegretto
Ad accompagnare l’Orchestra un solista eccezionale: Paul Lewis.
Un sintetico profilo del nostro virtuoso della tastiera.
Nativo di Liverpool (1972) Paul Lewis è considerato uno dei più rilevanti solisti della sua generazione. I recenti cicli dedicati alle Sonate di Beethoven e Schubert hanno riscosso grande favore di pubblico e critica.
Ha ricevuto importanti riconoscimenti internazionali; è ospite regolare di prestigiosi festival e sale da concerto in Europa e nel mondo; ha collaborato con molti grandi direttori, quali Sir Colin Davis, Bernard Haitink, Daniel Harding, Andriss Nelsons, Paavo Järvi e molti altri.
Ha suonato e suonerà con le più rilevanti orchestre inglesi e americane, con l’orchestra della Radio Bavarese e l’Orchestra del Concertgebouw, con la Mahler Chamber Orchestra; e ha in programma récital con la Filarmonica di Berlino, la Konzerthaus di Vienna, l’Orchestra Hall di Chicago e altre.
L’imponente e premiata discografia include tutte le Sonate, i Concerti e le Variazioni Diabelli di Beethoven[3], la Sonata in si minore di Liszt, le più importanti Sonate di Schubert e tre cicli di Lieder con Mark Padmore.
In programma ha poi il Concerto n. 1 di Brahms con l’orchestra della Radio Svedese e Daniel Harding, nonché brani di Schumann e Musorgskij.
Lewis ha studiato con Joan Havill alla Guidhall School of Music and Drama di Londra (istituzione nata nel 1880) e si è specializzato privatamente con un’altra stella del Pianoforte, Alfred Brendel.
Con la moglie, la violoncellista norvegese Bjørg Lewis è direttore artistico di Midsummer Music, una rassegna annuale di musica da camera nel Buckinghamshire, in Gran Bretagna.
Nell’ottobre 2015 è divenuto direttore artistico del Concorso Pianistico Internazionale di Leeds.
In merito al concerto di stasera Lewis dichiara a Enrico Parola: “E’ tra i miei preferiti; il più ambizioso e sinfonico, nonostante ci sia un dialogo quasi cameristico tra le sezioni e abbia momenti di grande intimità; il secondo movimento è di una struggente tenerezza; mentre il finale riesce ad essere addirittura divertente e quasi umoristico”. E colmo di gioia, aggiungo.
Altra precisazione, che vale pure per i prossimi concerti. Le pagine che seguono sono frutto di una mia, sia pur breve e sommaria, ricerca storica e quindi sono ispirate a diverse “guide all’ascolto”. Le frasi tra parentesi quadra sono le impressioni dello spettatore, cioè della sottoscritta.
Terz’ultimo tra i concerti pianistici mozartiani il n. 25 (K 503) è stato terminato -così ci dice la data riportata sull’autografo- il 4 dicembre 1786 [4], nel periodo tra la prima esecuzione delle Nozze di Figaro e la commissione di Don Giovanni. Negli ultimi cinque anni di vita Mozart avrebbe composto solo altri due concerti, lasciandosi alle spalle il periodo più fecondo per questo genere di composizioni (tra il 1782 e il 1786 ne aveva scritte ben 14), a causa del declino di interesse verso di esse da parte del pubblico viennese, con conseguente riduzione dell’attività di interprete al pianoforte.
Un impegno che gli aveva dato grande celebrità come virtuoso esecutore delle proprie composizioni e che ora sembrava scemare.
Sembra infatti che il concerto fosse destinato a Praga, città che si apprestava ad accogliere trionfalmente il compositore proprio nel momento in cui Vienna gli voltava le spalle.
Il debutto avvenne il 7 marzo 1787, a Vienna, presso il Großer Redountensaal del Burgtheater.
Il concerto K 503 è tutto un gioco di rimandi che fanno emergere ora l’orchestra ora il pianoforte. Non ci troviamo di fronte alla “lotta” tra i due che troveremo nei concerti della maturità beethoveniana, ma ad una interazione ed a una collaborazione tra le parti.
Il primo movimento (Allegro maestoso) si apre con un piccolo frammento melodico che riaffiorerà più volte in tono vivace ed energico. Il secondo tema presenta forti analogie con la Marsigliese, ma ciò è del tutto casuale se consideriamo che la Marsigliese è con ogni probabilità nata attorno al 1792 (al contrario, è stata avanzata l’ipotesi che sia stata la musica della Marsigliese a essere stata ispirata da questo concerto!).
[Vivendo da vicino e riascoltando questo primo movimento, grazie pure alla nitidezza del pianoforte, il richiamo alla Marsigliese è molto più evidente rispetto ad un ascolto differito. Si tratta di una Marsigliese più raffinata dell’inno nazionale francese; ma è evidente che il contesto è lo stesso. Sono anni di lotta e conquista della Libertà].
Il secondo movimento (Andante) è scritto secondo i criteri della cosiddetta “forma sonata”, sebbene le melodie possano considerarsi aperte a sviluppi non prevedibili.
[Il flauto di Herman van Kogelenberg e il clarinetto di Mariafrancesca Latella guidano gli altri che li assecondano in modo mirabile; Paul Lewis ha un’eccezione capacità di integrarsi con l’Orchestra; sa, in modo tutto suo, interpretare i diversi temi e porgerli ai musicisti. E il Konzertmeister Borrani riesce ad amalgamare solista ed orchestra da par suo; compito assai delicato].
L’Allegretto del terzo movimento è costruito in forma di rondò ed il tema iniziale, che sembra riecheggiare una gavotta (e quindi una danza popolare) [5] presente nell’Idomeneo, viene elaborato da Mozart in modo colto con un uso del contrappunto e di cromatismi innovativi.
[Musica del tutto diversa dalla precedente. Le due trombe Thomas Hammerschmidt e Jakob Gollien ti incantano; il tema principale, la gavotta appunto, è ripreso poco dopo dal pianoforte in modo fantastico].
Ecco un’istantanea nata dalla sensibilità di Marco Caselli Nirmal, autore di tutte le fotografie che qui riproduco, ben lieto della mia condivisione.
Paul Lewis, Lorenza Borrani, Giacomo Tesini
Applausi, applausi!!!!
Molti, anche a gran voce, chiedono un bis a Lewis. Questi, sorridente, s’inchina più volte verso gli spettatori speranzosi, ma…….scompare per sempre dietro la porta. Pare che nemmeno il pubblico di Lugano, da questo punto di vista, sia stato accontentato.
Offro un’altra versione di questo bellissimo concerto, interpretata da protagonisti di tutto rispetto: Mitzukho Uchida con Riccardo Muti.
Dopo un breve intervallo, ecco la seconda meraviglia.
Franz Schubert, Sinfonia n. 9 in Do maggiore, D 944, La Grande
La Sinfonia si divide in quattro Movimenti:
– Andante. Allegro ma non troppo
– Andante con moto
– Scherzo. Allegro vivace
– Allegro vivace
ed è strumentata per un’orchestra composta da: 2 flauti; 2 oboi; 2 clarinetti; 2 fagotti; 2 corni; 2 trombe; 3 tromboni, timpani in do e sol e archi (2 sezioni di violini, viole, violoncelli, contrabbassi).
L’avventurosa storia di questa Sinfonia merita di essere raccontata, ampliando la narrazione dia Giacomo Tesini nell’ultimo incontro preparatorio del Festival, la sera del 9 marzo scorso (v. su questo sito).
Nell’estate 1825, durante una vacanza in Stiria, Franz Schubert lavorò ad una sinfonia di cui parlano le lettere scambiate con gli amici. In un primo momento si ritenne misteriosamente perduta quest’opera, detta all’inizio “di Gmunden e di Gastein”; ma, in seguito, la si identificò con la Sinfonia in do maggiore D 944, l’ultima terminata dal musicista, otto mesi prima di morire.
La data, 1828, che si legge sull’originale autografato, è quella del compimento.
In quell’anno Schubert offrì la partitura alla Società degli Amici della Musica di Vienna per un’esecuzione “ufficiale”; ma il lavoro risultò troppo complesso e lungo per le forze dell’Orchestra della Società. Egli allora propose, in sostituzione, l’altra opera in do maggiore, la Sesta (chiamata poi la “Piccola”, per distinguerla dall’altra). La Sinfonia n. 6 fu eseguita, ma nel concerto commemorativo di Schubert, morto nel frattempo; la n. 6 ebbe quindi, in tale occasione, la sua prima esecuzione pubblica.
La n. 9 fu, in sostanza, dimenticata, e la partitura autografa passò in eredità al fratello Ferdinand (nella cui casa egli era morto, nel pomeriggio del 19 novembre 1828), il quale, pure lui musicista, non si rese tuttavia conto dell’incredibile valore artistico di questo lavoro di Franz.
Nel 1839, come sappiamo dalla voce di Giacomo, Robert Schumann fece visita a Ferdinand e i due esaminarono insieme molte carte.
“Le ricchezze che giacciono qui accumulate mi hanno riempito di gioia. Non si sa da che parte cominciare. Tra l’altro, mi hanno mostrato i manoscritti di parecchie sinfonie. Molte non sono mai state eseguite, o sono state messe da parte perché troppo difficili, o troppo ampollose”.
Tra quella copiosa documentazione Robert rinvenne il tesoro della Sinfonia n. 9 e da quel musicista colto, sensibile e aperto quale era si rese immediatamente conto dell’importanza storica del ritrovamento.
Schumann propose l’opera all’amico Felix Mendelssohn che la diresse -nei primi due movimenti- al Gewanhaus di Lipsia (di cui era responsabile) il 21 marzo 1839; ne scrisse un’indimenticabile recensione, poco tempo dopo, sulla sua Rivista Zeitschrift für Musik. Ecco alcuni brani del commento: “…….chi non conosce questa sinfonia conosce ancor poco di Schubert, questa lode può sembrare appena credibile se si pensa a tutto quello che Schubert ha già donato all’arte…………..In questa sinfonia si cela qualcosa di più di una semplice melodia e dei sentimenti di gioia e di dolore che la musica ha già altre volte espresso in cento modi; essa ci conduce in una regione dove non possiamo ricordare d’essere stati già prima………….Oltre ad una magistrale tecnica musicale della composizione, qui c’è la vita in tutte le sue fibre”.
Negli ultimi anni della sua vita, Schubert era tormentato dal pensiero di comporre una “Grande Sinfonia”. Quando -il 7 maggio 1824, presso il Theater an der Wien- fu eseguita, per la prima volta, la Nona Sinfonia di L. van Beethoven, Schubert ne fu molto colpito ed incoraggiato nel suo impegno.
La “Grande” è un autentico fiume in piena, colma di gioia e di slancio, pur con evidenti venature drammatiche; a ragione è considerata tra le vette della Musica.
Riporto una breve analisi tratta dalla Rivista on line IRRE VENETO dell’8 marzo 2017, con le mie interpolazioni da amatore.
“ I. ‘Andante. Allegro, ma non troppo’. La sinfonia inizia con un breve motivo romantico affidato ai corni [Bravissimi José Vicente Castello e Giuseppe Russo]: il motivo doveva forse dare l’impressione di una foresta, ma richiama alla mente anche qualcosa di simile a una marcia di pellegrini. Il tema è introdotto dai fiati, dalle viole e dai violoncelli, poi erompe come una fanfara dai fagotti, e tutto il suo spirito romantico è ampiamente sviluppato prima che l’andante lasci il posto all’allegro. Il tema principale, ritmico e potente, è martellato con forza dall’intera orchestra, prima di addolcirsi in un tema secondario, svelto e grazioso, affidato ai fiati [in primis flauti e clarinetti]. Ci sono alcune parti incomparabili; come, ad esempio, quando il tema iniziale è ripreso pianissimo dai fagotti (uno dei più noti e dei più frequentemente citati esempi di pianissimo di tale strumento). [Alla fine torna il tema principale, arricchito]
Il secondo movimento, ‘Andante con moto’, ha le caratteristiche di una marcia lenta. [Iniziano gli oboi, Andrey Godik e Miriam Pastor Burgos, a seguire il clarinetto di Maria Francesca Latella]. Non è improbabile che Schubert abbia preso a modello l’allegretto della Settima Sinfonia di Beethoven. La marcia di Schubert è in la minore, ma di tanto in tanto modula nel tono maggiore, con un effetto, caratteristico in Schubert, che è stato paragonato a “giochi di luci ed ombre su un paesaggio”. I motivi nascono l’uno dall’altro, susseguendosi come se il compositore non potesse rassegnarsi ad abbandonarli [affascinante caratteristica di Schubert]. Alla metà di questo movimento troviamo uno dei più noti passaggi per coro: solo poche note molto semplici, ma di un effetto indescrivibile.
Il terzo movimento è uno ‘Scherzo. Allegro vivace’, ma ha le medesime vaste proporzioni degli altri. La parte principale, da sola, ha le dimensioni di un tempo normale ed è in forma sonata. Questo terzo tempo si apre con uno staccato degli archi, poi seguono due graziose melodie popolari. Il “Trio” ha le caratteristiche di un valzer viennese.
Il finale. ‘Allegro vivace’, e come una cavalcata senza fine su un aspro terreno. Vengono continuamente introdotti nuovi capricci e diversioni. La partitura originale rivela che Schubert ebbe per un momento l’intenzione di chiudere quest’ultimo movimento con una fuga. Ma, dopo aver scritto circa nove battute, cambiò idea. Le cancellò e continuò con un nuovo tema: dominato da quattro note ripetute. Si servì di queste quattro note per architettare una coda che, come si espresse Tovey, è ‘irresistibile, come se l’ultimo tocco fosse stato dato da Beethoven o da Michelangelo’ ”.
E ti commuovi come non mai nel percepire simili esplosioni di vita in un uomo con il quale la sorte fu avarissima e che morirà solo un anno dopo a soli trentun anni.
Anche un semplice, appassionato spettatore come la sottoscritta ad ascoltare e rivivere questa Sinfonia comprende come, senza Schubert, non ci sarebbero stati certo né Anton Bruckner né Gustav Mahler.
Entusiasmo incontenibile del pubblico. Ma pure un profondo affetto verso il Maestro verso tutti loro. Haitink abbraccia Lorenza Borrani, tutti si alzano, secondo tradizione, mentre egli li indica uno ad uno, ma non è vuota tradizione, bensì amore condiviso. Il Direttore va e torna più volte, è felice. Sono istanti in cui, a parlarne e scriverne, rischi di cadere nel banale. Meglio godersi questi momenti nel silenzio; consapevoli che, al di là di tutto, la “Grande” è davvero… grande: musica meravigliosa, ma difficile con i suoi continui “cambi di passo”.
Amore e applausi, nella consapevolezza dell’unicità di questo gruppo, nel loro magico ritrovarsi, anche dopo periodi di tempo abbastanza lunghi. Nel loro suonare “così” solo quando sono insieme.
Ripenso alle parole di Giacomo Tesini, pronunciate in un’intervista rilasciata durante le giornate a Lugano. In quell’occasione, egli, tra l’altro, metteva in risalto lo sforzo di tutti, ora come in passato, per mantenere l’eccellenza alla quale sono stati formati. Sforzo organizzativo (è logico) e sforzo artistico. “Sentiamo fortissima la responsabilità nata dal nostro rapporto con Claudio Abbado; il nostro compito, con tutto l’impegno, è onorare questo ricordo”.
Dalla mia postazione non ho perduto un secondo di questa esperienza. Ho seguito tutti i 56 prodi, il loro accordo, il loro guardarsi e cercarsi.
E ho seguito lui, Bernard Haitink.
Non insisto sul dato anagrafico; in questo osservo un criterio, per così dire, “abbadiano”: l’età ha un valore se non nullo, almeno insignificante.
Ma ho l’impressione, anzi la consapevolezza, che rispetto allo scorso anno, egli sia come…ringiovanito. Più vigoroso, più lieto, più in sintonia con tutta l’Orchestra; più legato a questo pubblico.
L’altissima sensibilità e preparazione quale base, si accompagnano ad un profondo rispetto nei confronti di questa compagine, che egli ben sa avere ricevuto un “carattere” indelebile; e quel carattere Haitink sa rispettarlo. Anzi, lo asseconda in tutti i modi. Perla rara.
Johane Gonzales, contrabbassista venezuelano, in un’intervista rilasciata a Helmut Failoni il 5 aprile scorso dichiara: “Haitink ascolta tutto, ci lascia la libertà di Claudio. E noi, quando parla, stiamo sempre però seduti in punta di sedia con la schiena dritta. Posizione che i musicisti assumono solo quando parla un grande direttore”.
Un attimo prima dell’ “Allegro vivace” finale una chicca quasi impercettibile, ma che ho colto e che mi ha emozionato. Un sorrisetto appena accennato del Maestro e un gesto delle labbra a dire: “Ragazzi, forza: va tutto alla perfezione!”
Claudio Abbado amava particolarmente Schubert: è l’Autore col quale (Sinfonia n. 8, Incompiuta, che vivremo dopodomani), venticinquenne, aveva vinto il concorso Koussevitsky a Tanglewood negli USA: punto di partenza di una carriera fuor del comune. Come sappiamo, Incompiuta di Schubert è stata, insieme a Incompiuta di Bruckner, n. 9, la sua ultima direzione, l’indimenticato concerto a Lucerna del 26 agosto 2013, con la Lucerne Festival Orchestra.
Quanto alla “Grande”, egli l’aveva a lungo approfondita.
Con l’Orchestra Mozart c’è una splendida esecuzione del 2011, uscita postuma in CD. Qui lo sfondo è il Teatro Farnese di Parma, riaperto al pubblico dopo oltre 200 anni grazie al fondamentale interessamento di Claudio Abbado. Egli vi diresse la Mozart in un concerto memorabile (giugno 2011) che peraltro non comprendeva questa Sinfonia. Misteri artistici!!!!
Ne propongo in video un’altra, sempre di Abbado, con la Chamber Orchestra of Europe; altrettanto coinvolgente e col vantaggio, per chi vede e ascolta, di toccare con mano l’entusiasmo di Direttore e Orchestra.
Saluto doveroso ai ragazzi, stanchi e felici.
All’ingresso, in mezzo a tante persone, riconosco Francesco Maria Colombo, di Milano.
Musicista sensibile, musicologo competente e stupendo fotografo. E venuto qui, oltre che ad assistere al concerto, anche per donare al Direttore un’immagine che gli scattò tempo fa. “Gliel’hai data? Gli è piaciuta?” domando. “Sì! Gli è piaciuta molto! Anzi, ha chiesto, figurati lui a me, di mettergli un autografo sulla fotografia”.
Episodi che rendono l’esistenza un sogno realizzato.
A Domani.
SABATO 7 APRILE 2018
Ore 16:00.
Una bellissima iniziativa, al pomeriggio. Alcuni componenti dell’Orchestra si trovano nei locali della Cineteca nel: Laboratorio “Cinema e Musica per Bambini”, a cura di “Schemi e Lavagne” [6].
I valorosi del Quartetto Mirus -Federica Vignoni, Massimiliano Canneto, Luca Bacelli e Riccardo Savinelli- con Daniele Carnio, contrabbassista, in Cineteca, anzi in…Cinnoteca per usare l’idioma locale, coi bambini in un pomeriggio musicale dedicato a Mozart e al suo Flauto magico.
Potere della Musica di rendere i ragazzi felici, di facilitarne la socializzazione, di costruire persone serene ed equilibrate, che sanno dialogare.
Si continua.
ore 18:00, Teatro Auditorium Manzoni
Ci sono dei furbacchioni i quali, vallo a capire, hanno deciso di snobbare questa ghiotta occasione; ragion per cui, come ci comunica una giovane “maschera” all’ingresso, ci sono diversi posti liberi in platea.
Considerato che non c’è, per la sottoscritta l’esigenza di “controllare” l’Orchestra passo passo, poiché sono di scena due concerti cameristici, ne approfittiamo per sederci nelle prime file.
Bene. Concerto da Camera con I Solisti dell’Orchestra Mozart
György Ligeti, Sei bagatelle, per Quintetto di fiati
Franz Schubert, Ottetto in Fa maggiore, D 803
Che significa, in senso musicale, “Bagatella”?
Una bagatella o bagattella, in francese bagatelle, è un breve componimento musicale, di solito per pianoforte, ma pure usato nella musica da camera. Di solito presenta una struttura molto semplice e ha un carattere lieve.
Fra le bagatelle più famose ci sono quelle composte da Beethoven -e ti pareva che non si fosse cimentato anche in questo, magari nei rari momenti di serenità?-, tra le quali rammentiamo: Opus 33; Opus 126 e l’arcinota Per Elisa (sì Passion flower degl’indimenticati, per alcuni, anni ’60!).
Un rilevante contributo al genere viene pure da Anton Webern, il quale nel 1913 compone le Sei Bagattelle Op. 9 per Quartetto d’archi (brano meraviglioso, pur all’inizio un po’ difficile).
Negli anni più vicini abbiamo le Cinque Bagatelle per chitarra composte da William Walton e rappresentate nel 1972; nonché, prima ancora, le Sei bagatelle, per Quintetto di fiati di György Ligeti (1953) che ci godiamo stasera.
Una breve biografia dell’Autore.
György Ligeti (Târnǎveni, 28 maggio 1923 / Vienna, 12 giugno 2006), nato ungherese e naturalizzato austriaco, è uno dei maggiori compositori del XX secolo.
La sua formazione musicale fu interrotta nel 1943, allorché, in quanto ebreo, fu costretto ai lavori forzati dal regime nazista (i familiari furono deportati ad Auschwitz e uccisi; tranne la madre che sopravvisse).
Dopo la guerra studiò a Budapest (dove incontrò, tra gli altri, Zoltàn Kodaly), ma nel 1956, a seguito della repressione della rivolta contro il regime comunista, si rifugiò a Vienna ed ottenne la cittadinanza austriaca. In Austria ebbe la possibilità di incontrare personalità importanti, come Karlheinz Stockhausen e Gottfried Michael König. Nel 1958 lavorò alla West Deutsche Rundfunk di Colonia, dal 1959 ai corsi di Darmstadt, creando alcuni brani di musica elettronica. Dal 1973 al 1989 è stato docente di composizione alla Hochschule für Musik di Amburgo. Considerato fra le personalità più originali della Nuova Musica, la sua poetica è caratterizzata da un linguaggio che, partendo da ricerche sul timbro e con la tendenza a “impressionistiche ipnosi”, si muove per fasce sonore, rielaborando, nei suoi studi sulle densità sonore degli strumenti tradizionali, le esperienze della musica elettronica, ma con finalità espressive che puntano all’emozione di una materia musicale reinventata e carica di misteri (Apparitions, 1958-59; Atmospheres, 1961). Nell’attività creativa a partire dagli anni Settanta sviluppò l’attitudine a una raffinata e inquieta manipolazione di tutti i parametri del suono, creando ironiche, bizzarrie e violente accensioni timbriche, spesso legate a una ricerca esplicita di teatralità, in specie nell’opera Le Grand Macabre (1978, rivista nel 1996).
Le sue composizioni più tarde tendono ad allontanarsi dal senso di stupite e illusorie sonorità che caratterizzavano i suoi lavori nati nel clima di Darmstadt -1959, come detto sopra-, quali Continuum, per clavicembalo, 1968; Clocks and Clouds, 1972-73; Trio, 1982.
Fra le altre composizioni: Volumina, per organo (1961-62); Adventures e Nouvelles adventures (1962-65); Requiem (1963-65); Concerto per violoncello (1966); Lontano (1967); Ramifications (1968-69); San Francisco Polyphony (1974); Concerto per pianoforte (1985-88); Concerto per violino (1992); Études pour piano (1985-2001); Hamburgisches Konzert (1998-2003).
Un Autore tutto da scoprire; talora un po’ impegnativo, ma in grado di donare notevoli soddisfazioni, non solo ai musicisti, ma pure ad ascoltatori motivati.
E vai con Ligeti.
Sul palco, per noi:
Herman van Kogelenberg – Flauto
Andrey Godik – Oboe
Igor Armani – Clarinetto
Pierre Gomes – Fagotto
José Vicente Castello – Corno
Le Sei bagatelle per Quintetto di fiati sono state composte a Budapest nel 1953 e appartengono quindi alla prima fase compositiva di Ligeti, nella quale è ben percepibile l’influenza di Bela Bartòk e Igor Stravinskij. L’opera infatti fa parte della più ampia raccolta pianistica “Musica ricercata” (risalente agli anni 1951/1953 in un periodo di isolamento artistico) composta con l’intenzione di allontanarsi da questi modelli e di definire uno stile personale; obiettivo raggiunto solo in parte, per ammissione dello stesso Autore.
Musica piacevolissima, orecchiabile e tradizionale (nel senso migliore del termine), la cui pubblicazione ed esecuzione fu proibita dal regime (come, del resto, altre pagine di Ligeti).
Solo nell’autunno nel 1956 le Bagatelle poterono essere eseguite a Budapest dal Jeney Wind Quintet, ma solo cinque su sei. L’ultima (Molto vivace – Capriccioso; a mio avviso, la migliore) fu accusata di contenere troppe dissonanze. Figuriamoci……
L’esecuzione completa è avvenuta solo il 6 ottobre 1969 (!) a Södertälje, Svezia.
Eccone i titoli:
-Allegro con spirito
-Rubato. Lamentoso
-Allegro grazioso
-Presto ruvido
-Adagio. Mesto (in memoria di Bela Bartok) . Allegro maestoso. Adagio maestoso.
-Molto vivace. Capriccioso.
Il Flauto domina o almeno dirige in una sintesi d’eccezionale suggestione. In Allegro grazioso ti stai divertendo in campagna; mentre in Presto ruvido il tono è davvero….ruvido con reminiscenze di sapore medievale, carnascialesco; seriosa è la quinta bagatella, mentre l’ultima è lieta e sembra voler prendersi gioco del supercilioso potere.
Meritati applausi ai nostri musicisti.
A seguire un saggio eseguito
dal gruppo Slowind il 3 gennaio 2017 presso il Teatro verdi di Trieste
Tanto per non dimenticarci -nemmeno per un attimo- del grande Schubert.
Gli Otto-Grandi-Otto:
Francesco Senese, Manuel Kastl -Violini
Behrang Rassekhi – Viola
Gabriele Geminiani – Violoncello
Johane Gonzalez – Contrabbasso
Mariafrancesca Latella – Clarinetto
Guilhaume Santana – Fagotto
José Vicente Castello – Corno
Qui un primo piano di Johane Gonzalez Seijas, venezuelano di nascita e berlinese di adozione, contrabbassista; personaggio chiave dell’orchestra, anche per la sua storia personale, come ho avuto modo di scrivere in altri commenti.
La composizione dell’Ottetto in fa maggiore occupò Schubert per un mese il febbraio 1824. L’opera gli era stata commissionata dal Conte Ferdinand Troyer, clarinettista dilettante, intendente dell’Arciduca Rodolfo (a sua volta già committente di Beethoven). Nell’incarico era stata posta la clausola che l’Ottetto fosse “esattamente come il Settimino di Beethoven [7]”. Schubert compose un brano molto vicina al modello, con l’identico numero di movimenti e la loro disposizione; identica composizione dei fiati col clarinetto, il corno, il fagotto (c’è solo un violino in più): il che fu apprezzato sia nell’esecuzione privata, nella primavera di quell’anno (con la partecipazione dello stesso committente), sia nell’evento organizzato circa tre anni dopo dal violinista Schuppanzigh per aiutare finanziariamente Schubert in difficoltà economiche.
Il temperamento lirico e romantico è presente fin dal rimo movimento, un “Adagio”, il primo, in forma sonata classica con i due temi, uno lento e l’altro vivace, fusi in modo perfetto. Il successivo “Adagio” è dominato dal timbro pastoso del clarinetto, in armonia con gli altri.
L’ ”Allegro vivace” è una sorta di scherzo, intercalato da un “Trio” con toni popolareschi.
L’ “Andante” è ricco di variazioni (sette) e riprende un tema idilliaco del duetto d’amore presente in un’opera composta nel 1815, Gli amici di Salamanca. Commoventi gli assoli di violino (Francesco, Manuel) e clarinetto (Mariafrancesca).
Sfumato ritmo di danza nel “Minuetto” (“Allegretto e “Trio”), coi lontani accordi del corno (José), sullo sfondo.
L’ “Andante molto” ha un che di misterioso e drammatico, come di sospensione; ma tutto si compone gioioso nell’ “Allegro” finale con la sua corale, sfavillante conclusione.
Secondo il musicologo britannico Maurice Brown, che ha collaborato alla pubblicazione del catalogo tematico di Schubert insieme ad Otto Erich Deutsch (Vienna: 1883 /1967) [8], diversi studiosi hanno osservato come l’Ottetto “riassume lo spirito della Vienna Biedermeier, con la musica delle sue strade, dei suoi Caffehäuser, dei suoi teatri, del suo Prater, delle sue sale da ballo”.
Applausi entusiasti a questo bellissimo gruppo.
Ecco, alle prese con l’Ottetto, un altro gruppo di giovani a loro volta assai validi.
Siamo a Trieste, Palazzo del Governo, il 4.4.2013, , con il Mahler Jugend Ensemble
Un breve spuntino a casa; poi, via, all’ultimo appuntamento di questa seconda giornata, chiamato The Late Night Concert, Concerto dei Solisti della Mozart.
Ore 22:30, Contesto insolito.
Ci ritroviamo in un bel localino, a due passi da casa nostra, chiamato Il Rialto, situato sulla via omonima in un interno cui si accede dopo un breve percorso in salita.
Arredamento e clima bohémien, cucina semplice e raffinata, aperto dalle 19 fino a tardi.
Sulla soglia Gabriele si fuma con gusto una sigaretta e, poco dopo, appare Luca, con l’aria un po’ accaldata: Una sauna, là dentro…! Ride per poi scomparire di nuovo all’interno.
Entriamo e subito si fa incontro Johane intento a bere un invitante cocktail giallo carico.
Come va? Benissimo! Il contrabbasso, è sempre “quello”, vero? SEMPRE!!!! Siamo a posto, allora.
Il contrabbasso gli fu donato dal Grande Direttore che volle premiare questo (allora) giovanissimo, di semplici origini, pieno di cuore, impegno, talento.
Nell’ambiente centrale, il più grande, tavoli e seggiole sistemati qua e là; ti senti subito a casa.
Ci sono diversi membri dell’Orchestra, abbigliati in modo informale, sorridenti e rilassati.
Behrang, Maria Francesca, Giacomo, Manuel, Francesco, José, Gisella, Gabrielle, Nicola, Miriam e diversi altri.
Le ragazze dello staff: Laura, Virginia, Paola.
Il Presidente Azzaroni ha l’aria soddisfatta e accoglie festante un paio di paio di signore, forse un po’ stupite nel vedere musicisti di fama in un contesto lontano da quello consueto di una sala da concerto: qui sembra di essere a Vienna, dove la Musica è pane quotidiano.
Poi si gusta una pausa; meritatissima dopo tanta fatica e tensione. Pensate solo a quanto è successo negli ultimi tempi. Gioia per la rinascita dell’Orchestra, certo; ora poi, con questo importante partner quale è il LAC, si può pensare al dopo con maggiore serenità. Ma prima….A volte non basta impegnarsi al massimo perché tutto vada per il meglio. Alla vigilia della partenza per Lugano avevo scambiato qualche battuta con lui ed avevo colto, dietro al sorriso, un filino di preoccupazione. Anche se non era la prima volta a Lugano (già si fecero conoscere a gennaio 2017), questa Pasqua svizzera ha avuto il sapore di un debutto.
Ci sediamo, mentre ci viene offerto un bicchiere di ottimo bianco.
Sono previsti tre brevi concerti.
Il primo.
Trio d’archi di Franz Schubert -questo ambientino gli sarebbe piaciuto, sono sicura- in Si bemolle maggiore, D 471.
Gisella Curtolo – Viola
Gabrielle Shek – Violino
Martin Leo Schmidt -Violoncello
Breve introduzione a cura di Gisella: scritto quando l’Autore aveva diciannove anni, nel 1816, è un brano semplicissimo, due paginette, come sottolinea lei con passione, ma denso di pensieri e sentimenti. C’è davvero tutto in questi pochi istanti.
Eccone un esempio.
Delizioso.
Il nostro “Trio”
Gabrielle, molto concentrata.
Lo Spartito!!!!
Il secondo “pezzo” è piacevole come certi cioccolatini fondenti che ti si sciolgono in bocca, ma dei quali ti resta il sapore a lungo, nella mente e nel cuore.
Si tratta di Opus Number Zoo di Luciano Berio [9].
Fu scritto nel 1951, poi revisionato nel 1970.
Si tratta di un breve lavoro, scritto apposta per un pubblico giovanile, ma adatto a tutte le età. L’opera è costituita da quattro brani a ciascuno dei quali corrisponde un testo letto dagli stessi musicisti, in singolo o assieme. I testi sono stati composti dalla regista e coreografa newyorchese Rhoda Levine e narrano le vicende di alcuni animali; tema sempre affascinante.
Il primo brano si chiama Ballo campestre (Bam Dance) e racconta di una volpe furba che gioca, si fa per dire, con un pulcino indifeso.
Protagonista del secondo è il Cavallo (The Fawn, lett. il Cerbiatto) che ascolta preoccupato i rumori di una battaglia lontana.
Assai significativo il testo, che riporto.
“Urla di bombe e grida di battaglia,
questo sente, questo sente il cavallo
di lontano
questo sente il cavallo, solo in mezzo a un campo,
e questo pensa il cavallo in mezzo a un campo
Quale follia, quale follia. Questa gente umana è folle.
Riduce il mondo a niente e distrugge
tutto quello che
c’è di vivo, di bello e di gentile.
Per quale ragione? Perché?
Perché? Per quale ragione?
Questo pensa il cavallo
in mezzo a un campo,
ascoltando di lontano urla di bombe,
e grida di battaglia. Perché? Perché?”
Nel terzo, il Topo (The Grey Mouse), un topo molto saggio, c’è un movimento veloce, tutto giocato sui ribattuti.
Infine, l’ultimo brano è uno spiritoso incontro /scontro tra due gatti rissosi, Gattacci (Tom Cats) molto… umani. Mi vengono in mente le liti furibonde che alcuni anni fa si svolgevano sui tetti della nostra casa tra i gatti dei vicini; talora svegliandoci nelle notti d’estate.
Qui la componente spettacolare raggiunge il culmine.
Una breve Suite per fiati raccontata da chi la suona; e cioè dagli eccellenti:
Mattia Petrilli – Flauto
Miriam Olga Pastor Burgos – Oboe
Mariafrancesca Latella -Clarinetto
Guilhaume Santana, Fagotto
Giuseppe Russo, Corno
i quali, a cominciar da Mattia,
sono coinvolti alla grande rendendo con efficace grazia tutta l’ironia della musica di Berio quella dei testi di Rhoda Levine.
Ecco un’altra interpretazione:
Marco Caselli, il nostro grande fotografo, è un po’ affaticato da questo tour de force; teniamo conto che assiste pure alle prove, buttandosi, senza interferire coi musicisti!, a destra e a manca per trovare le inquadrature più significative. Ogni tanto prende fiato: scambia due parole con noi e chiacchiera con alcune persone interessate a questa orchestra multiforme, tra le quali un pittoresco signore barbuto con camicia a scacchi. Poi riprende a scattare le sue impagabili istantanee, che saccheggio -opportunamente autorizzata da lui-.
Vengono serviti i “taglieri”, con salumi e formaggi. Mauro stappa una bottiglia di rosso, niente male!
Atmosfera giocosa e familiare, di casa.
Il quarto e ultimo brano è occasione per conoscere un autore profondo, originale, Giovanni Sollima, violoncellista e compositore.
Nato a Palermo nel 1962 da una famiglia di musicisti, si diploma in violoncello e composizione presso il Conservatorio di Palermo e si specializza poi a Salisburgo e a Stoccarda.
Ben presto inizia una brillante carriera di violoncellista collaborando con figure di grande rilievo internazionale, quali Giuseppe Sinopoli, Bruno Canino, Martha Argerich e altri, via via nel tempo -Ruggero Raimondi, Claudio Abbado e Riccardo Muti compresi-.
Insieme all’attività di solista, il suo spirito innovativo in costante ricerca che sa avvalersi di una solida preparazione classica, lo porta ad affrontare nuove strade sulla strada della composizione, attraverso contaminazioni, mai fini a se stesse, né banali, con generi diversi e all’apparenza inconciliabili, come il jazz, il rock, la musica folkloristica, utilizzando strumenti elettrici, elettronici; e altri ancora, di sua invenzione.
Le sue opere sono conosciute ed eseguite in tutto il mondo.
Fra i numerosi compact disc si ricorda Aquilarco, realizzato nel 1997 per la Point Music su invito di Philip Glass. Questo brano diviene nel 2000 il tema principale della colonna sonora del capolavoro di Marco Tullio Giordana I cento passi, mentre sono innumerevoli le sue utilizzazioni in campo coreografico, in Italia e all’estero.
Nel 2001 Gidon Kremer e la Kremerata Baltica incidono per la Nonesuch/Warner la sua composizione più eseguita nel mondo: Violoncelles, vibrez!, tutto un programma: ballata per due violoncelli e archi.
Nel 2002 scrive la musica dell’opera Ellis Island (Teatro Massimo di Palermo, protagonista la popstar Elisa) e dello spettacolo Ring (Teatro Valle di Roma per RomaEuropaFestival, testo e regia di Alessandro Baricco).
Molte delle sue composizioni sono edite dalla Casa Musicale Sonzogno di Milano.
Stasera ci viene offerto un brano per quartetto d’archi, dal titolo Sonnets et Rondeaux.
Risale al 2007 e fu commissionato a Sollima dal Concorso Internazionale per Quartetto d’Archi.
Con noi:
Nicola Bignami – Violino
Valentina Bernardone -Violino
Ada Meinich –V iola
nonché
Luca Franzetti -Violoncello. Scommetto che è stato proprio lui a proporre il pezzo di stasera, a prescindere dal fatto che sia, a sua volta, violoncellista.
Il carattere fantasioso, burlone e l’aria soddisfatta che esibisce lo rivelano.
Una Musica piena di vita spumeggiante, ella quale riconosci la profonda cultura e ricerca di Sollima.
Le radici classiche si sposano alla perfezione con i canti popolari.
Breve, articolato in tre movimenti, si caratterizza per un avvio pianissimo del violoncello -noblesse oblige..- poi la voce si alza, indi seguono gli altri in un crescendo pirotecnico.
Un assaggio, tanto per dare l’idea.
Un divertimento per i nostri musicisti, che fanno a gara tra loro
ma anche per il pubblico coinvolto, il quale, alla fine, applaude in modo ritmico.
Questa festa, tra autentici amici, non ha nulla da invidiare a quella, in grande stile, di Lugano.
[CONTINUA]
[1] V., per il programma, anche ORCHESTRA MOZART: ECCOCI! DI NOTA IN NOTA – DICEMBRE 2017, su questo sito (Dicembre 2017).
[2] A proposito della EUYO -prima creatura abbadiana- essa sarà per tre anni (2018/20) in residenza a Ferrara, gemma della rassegna Ferrara Musica. Il 30 marzo scorso, presso il Teatro Comunale Claudio Abbado, si è svolto il concerto straordinario di apertura. Un evento di grande rilievo, pieno di vita ed entusiasmo, cui ho assistito con emozione. Direttore: Vasily Petrenko; Solista: Till Fellner. Programma: J. Strauss jr., Frühlingstimmen, op. 40; W.A. Mozart, Concerto per pianoforte e orchestra n. 27 in si bemolle maggiore, K595; J. Brahms, Sinfonia in re maggiore n. 2, op. 73.
[3] Le 33 Variazioni su un valzer di Anton Diabelli, op. 120, comunemente note come le Variazioni Diabelli, sono un insieme di variazioni per pianoforte scritte tra il 1819 e il 1823 da Ludwig van Beethoven su un valzer composto da Anton Diabelli (Mattsee, 8 settembre 1781 – Vienna, 8 aprile 1858, compositore, pianista ed editore musicale austriaco). Opera per pianoforte di grande rilievo, è spesso paragonata per importanza alle Variazioni Golberg di Johann Sebastian Bach.
[4] Nello stesso anno, 1786, Friedrich Schiller compone l’immortale Inno alla gioia, che sarebbe stato poi utilizzato da Ludwig van Beethoven nell’ultimo movimento della Nona Sinfonia. L’ode esalta l’ideale, tipicamente romantico, di una società di persone unite da legami paritari, esaltando con profondo pathos i vincoli di gioia e di amicizia universale che riporterebbero l’uomo vicino alla sua natura divina.
[5] Nata come danza dei montanari delle Alpi francesi -di Gap, nel Delfinato, soprannominati gavots- in origine, come molte danze popolari, aveva carattere allegro e tempo vivace. Divenuta danza di corte, ebbe particolare fortuna nel XVII secolo allorché il suo movimento fu moderatamente rallentato; venne introdotta anche nelle rappresentazioni teatrali (comédie ballet) e fu accolta a pieno titolo nella letteratura musicale colta. È caratterizzata da un’eleganza tipicamente compassata e pensosa. Il termine, nella variante di gavotte (chiamata anche dañs tro in lingua bretone), indica anche una famiglia di danze tradizionali della Bassa Bretagna.
[6] Schermi e Lavagne è un progetto di educazione all’immagine in movimento organizzato e promosso dalla Cineteca di Bologna, rivolto a bambini, ragazzi e giovani: dalle scuole dell’infanzia all’Università.
Per ogni fascia d’età è previsto un programma differenziato di attività che mirano a formare spettatori consapevoli e appassionati, capaci di muoversi con abilità di giudizio e autonomia critica nella foresta di immagini nella quale siamo quotidianamente immersi. Le proposte si dividono in approfondimenti teorici -che prevedono la visione guidata di film e sequenze di opere appartenenti all’intera storia del cinema: dalle origini (1895) ai giorni nostri, comprendendo l’analisi degli elementi di base del linguaggio cinematografico-, e in laboratori che richiedono una partecipazione attiva e creativa in vista della realizzazione di brevi film o cartoni animati.
[7] Il Settimino Mi bemolle maggiore per archi e fiati, Opus 20, di Ludwig van Beethoven, è un settimino per violino, viola, violoncello, contrabbasso, clarinetto, corno e fagotto. Venne composto tra il 1799 ed il 1800, e pubblicato nel 1802 con una dedica all’imperatrice Maria Teresa d’Austria.
[8] Ecco perché le composizioni di Schubert sono tutte precedute dalla lettera D di Deutsch.
[9] Luciano Berio (Imperia, 24 ottobre 1925 / Roma, 27 maggio 2003) è stato un compositore d’avanguardia, pioniere anche nel campo della Musica elettronica. Bologna Festival gli dedicherà il prossimo autunno una serie di giornate, nell’ambito della sezione Il Nuovo L’Antico