31 LUGLIO, Pomeriggio, LUNEDI’
Lasciamo Eguisheim col nostro piccolo carico di meraviglie alimentari.
La nostra meta odierna è la città di Verdun.
Una precisazione doverosa, senza la quale non è facile raccapezzarsi tra tanti nomi di località e una vasta terminologia, sia storico-culturale che amministrativa.
L’1 gennaio 2016, in seguito alla riforma territoriale del 2014, è stata istituita in Francia una Regione denominata GRAND EST. Essa accorpa le precedenti: Alsazia, Lorena, Champagne-Ardenne.
Se, d’ora in poi, userò anche questi ultimi termini, lo farò solo in senso culturale / affettivo.
Percorriamo le verde Alsazia….A tratti il vecchio fondo stradale in cemento ricorda inevitabilmente le autostrade fatte costruire da Hitler allorché la regione venne annessa al Terzo Reich nel 1940. Ma ci sono pure memorie liete, come quelle gastronomiche, ad esempio: un cartello indica la vicinanza col piccolo centro di Krautersheim, a rammentare il basilare ingrediente della choucroute, o meglio: choucroute garnie, lo squisito piatto campagnolo a base di carne di maiale e crauti.
Eccolo!
Il traffico s’intensifica in prossimità di Strasburgo; vorremmo cambiare il nostro itinerario, ma il navigatore, tetragono come al solito, non ci offre alternative. Preferiamo seguire le sue indicazioni, per non andare incontro a problemi vari.
Ci lasciamo alle spalle la capitale dell’Alsazia; ben presto il traffico, pur ancora intenso, si alleggerisce.
Panorami di dolci colline e campi coltivati. Un improvviso, violento acquazzone.
Entriamo nel Parco Regionale dei Vosgi -o, come dicono i tedeschi: Vogesen- del Nord.
Pioggia alternata a sole. Proseguiamo ad andatura tranquilla tra rigogliose foreste.
Per i Galli i Vosgi erano “la montagna dei tori selvaggi”. Ancora oggi in questa zona, situata nel triangolo tra Wissembourg, Saverne, Volmunster, la fauna è abbondante: lepri caprioli, cinghiali, francolini di monte.
Questi ultimi sono uccelli diurni, particolarmente legati alla presenza di radure erbose nelle quali essi si procurano il cibo. Legumi, frutti del sottobosco (fragoline, mirtilli, bacche in genere): questo il “menu” tipico del francolino di monte, mentre i pulcini non ancora in grado di volare si nutrono anche di insetti e piccoli lombrichi.
Per quanto concerne l’Italia, il francolino di monte, un tempo diffuso sull’intero arco alpino, si è storicamente estinto su gran parte di quei luoghi. Attualmente resiste in una fascia compresa tra la provincia di Vercelli a quella di Udine. Molto più diffuso in altri Paesi, abita gran parte della porzione settentrionale del continente, mentre alcune sottospecie nidificano tra Europa e Asia centro-orientale.
Il più piccolo della sua “famiglia”, il francolino di monte si distingue per un udito estremamente sviluppato. Quando si sente minacciato si allontana dal bosco, di solito molto prima che cacciatori o semplici curiosi riescano a vederlo. Solo con molta fortuna è possibile udirne il canto o avvistarlo mentre “passeggia” su pascoli e radure, intento a procurarsi il cibo.
I sentieri pedonali attraversano valli ricoperte da boschi, praterie, stagni. Suggestive pure le opere dell’uomo, come pittoreschi castelli arroccati su alture, come, ad esempio, Lichtenberg.
Eretto su un promontorio roccioso (414 m), il castello è menzionato per la prima volta nel 1206 come proprietà dei signori di Lichenberg, una delle più potenti famiglie dell’Alsazia. Nel 1480 essa si estingue, con la morte dell’ultimo dei Lichtenberg, Giacomo il Barbuto.
Alla fine del XVI secolo il castello viene trasformato in una fortezza difensiva, con un’impronta rinascimentale, ad opera di Filippo IV di Hanau Lichtenberg (erede della famiglia), che incarica di ciò l’architetto delle fortificazioni di Strasburgo, Daniel Specklin. Qui viene utilizzata una nuova arma: il cannone.
Requisito dalle truppe per ordine di Luigi XIV nel 1678, il complesso è integrato nel sistema difensivo delle nuove frontiere del regno di Francia e lievemente rimaneggiato da Vauban.
Il forte resiste fino al 9 agosto 1870, quando subisce un pesante bombardamento. I lavori di restauro intrapresi nel 1993 sono andati ben oltre la semplice ricostruzione storica. Oggi è visitabile ed oggetto di varie iniziative culturali.
Ci sono pure sereni villaggi dal nome evocativo, che fatichi a trovare sulla carta, quali Hunspach
o Seebach
Qui siamo ad un passo dalla città tedesca di Karlsruhe e dalla Linea Maginot (v. prossima puntata).
Proseguiamo.
Un cartello segnala un luogo interessante, situato in zona un po’ riposta rispetto alle grandi strade, per il quale varrebbe la pena effettuare una breve deviazione per visitarlo.
Si tratta della piccola città di Bitche, 5000 abitanti all’incirca, al confine con la Germania.
E’ celebre per la sua fortezza.
Guardia ferrigna del promontorio, la cittadella di Bitche, costruita da Vauban nel 1681 e poi ricostruita da Cormontaigne, è tipica dell’architettura militare del XVIII secolo. Dalla porta monumentale si accede al terrapieno centrale, da cui si ammira una vista bellissima sui Vosgi.
Unico resto del castello costruito all’epoca di Vauban, la cappella ospita oggi una cartina in rilievo della città risalente al 1794. Nel vasto complesso sotterraneo è presentato un percorso audiovisivo che permette di seguire tutte le fasi del lungo assedio di Bitche, da parte delle forze tedesche nel 1870. Si visitano i diversi locali, tra cui gli alloggiamenti della guarnigione e le stanze in cui venivano ammassati i profughi di guerra.
Interessante quindi una visita accurata del luogo, rimandata alla prossima volta.
Non lontano di qui c’è la regione della Saar, di cui abbiamo parlato nelle lezioni di Novacella.
Cartello a segnalare la pittoresca cittadina di Saint-Avold (in tedesco Sankt Avold, in lorenese Sänt Avuur), 16.753 abitanti, Dipartimento della Mosella, regione del Grand Est.
Architettura religiosa di tutto rispetto: come, ad esempio, l’Abbazia di Saint Nabor -gli abitanti del luogo, guarda caso, sono detti Naboriens-
o, in anni più recenti (1956), la Sinagoga; nonché architettura civile, quale il castello costruito a inizio secolo XVIII, ora adibito a Municipio.
Notevole il Cimitero americano, il più importante d’Europa della Seconda Guerra Mondiale.
Conta più di 10.000 tombe.
La Vallée de la Nied occupa il “letto” maggiore del fiume Nied, che ha una parte sponda francese e una tedesca (Nied francese e Nied tedesca) fino alla confluenza a Bouzonville (Nied Réunie). Luogo notevole per la biodiversità.
La Vallée è annunciata da un prode esercito di…pale eoliche, in piena azione, dato il luogo sopraelevato in cui sono collocate e il deciso vento che le fa muovere.
Non sono certo belle a vedersi, ma evocano la speranza di un futuro libero dalla schiavitù del petrolio, con le inevitabili conseguenze sociali e politiche per quanto concerne i rapporti coi ricchi Paesi produttori, sempre in grado di ricattare l’imbelle Occidente.
Illusorio che l’energia eolica possa essere l’unica forma di energia alternativa, ma occorre impegnarsi di più e meglio in questa direzione.
E non mancano i campi di girasoli!
Oggi ha proprio voglia di piovere.
A circa una cinquantina di chilometri dalla meta, il cartello su fondo marrone indica, come sappiamo, un luogo di rilevanza storico /artistica: Le Musée de Gravelotte [1]
Si tratta di un museo storico unico nel suo genere. Inaugurato nel 2014, è il solo dedicato alla storia della guerra franco/prussiana del 1870 (a Gravelotte si svolse una cruciale battaglia nell’autunno di quell’anno, conclusasi con la sconfitta francese) e dell’annessione all’impero tedesco dell’Alsazia e di una parte della Lorena. Tratta pure le questioni sollevate dal conflitto in questione: l’unità tedesca, la vita quotidiana durante il periodo dell’annessione (vedremo a Metz), le tensioni conseguenti, l’approccio alla Prima Guerra Mondiale. Da vedere, appena possibile.
Passiamo il fiume Orne, legato anche ai ricordi della Seconda Guerra Mondiale; a cominciare dalle ore precedenti il “mitico” sbarco in Normandia.
Siamo vicini alla Linea Maginot e al Forte Fremont (infra, puntata su Metz).
Ultimi chilometri col sole, grazie al cielo. Entriamo nel Parco Naturale Regionale della Lorena.
Evviva VERDUN! Ville de la Paix, come recita il cartello di entrata.
Ci rechiamo subito all’albergo, situato in pieno centro, ben conosciuto dalla precedente visita.
E’ un piccolo hotel, posto in un edificio storico di un certo pregio.
Ne sono proprietari una simpatica coppia, Fabrice e Victor.
La storia.
Nell’autunno del 2013 i due hanno acquistato l’albergo e iniziato impegnativi lavori di restauro.
Fabrice viene da una famiglia originaria di Verdun ed è molto legato alla città: te ne accorgi da come ne parla, alternando al profondo affetto una tenera ironia: “Avrebbe potuto diventare un’importante centro, Verdun, ma quando tutto lasciava intravvedere la realizzazione di questo, ecco che…essa veniva distrutta…Elle était détruite!” Verdunois autentico.
Quando era bambino, i suoi genitori la lasciarono per dirigere alberghi in diverse città francesi. Fabrice, divenuto adulto, ha seguito la loro strada; finché, negli anni 2000, il ritorno all’ovile: Verdun gli era rimasta nel cuore.
Victor invece è di origine sardo / corsa – parla infatti un discreto italiano-, ha lavorato per molto tempo nel campo delle calzature come dirigente. Ha viaggiato a lungo e in largo; in occasione di uno dei suoi soggiorni di lavoro, ha scoperto la città di Verdun, rimanendo affascinato dalla sua atmosfera.
Ha quindi pian piano preso corpo il sogno, condiviso con l’amico di lunga data, Fabrice: gestire insieme un piccolo albergo nel centro cittadino. Dopo alcune trattative, essi hanno acquistato il presente immobile e hanno posto mano ad un radicale restauro, rispettoso dei severi vincoli storico artistici.
Completamente rinnovato da alcuni anni, dotato di moderni confort -a parte la mancanza di ascensore, impossibile da installare; ma non è una difficoltà così insormontabile!-, esso è una tappa imprescindibile per noi sulla strada verso Lussemburgo.
Depositati i bagagli, dopo una breve “rinfrescata”, scendiamo in portineria e…
“Avete qualche posticino interessante da proporci per cena?”
“Bien sûr! C’è un locale molto carino a due passi da qui” annuncia Fabrice “Ripassate più tardi e vi ci accompagno con piacere”.
À bientot!
Usciamo e andiamo a zonzo per questa città, che anche noi amiamo molto.
Ci piace quella sua aria desueta, un po’ abbandonata; ma con angoli ben tenuti e pieni di colore, specie lungo le rive della Mosa, il fiume che l’attraversa. Consta di circa 20.000 abitanti.
Ci affascina la sua storia drammatica, spesso tragica: come notava il nostro albergatore, è stata distrutta tante volte, dieci per l’esattezza: dal 450 d.C. fino al 1916. Ecco perché non ha mai potuto decollare a dovere.
Durante la Prima Guerra Mondiale, nel 1916, è ridotta pressoché in macerie allorché, per l’intero anno, diventa teatro della guerra tra tedeschi e francesi: ne racconterò domani, sia pure per punti salienti, la dolorosa storia.
La città sarà ricostruita nel decennio 1919 / 1929.
Due -paroline- due (si fa per dire…).
Notevole castrum fortificato in epoca romana, Virodunum -sulla strada di collegamento tra Gallia e Germania- nell’843, a seguito dell’omonimo Trattato, entra a far parte dell’Impero germanico.
E’ a Verdun quindi che Francesi e Tedeschi si dividono, che viene diciamo “fondata” l’Europa; ne riparleremo nei prossimi giorni.
Col Trattato di Westfalia del 1648 è unita alla Francia; Vauban, l’architetto di Luigi XIV, ne costruisce le potenti fortificazioni.
Con la Grande Guerra è trasformata in rilevante caposaldo.
Per comprendere gli eventi almeno per linee essenziali è indispensabile tener sempre presente che quello della Mosa è il “Dipartimento simbolo” della Prima Guerra Mondiale.
Dal 1914 al 1918, dalle Argonne al Saliente di Saint Mihiel, di Vauquois, a Les Eparges, tutta la Mosa è in prima linea. Al centro di questi campi di battaglia, il più importante, quello universalmente noto: Verdun.
Circa quindici anni dopo la sconfitta di Sedan ad opera dei Prussiani (1870), l’esercito francese aveva ripreso la sua forza e il Paese era rinato pure sul piano economico. Anziché fortificare le città, si decise di costruire due linee contigue di forti. Venne realizzato il noto sistema di Séré de Rivières (dal nome del generale che lo concepì), consistente in una lunga linea fortificata (19 postazioni), a cerchi concentrici, avente al centro proprio le fortezze di Verdun.
Non mi si venga a dire che la Prima Guerra Mondiale è sbucata così, all’improvviso, come un fungo velenoso.
Il 21 febbraio 1916 -alle 7:15-, dopo aver rinviato le operazioni di circa dieci giorni a causa del cattivo tempo, i tedeschi , con la Quinta Armata comandata dal Kronprinz Guglielmo (figlio del Kaiser), lanciano verso Verdun, luogo emblematico, l’attacco decisivo per scardinare tutto il sistema difensivo delle Ardenne ed aprirsi così la strada verso Parigi [2], distante solo 200 chilometri a ovest: è l’impostazione diretta a colpire, attraverso un’inesorabile strategia di logoramento, anzi di dissanguamento, il nemico nel punto in cui questi è, almeno sulla carta, più forte. Il colpo di maglio decisivo inferto dalla potentissima artiglieria -pensiamo alla leggendaria “Grande Bertha” (Krupp), il potente obice da 420 mm., qui massicciamente utilizzato- . Ma la resistenza francese, insieme ad una serie di errori imperdonabili da parte tedesca (segretezza esagerata sui piani, scarso coordinamento tra gli Imperi centrali), manda all’aria il piano. Detto così in breve, non rende l’idea perché la vicenda è indescrivibile.
Giova ricordare che, ad un certo punto, per intensificare lo sforzo difensivo e rendere agevoli i rifornimenti, i Francesi costruiscono una strada, lunga 56 chilometri, di collegamento tra Verdun e la cittadina, più a sud, di Bar-le-Duc. Essa si rivela di fondamentale importanza durante la battaglia.
Dopo il conflitto lo scrittore Maurice Barrès la chiamerà Via Sacra (Voie Sacrée), in riferimento alla Via Sacra romana in cui sfilavano i carri di trionfo dei generali, vincitori delle campagne militari.
Ecco un breve filmato sul tema
Si combatte aspramente fino a dicembre, ma si continua, in sostanza, nell’anno successivo, fino all’autunno: nella battaglia muoiono 400.00 francesi, altrettanti tedeschi, migliaia di militari americani, nonché moltissimi civili. Il numero per la verità è controverso, ma, in ogni caso, si tratta di cifre spaventose.
Il 1916 viene spesso chiamato l’Anno delle Illusioni: di una vittoria decisiva e della fine del conflitto, che mai si pensava avrebbe assunto dimensioni mondiali. Invece la situazione degenerò in una tremenda escalation che portò ad un’immane carneficina.
“Se non avete visto Verdun, non avete visto nulla della guerra” dicevano i militari francesi.
Un enorme buco nero, lo definiscono gli storici, in grado di fagocitare uomini, materiali, risorse, animali….
4 milioni di uomini coinvolti; 30.000.000 di proiettili sparati.
Non dimentichiamo poi le pesanti conseguenze della guerra sulle popolazioni civili. Per limitarci a Francia e Germania: presso la prima svanisce la speranza di una rapida conclusione del conflitto: da una posizione attiva, i francesi sono costretti a difendersi avendo i propri territori occupati. Mentre gli Imperi centrali (Austria e Germania) soffrono le sanzioni economiche imposte loro dall’Intesa.
Iniziamo la nostra visita da un luogo emblematico, posto nella parte bassa della città, affacciato sulla Mosa: è il Monumento ai Morti e ai Figli (Les Enfants) di Verdun.
Innalzato nel 1929, esso si appoggia sulla “curva” dell’argine del secolo XVII nel luogo dove sorgeva la macelleria militare distrutta nel 1916.
Vi sono rappresentati i cinque corpi dell’esercito francese impegnati nella battaglia dell’anno fatale.
Da sinistra a destra (per chi guarda) vediamo: un corazziere con sciabola, casco caratteristico e mantellina (figura che ricorda il tempo passato in cui il cavallo era figura essenziale); un geniere, nell’abbigliamento tipico per proteggersi dalle intemperie; al centro un giovane fante, forte e determinato, l’eroe dei campi di battaglia, il vincitore di Verdun (“Ils ne passeront pas!”); a seguire, con la sua aria da soldato baffuto della “vecchia guardia” napoleonica (le grognard!), abbigliato per affrontare i rigori dell’inverno mosiano, un membro della milizia territoriale; un artigliere con l’indispensabile binocolo per puntare esattamente il cannone, signore della guerra moderna, sempre più tecnologica e industrializzata.
Alla base del monumento il motto significativo, ben comprensibile anche da chi non conosce il francese.
Si possono leggere sul monumento i nomi degli abitanti di Verdun morti nel periodo 1914 / 1918. In seguito sono stati aggiunti i nomi degli uccisi, militari e civili, nella Seconda Guerra Mondiale, nonché dei caduti in Africa del Nord e nei territori d’Oltremare [3].
Davanti a questo monumento hanno luogo le commemorazioni dei caduti.
Entriamo in città attraverso la Porte Chaussée, affiancata da due torrioni cilindrici merlati risalente al secolo XIV, parte della grande cerchia di mura che difendevano la città nel Medio Evo.
Una doverosa sosta sul Quai de Londres: gli edifici che vediamo sul Lungo Mosa sono stati ricostruiti, dopo la Grande Guerra, con fondi britannici e lussemburghesi (oppssss).
Ritorniamo sui nostri passi e sostiamo davanti ad una scultura di enorme impatto emotivo: ti sembra che raccolga in sé tutto il dolore del mondo.
Si tratta della cosiddetta Defense de Rodin.
Opera di Auguste Rodin [4], era stata presentata nel 1879 ad un concorso organizzato dal Consiglio generale della Senna per commemorare la resistenza parigina contro i Prussiani nel 1870.
Essa rappresenta un Guerriero morente sostenuto da una Vittoria alata; considerata troppo “violenta” per il gusto dell’epoca, la scultura non venne presa in considerazione.
Nel 1916 i Paesi Bassi chiesero il permesso di fonderne una copia in bronzo per offrirla alla città martire di Verdun.
Il dono fu accettato e posto in città (1920), dapprima in Place de la Roche, indi sulla Promende des Frères Boulhaut.
Qua vicino c’è pure la suggestiva Sinagoga -lo stesso Fabrice ce l’ha segnalata-.
Verdun ha conosciuto la presenza ebraica fin dal secolo VIII ed è stata a lungo sede del Rabbinato della Mosa.
La prima sinagoga, costruita all’inizio del diciannovesimo secolo sul sito di un antico convento dei Giacobini, viene distrutta in occasione della guerra del 1870; la successiva, edificata su progetto dell’Architetto Henri Mazilier in stile ispano-moresco, secondo i gusti orientaleggianti dell’epoca come altri edifici del tipo (basti pensare alle sinagoghe di Firenze o Roma, per limitarci all’Italia), è inaugurata nel 1875.
Secondo la tradizione, non vi sono figure, tranne la Stella di Davide a cinque punte sulle vetrate.
E’ profanata dai tedeschi durante l’occupazione nazista; indi restaurata col contributo di militari americani ebrei.
A far tempo dal 1995 è oggetto di importanti lavori di restauro, ma pure, in anni recenti, come purtroppo molti altri monumenti e reperti ebraici in Europa, specie in Francia, di attacchi antisemiti: attacchi di matrice islamica, in primo luogo, ma pure dell’estrema destra. Soliti -e solidi- compagni di merende.
In direzione nord ovest ecco Porte Saint Paul
a due fornici (1877), dove una lapide, all’ingresso, ci segnala le numerose distruzioni patite dalla città.
Davanti a ciascun arco possiamo ancora vedere i ponte levatoi che servivano, durante la Prima Guerra Mondiale, a collegare la stazione da dove giungevano i militari, con il centro della città e, soprattutto, con la caserma Jeanne d’Arc.
Percorriamo l’omonima Rue Saint Paul, indi Rue Mazel e ci portiamo davanti ad uno dei monumenti simbolo, posto in centro città.
Progettato dall’Architetto Léon Chesnay è stato inaugurato nel 1929 dal Presidente della Repubblica (Gaston Dumergue); gli abitanti di Verdun lo hanno soprannominato “Goldorak”.
Situato sul luogo di un castrum romano, è dedicato alla memoria dei combattenti del 1916.
Consta di una lunga, ampia scala di 73 gradini alla sommità della quale si trova una cripta commemorativa nella quale sono custoditi i Libri d’Oro coi nomi dei soldati caduti nella Battaglia del 1916 e dei sopravvissuti ; oltre a diversa documentazione, come giornali e fotografie sul tema.
Il tutto è sormontato da una torre alta 30 metri con cima la statua di un guerriero, appoggiato sulla propria spada, quale simbolo della potente difesa di Verdun e della vittoria francese nel conflitto.
Ai lati, due cannoni russi, orientati verso est, requisiti sul fronte tedesco.
Qui si svolgono solenni cerimonie commemorative. Ad esempio, il primo Novembre di ogni anno, la fiamma che brucia sotto l’Arco di Trionfo di Parigi è portata a Verdun e deposta nella cripta.
Dalla sommità si gode un panorama emozionante. Pensi alle passate generazioni, a chi combattè per difendere la Patria, la propria città, la propria casa.
All’orizzonte incombono nuvoloni minacciosi; ma, dato il contesto ….”Ci sta”, direbbe il nostro Mattia.
A breve distanza è il Musée de la Princerie. Si tratta del Museo di Arte e Storia cittadino, collocato, a far tempo dal 1932, in questo edificio fatto costruire nel 1525 dai Fratelli De Musson e restaurato dopo la Prima Guerra Mondiale.
I due fratelli, ricchi canonici del capitolo della cattedrale, avevano scelto, come sede del Museo, per rafforzarne il prestigio, il luogo dell’antica, rilevante dimora del Princier, il più alto dignitario ecclesiastico dopo il Vescovo.
Lo visiteremo, prima o poi.
Ci spingiamo, in leggera salita, fino alla Porte Châtel, la più antica porta civica.
Fatta costruire nel XIII secolo, essa fa parte degli antichi bastioni che cingevano la città alta.
Controllava l’accesso alla città dal Monte Saint Vanne, dove sorgeva l’antico monastero benedettino omonimo.
Sono visibili diversi resti di fortificazioni medievali.
Era l’unico punto di passaggio in città prima della demolizione dei bastioni nella parte alta di Verdun (1929).
Siamo a poca distanza dalla Cattedrale, che visiteremo domattina.
E’ ora di cena.
Scendiamo dalla città alta di buon passo.
Con l’impeccabile scorta di Fabrice che ci presenta al titolare, entriamo in un ristorantino molto simpatico, L’Esprit Bristrot, caratteristico e pieno di colore locale.
Cena raffinatissima a base di Souris d’agneau, letteralmente: “Topo d’agnello”.
E…. sarebbe?!! Niente di mostruoso, per carità; anzi.
Si tratta di un pezzo di carne -nel nostro caso, agnello-, molto tenero, cotto a bassa temperatura (metodo oggi assai usato nei ristoranti di pregio).
La forma è quella di un souris, cioè di un…topo! Quando si mettono d’impegno per stupire o magari spaventare un po’ i clienti, come nel caso, i cuochi sono imbattibili ; in qualunque parte del mondo si trovino.
Squisito ed accompagnato da ottimo vino mosano. Come dessert, l’immancabile Tarte Tatin, da noi prediletta. Prezzi contenuti, il che non guasta.
Facciamo quattro chiacchiere con una coppia della Provenza che alloggia nel nostro albergo.
A domani.
1 AGOSTO, MARTEDI’
Piove a dirotto, con rari momenti di quiete.
Ci consoliamo con una ricca prima colazione, coccolati dalle premure di Victor.
Ben armati di ombrelli, giungiamo alla Cattedrale, Notre Dame.
Situata nella parte alta della città, con le sue alte torri ne caratterizza il panorama.
Il primo edificio sorge nel IV secolo e.v. su impulso di S. Ivo, evangelizzatore di Verdun e suo primo vescovo. Di detto edificio, situato nei pressi di quello attuale, nulla resta.
La Chiesa che oggi possiamo ammirare risale al X secolo, ma è stata distrutta e ricostruita più volte : ad esempio sotto l’episcopato di Thierry il Grande, il quale, dopo l’incendio del 1047, la dota di bei portali sul lato ovest e fa decorare le alte mura della navata con losanghe a scacchi.
E’ una costruzione romanica, con due absidi e due transetti, mancando di una vera e propria facciata ; l’abside occidentale, di tipo renano, risale al secolo X ; mentre quella orientale, di tipo borgognone, sostenuta da rispettabili contrafforti, risale al secolo successivo, come il cosiddetto portale del Leone . Non mancano mai i leoni nelle cattedrali ; di tutte le dimensioni ed atteggiamenti : miti guardiani, custodi del tempo, o belve feroci senza sconti, reggenti tra le zampe o le fauci miti agnellini.
Le volte ogivali delle navate sono state rifatte nel 1300, le due torri absidali nel secolo XVIII.
La cattedrale è stata oggetto di profondi restauri dopo le profanazioni della Prima Guerra Mondiale.
Bellissimo interno a tre navate su pilastri con cappelle laterali dei secoli XV / XVI.
L’Altare Maggiore
è sormontato da un baldacchino, di cui Fabrice è molto orgoglioso, ideale collegamento tra il Cielo e la Terra, tra D-o e i fedeli . Suggestiva opera in legno e marmo (combinazione non frequente), terminata nel 1760.
Detto tra parentesi, anche noi, nella nostra S. Petronio, la Chiesa “civica”, abbiamo un Autel Baldaquin, anteriore di circa un paio di secoli.
Attorno all’altare maggiore, dove si svolgono le cerimonie religiose più importanti per la diocesi, si trovano il bel coro (stalli in legno) e la Cattedra del Vescovo. Sul lato destro, entrando, in fondo, la cappella delle reliquie.
Suggestiva la Cripta romanica, restaurata dopo la Prima Guerra Mondiale : bella statua della Vergine, anzi di Nostra Signora, protettrice della città, realizzata negli anni ’30 del Novecento.
Sui capitelli sono scolpite figure di militari combattenti nella Grande Guerra.
Un luogo di memoria religiosa e civile : i ricordi di S. Teresa di Lisieux -immagini varie e foto della simpatica santa, che avrebbe desiderato essere sacerdote per servire meglio il Signore. Era in largo anticipo sulla chiesa del suo tempo e pure su quella attuale, molto fumo e poco arrosto- sono insieme ad un’interessante esposizione centrata sui cosiddetti Aumôniers, letteralmente Elemosinieri (da aumône, elemosina), cioè i cappellani militari impegnati nel conflitto; ripristinati nel loro ruolo, dopo che una normativa laicista del 1905 li aveva aboliti. Non solo cattolici o cristiani, ma pure ebrei . Sono in maggioranza francesi, ma vi è anche qualche tedesco , appartenente cioè all’esercito nemico, in nome della fratellanza universale e di Verdun, emblema anche della riconciliazione franco-tedesca ; ci torneremo su.
Testimonianze di drammatica vita vissuta. Una per tutte, quella di Rav. Justin Schul (tedesco) : non aveva paura delle bombe e restava coi soldati per confortarli nei momenti più bui.
A chi gli domandava, in tono provocatorio : “Ma perché non cerca un riparo ? Attende forse il Messia ? “, egli rispondeva : “Attendo piuttosto l’Era Messianica”. Ottima risposta.
Nel 1923, il Rabbino comprese che, anziché un’Era di Pace, si avvicinavano tempi bui, in primo luogo per gli Ebrei : emigrò negli U.S.A., dove morì nel 1964.
Anche il Chiostro ha molto sofferto per gli eventi bellici. E’ stato peraltro, nel volgere di pochi anni, rimesso in pristino alla perfezione.
Vi sono esposte belle e numerose statue romaniche, raffiguranti personaggi dell’Antico (Adamo ed Eva ; Caino e Abele)
e Nuovo Testamento, come un’Annunciazione e un Vescovo, forse Saint Saintin
Situato nell’antico Palazzo Vescovile -e quindi a due passi dalla Cattedrale- ha sede il Centre Mondial de la Paix, La Liberté et le Doroits de l’Homme. Suo obiettivo è la sensibilizzazione dei visitatori ai temi della pace e della guerra : esso ospita numerose mostre di carattere storico e / o artistico, presentazioni che accompagnano la visita ai campi di battaglia, oltre a conferenze, concerti, iniziative letterarie.
Sito web: www.cmpaix.eu
In sintonia con queste tematiche dedichiamo il nostro pomeriggio ai Campi di Battaglia (giro di Vaux-Douaumont). Il cielo è tornato sereno, per fortuna !
Facciamo un passo indietro.
In occasione della visita del dicembre 2014, poiché -data la stagione invernale- non era possibile recarsi ai campi di battaglia, trascorremmo con Mattia un pomeriggio nella cosiddetta Citadelle Souterraine, posta ai piedi della città alta costruita su progetto di Vauban nel sescolo XVII.
http://www.citadelle-souterraine-verdun.fr/
Per l’esattezza, come si può leggere anche sul relativo sit web, a circa metà del XVI secolo viene scelto, per edificarvi una rilevante struttura difensiva, il luogo denominato Mont Saint-Vanne dove, nell’XI secolo era stata costruita un’omonima abbazia benedettina. I lavori terminano nel 1634 ; Verdun entra a far parte del regno di Francia poco dopo, nel 1648. Il Re Sole rafforza le protezioni della Francia, organizzando numerose piazzeforti.
Su incarico del sovrano Vauban intraprende i lavori nella cittadella e organizza la salvaguardia nella parte sud ovest della città.
I sotterranei hanno notevole importanza nel corso del 1916.
Paradosso : poiché (la piazzaforte di) Verdun è considerata inespugnabile per antonomasia, viene sguarnita da un notevole numero di militari, divenendo in questo modo da sicura a punto (relativamente) debole del fronte.
La visita al luogo è compiuta su un trenino che ti porta, lungo un percorso di alcuni chilometri, nei diversi ambienti e ti rendi conto di quanto fosse dura la vita quotidiana dei militari.
Le diverse scene sono esplicate con manichini, oggetti, ricostruzioni di ambienti, immagini fotografiche e filmati vari. Come ho detto sopra, noi ci recammo in quel luogo a dicembre, col freddo e l’umidità : il che ne aumentò la suggestione.
Un particolare, conosciuto da me nella circostanza : nel 1920 proprio qui si svolse la cerimonia volta a scegliere la salma del Milite Ignoto, destinata a riposare a Parigi, sotto l’Arco di Trionfo.
Torniamo ai nostri giorni.
Un resoconto breve di quel tremendo 1916, con alcune riflessioni.
“Il 21 febbraio 1916, a diciotto mesi dall’inizio della Prima Guerra Mondiale, le forze tedesche attaccarono le posizioni francesi a nord e a nord est di Verdun….dando inizio a quella che il romanziere veterano Maurice Genevoix definì la battaglia simbolo dell’intera guerra del 1914/18.
La grande battaglia campale detta di Verdun si protrasse per dieci mesi, rendendo celebre questa località : ancora prima che lo scontro fosse terminato, la città in rovina e i suoi dintorni lasciavano già presagire una fama postuma.
Vi sono luoghi che in tempo di guerra trascendono la propria importanza strategica e acquisiscono l’aura duratura della leggenda : Saragozza nel 1808 [quando gli spagnoli respinsero le armate francesi di Napoleone] e Stalingrado nel 1942/43, ad esempio, conferirono ai loro difensori lo status di salvatori della nazione. Così è stato anche per Verdun, dove cadde un numero così elevato di tedeschi e francesi che il grande ossario costruito sul posto dopo la fine del conflitto poté contenere solo una parte dei resti rinvenuti. Genevoix non aveva dunque bisogno di spiegare quello che intendeva, poiché a nessuno sarebbe mai venuto in mente d’intaccare l’alone di consenso che circondava la città martire”.
Così lo storico Paul Jandkowski (Brandeis University, Massachusetts) nella perspicua introduzione al suo La battaglia di Verdun [5]. Significativa l’immagine di copertina : un militare a cavallo, uomo e animale con maschera antigas.
La battaglia di Verdun (in codice, per i tedeschi: operazione Gericht, cioè “Giudizio”) è l’unica grande offensiva tedesca avvenuta tra la prima battaglia della Marna del 1914 e l’ultima, del Gen. Ludendorff, nella primavera del 1918. E’ la più sanguinosa battaglia sul fronte ovest del conflitto, che vede contrapposti l’esercito tedesco, guidato dal Capo di Stato Maggiore, Gen. Erich von Falkenhayn (che aveva preso il posto del collega von Moltke, accusato di gravi deficienze nell’attuazione del “Piano Schlieffen”, anzi per averlo del tutto smentito, sostituito poi dal duo Paul von Hindenburg e Erich Ludendorff) e quello francese guidato dal comandante supremo Joseph Joffre (protagonista della vittoria sulla Marna, sostituito, a sua volta, a fine 1916, dal Gen. Robert Georges Nivelle). Verdun segna due momenti di rilievo: il peso principale delle operazioni sul fronte occidentale (dove, fino a qualche tempo prima, pareva che non succedesse nulla di “nuovo”) passa dalla Francia alla Gran Bretagna; indi svanisce, in sostanza, la possibilità concreta che la Germania riesca a vincere la guerra.
Inoltre questi eventi influenzano in parte la successiva entrata in guerra degli USA nell’aprile 1917.
Appuntamento, per la visita ai Campi di Battaglia, davanti al locale Ufficio del Turismo, proprio di fronte al grande monumento dedicato ai Morti di Verdun.
Saliamo (unici italiani in un gruppo costituito da francesi o francofoni) a bordo di un pulmino; la nostra guida è una signora bruna, dall’aria seria e pensierosa: immagino che sia nipote o parente di un militare che ha combattuto qui.
Compiamo una visita limitata ad alcuni peculiari siti; un itinerario completo ritengo comporterebbe alcune impegnative giornate.
La prima tappa sono i “Villaggi distrutti”, situati all’interno della cosiddetta Zona Rossa.
Di che cosa si tratta?
L’area che, nel 1916, ha visto contrapposti i due eserciti è stata definita ben presto Zone Rouge, Zona Rossa: formata inizialmente da 1200 chilometri quadrati in un territorio diventato troppo pericoloso per essere attraversato dalle persone.
Vediamo significativi cartelli ad indicare questi luoghi di morte.
L’enorme quantità di armi utilizzate, granate, “conchiglie” di gas velenosi, micidiali (come il fosfogene), proiettili di artiglieria ad alto tasso di esplosivo, li hanno mutati per sempre.
Con il passare degli anni, grazie alle bonifiche che sono state effettuate, e che richiederanno altri settecento anni per essere completate, le restrizioni alla Zona Rossa si sono notevolmente ridotte, ma rimangono ancora alcune aree totalmente inaccessibili, perché probabilmente nessuno potrebbe uscirne vivo, o per lo meno integro.
Al termine del conflitto i Francesi compresero che sarebbero occorsi secoli per bonificare totalmente la zona: tutti i villaggi agricoli che costellavano l’area furono spostati altrove; oggi restano abbandonati, spettrale ricordo di una Chernobyl bellica, o di un Vietnam ante litteram, ad attestare l’assurdità della guerra.
Possiamo compiere la nostra visita, ma seguendo un itinerario ben preciso. Ovunque cartelli che vietano l’accesso in questo o quel luogo. Prima che la nostra accompagnatrice ci spiegasse la situazione avevamo solo immaginato: forse, avevamo pensato, vi sono ancora, a oltre un secolo dagli eventi, mine da far brillare e bombe inesplose.
Sì, c’è pure questo; ma, in aggiunta, molto, molto di più. E di definitivo.
La signora ci ricorda che il Governo ha istituito un “Dipartimento di sminamento”, ma purtroppo il problema è ben lungi dall’essere risolto.
Durante le operazioni di bonifica spesso emergono oggetti diversi, brandelli di uniformi, resti umani……
Non solo. Alcune aree, come quella in cui il pulmino si ferma appaiono come un sereno bosco; ma, all’interno, sono celate migliaia e migliaia di munizioni, esplose ed inesplose (con conseguente pericolo).
Vengono ancora ritrovati armi, caschi, e frammenti di scheletri, ma ciò che rende il vasto perimetro ancora inabitabile è l’inquinamento provocato dalle armi chimiche, dal piombo, e dalla decomposizione di esseri viventi.
Riporto una drammatica testimonianza.
“Le tonnellate di gas velenosi usati, concentrati in un’area ristretta, hanno avuto un impatto devastante sul terreno e sulle acque della regione. Allarmante poi è il fatto che, anziché migliorare, pare che le cose peggiorino con il corso del tempo. Nel 2004, le analisi del suolo hanno rilevato livelli di arsenico infinitamente superiori a quelli dei decenni precedenti. Ciò significa che le sostanze chimiche, anziché precipitare nel terreno, salgono verso l’alto. L’acqua contiene arsenico fino ad un livello 300 volte superiore a quello considerato tollerabile, ma anche il piombo non biodegradabile, proveniente dai frammenti di munizioni, è in aumento, e contamina anche alcuni animali, sopratutto i cinghiali, che quindi non possono più essere cacciati.
Secondo gli scienziati la situazione può solo peggiorare, considerati anche gli alti livelli di zinco e mercurio. Il problema non può essere risolto né a breve né a medio né a lungo termine: queste sostanze possono contaminare l’acqua e il suolo ancora per 10.000 anni.
Il governo francese e l’Unione Europea monitorano i prodotti agricoli provenienti dalla regione, ma per alcuni ciò non è sufficiente né efficace. Inoltre è problematico: controlli più accurati potrebbero compromettere l’economia locale. In realtà, coloro che rischiano molto sono gli agricoltori, che talvolta incappano con i loro trattori su munizioni inesplose, ma ancora di più i tecnici che devono rimuovere le armi chimiche; nonostante controlli regolari, l’accumulo di tossine nel corpo potrebbe essere rilevato solo quando ormai è troppo tardi.
Il desiderio di recuperare la Zona Rossa costituisce un altro pericolo: subito dopo la guerra gli sforzi di bonifica furono abbastanza superficiali, perché l’economia francese era devastata.
Alcune comunità furono autorizzate troppo presto a rioccupare parti di territorio ancora contaminato, decisione che ha provocato perdite umane sia a causa degli esplosivi che delle sostanze chimiche velenose.
Per sfruttare il turismo di guerra, molti ristoranti e negozi sono stati aperti in aree ritenute sicure, ma che successivamente sono risultate non esserlo affatto. [Inoltre, talora, capita che animali pascolino non lontano dalle zone interdette].
Un secolo dopo, la battaglia di Verdun continua a mietere vittime” [6].
Allo scoppio della Guerra, in quello che sarebbe divenuto il campo di battaglia di Verdun, quindi nella cosiddetta Zona Rossa, si trovavano alcuni villaggi (nove) con diverse centinaia di abitanti, la cui prevalente attività era costituita dall’agricoltura. Con l’invasione tedesca finirono per trovarsi in prima linea.
Bombardati, distrutti, presi e ripresi più volte, furono totalmente cancellati dalla carta geografica a seguito dei combattimenti, spazzati via da quell’orrore. I loro abitanti, quelli che sopravvissero alla carneficina, se ne andarono altrove.
Essi non sono mai stati ricostruiti, tranne tre, in altri luoghi (nelle sedi originarie c’è un monumento commemorativo), sia pure relativamente vicini: Ornes (nel cui territorio nasce l’Orne -affluente della Mosella-, memorie della Seconda Guerra Mondiale, in particolare lo sbarco alleato in Normandia, com’ è noto), Douaumont e Vaux-devant-Damloup.
Alla fine del conflitto tutti i villaggi non ricostruiti furono dichiarati “Villaggi morti per la Francia”, in sua difesa, cioè. Si decise perciò di conservarli ciascuno come “Comune” in memoria di quei terribili avvenimenti. Oggi sono amministrati da un Consiglio municipale di tre persone nominate dal prefetto del Dipartimento della Mosa.
Ognuno ha il proprio Sindaco.
Eccoli:
Beaumont en Verdunois (186 abitanti nel 1911; oggi 0)
Bezonvaux (149 abitanti nel 1911; oggi 0)
Cumières -le Mort-Homme (205 abitanti nel 1911; oggi 0)
Fleury-devant Douaumont (422 abitanti nel 1911; oggi 0)
Douaumont (288 abitanti nel 1911; oggi 7)
Haumont près Samogneux (131 abitanti nel 1911; oggi 0)
Louvemont Côte du Poivre (183 abitanti nel 1911; oggi 0)
Ornes (718 abitanti nel 1911; oggi 6)
Vaux-devant-Damloup (80 abitanti nel 1911; oggi 65)
Ne restano le “vestigia” costituite da cartelli che segnalano che qua c’era la chiesa, là una certa strada….che ci parlano delle attività svolte dagli abitanti di questi piccoli centri…Vite, consuetudini semplici, in una serena campagna….Tutto nullificato dalla mitomania guerresca dei governi, tedesco cioè, con in testa il Kaiser Guglielmo II; inutile girarci attorno. E aggiungo: se ci fosse stato Bismarck, probabilmente tutto questo non sarebbe accaduto.
Ma anche espressione della disperata difesa di un Popolo, di una Nazione; per di più assetata di rivincita, dopo i fatti del 1870.
Giù il cappello.
In un silenzio irreale, ti pare d’essere sulla luna, ti aggiri su quel terreno, ora ricoperto di erba,
ma pieno di voragini costituite dai colpi di cannone sparati per mesi e mesi
La zona nel 1916
e nel 2005
Ecco quello che si può leggere nel Diario di guerra di un soldato: “Tutto era buio come sul Golgota, quando morì Cristo. Non vi sono trincee, ma solo buche….buche tutte piene del puzzo dei morti…Un tale incubo che non si vede il mattino…”.
Sostiamo in quello che un tempo era il villaggio di Fleury.
Un omaggio ai suoi caduti…nomi incisi nella pietra a perenne ricordo.
Monumenti commemorativi, alcuni dei quali di forte suggestione.
Suggestiva la chiesetta, costruita nel 1934 al posto di quelle originaria del villaggio distrutto. E’ opera dell’Architetto Bartheny. Nell’interno un affresco raffigurante La Pietà e le vetrate dedicate ai fanti combattenti.
Dopo il 1979 è stata intitolata a Nostra Signora dell’Europa, come attesta la statua all’ingresso, avvolta nel manto azzurro, simbolo dell’Europa.
E sappiamo quale bisogno di protezione celeste abbia questa Europa disorientata che non sa trarre lezioni dagli errori passati e par desiderare solo di annientare se stessa.
La chiesa è di solito chiusa, ma pare non sia difficile avere le chiavi da M. Jean – Pierre Laparra, Presidente del Consiglio municipale.
Ovunque cappelle, chiesette sorte in memoria dei villaggi scomparsi e dei loro abitanti.
Come questa, molto graziosa, dedicata a S. Rémi, nel luogo ov’era Cumières -le Mort-Homme.
E’ stata eretta nel 1933 utilizzando le pietre della vecchia chiesa. Nel suo interno belle pitture, ma anche numerose statue: una risalente al secolo XIV (!), proveniente o dall’antica chiesa o dal cimitero del villaggio, un’altra di Dante Donzelli (1909 /1999) [7] , raffigurante Jeanne Gérard, suora della Congregazione di S. Vincenzo de Paoli, ghigliottinata con tre consorelle il 26 giugno 1794, beatificata da Papa Benedetto XV nel 1920. Un luogo in cui convivono virtù eroiche religiose e civili.
Ecco dove sorgeva un altro villaggio, Ornes
Risaliamo in pullman, pensierosi.
E in Silenzio. L’essere parte di questa religione civile -termine preferibile allo slavato “laico”, aggettivo (se non preso nell’accezione ristretta di uomo non investito del sacramento dell’Ordine) stupido, bon à tout faire, tirato in ballo fino alla nausea per dare l’indispensabile legittimazione, il necessario “bollino blu” a fatti e persone- suscita in noi emozione profonda.
La seconda tappa è Fort de Douaumont.
Si tratta dell’opera più rilevante del complesso difensivo attorno a Verdun (insieme al vicino Fort de Vaux) che, come si sa, ha ricoperto un ruolo centrale nel corso di tutta la battaglia. Situato su uno dei rilievi più alti della zona (gli Hauts de Meuse, quasi 400 metri), la sua costruzione fu iniziata nel 1885 e rafforzata progressivamente nel corso degli anni, fino alla vigilia della Prima Guerra Mondiale (1913).
Occupa una superficie di 30.000 mq, è lungo circa 400 metri, con due livelli sotterranei; protetto in origine da una copertura in calcestruzzo spessa due metri e mezzo e da 4 metri di terra; sul lato rivolto verso il nemico era difeso da un’ampia zona trincerata irta di ostacoli, quali filo spinato, postazioni di mitragliatrici, oltre che circondato da un fossato profondo oltre 7 metri.
L’armamento, in torrette dalla corazzatura di 80 centimetri di spessore, consisteva in un cannone di 155 mm e due da 75 mm., oltre a diversi altri variamente appostati, nonché numerose torrette per mitragliatrici.
Le sue caserme potevano alloggiare una guarnigione di oltre 600 uomini, era dotato di due cisterne d’acqua e di un forno per cuocere il pane; serviva da osservatorio, rifugio, deposito di materiali e munizioni: un mondo autosufficiente.
Visitiamo i diversi ambienti e ci rendiamo conto di quanto la vita dei soldati fosse dura…La paura che ti attanaglia, ma sai che devi andare avanti; la nostalgia di casa che ti assale, specie nelle ore notturne.
Ecco due filmati in lingua inglese che rendono bene l’idea di questi luoghi e che cosa significhi “Verdun”.
A inizio del conflitto il forte era presidiato da una compagnia di fanteria, artiglieri del quinto Reggimento di artiglieria appiedata, membri del genio militare, alcuni ausiliari addetti ai servizi, 7 ufficiali e ben 477 tra sottufficiali, caporali e soldati.
Era ritenuto all’epoca l’opera difensiva più rilevante d’Europa e virtualmente inespugnabile.
Nel 1915, anche a motivo dell’irresistibile avanzata tedesca sul fronte belga, si decise, da parte della Francia, di disarmare in parte il sistema fortificato, giudicato non più idoneo per l’epoca, e Fort Douaumont fu privato dei cannoni da 75 mm.
Purtroppo però l’attacco tedesco, iniziato nel febbraio dell’anno successivo, ebbe come obiettivo principale proprio Verdun. E, pur con guarnigione ed armamento ridotti, rappresentò un notevole ostacolo all’avanzata tedesca.
Non racconterò le varie fasi della vicenda. Mi limito a precisare che, espugnato a sorpresa solo quattro giorni dopo l’inizio della battaglia, il forte sarà occupato per ben otto mesi dall’esercito tedesco, che ne farà luogo di riparo per le truppe e punto d’appoggio fondamentale per proseguire l’offensiva.
Nonostante i numerosi tentativi di riconquista, solo il 24 ottobre i Francesi riusciranno nel loro intento. Il luogo verrà rafforzato, insieme ad altri siti di difesa; e ciò costituirà, nel corso del tempo, la Linea Maginot; rivelatasi poi inutile a fronteggiare l’attacco tedesco nel corso della Seconda Guerra Mondiale. I Francesi dimostrarono di non aver imparato nulla dalla Prima Guerra; mentre, ahimé, i Tedeschi impararono, eccome: adottarono, poco più di vent’anni dopo, una strategia fondata sulla velocità e lo sfondamento di settori ben precisi. Condotta applicata con successo in Polonia e Francia, dove, con la famosa guerra lampo (Blitzkrieg), misero in ginocchio la Francia in una manciata di giorni.
Artefice di questa riconquista è una figura divenuta, nel corso del secolo, simbolo negativo della resa ai nazisti: il Maresciallo Philippe Pétain, che sarà a capo della Francia di Vichy, dopo l’occupazione tedesca del 1940.
Pétain, comandante della seconda Armata, fino ad allora lasciata in riserva, viene chiamato a difendere la piazzaforte di Verdun. Egli, in un certo senso, è più…umano rispetto, ad esempio, ad uno Joffre, impassibile di fronte alle illimitate perdite di soldati (i famigerati generali francesi disprezzati dal coraggioso volontario impersonato da Kirk Douglas nel film Orizzonti di Gloria, regia di Stanley Kubrick, 1957): ha a cuore la sorte degli uomini e ritiene che un attacco si dovrebbe svolgere in modo graduale, con obiettivi limitati e con la certezza di cominciare con una forza di attacco paragonabile, se non superiore,a quella nemica. Ma l’eroe di Verdun verrà considerato Nivelle (almeno in un primo momento), specie a motivo di uno stratagemma da lui ideato: l’utilizzo del tiro di sbarramento mobile, cioè una sorta di “muro” di granate che procedeva a ritmo anticipato rispetto alla fanteria, sì da bloccare il nemico e favorire, in contemporanea, l’avanzata dei francesi protetti così dall’artiglieria.
Ritengo peraltro che il comportamento a Verdun abbia contribuito a salvare la vita a Pétain al termine della Seconda Guerra Mondiale.
Dall’episodio della riconquista del Forte trae spunto il regista Jean Renoir per dar vita, nel suo film La Grande Illusione (La Grande Illusion, uscito nel 1937), ad una scena tra le più intense della storia del cinema.
Un folto gruppo di militari francesi, prigionieri dei tedeschi, si esibisce in uno spettacolo di varietà nel quale i primi cantano e ballano in abiti femminili. Ma non appena giunge la notizia che Fort de Douaumont è stato ripreso, essi, all’unisono, si tolgono quelle ridicole vesti e, sull’attenti, cantano la Marsigliese. Non te lo dimentichi.
La visita del Forte permette di scoprire un sito corazzato, esempio delle fortificazioni più moderne, poste alla difesa delle frontiere prima del 1914: Emblema di tutto è la torretta d’artiglieria (la tourelle) da 155 mm.
Il luogo è pure la tomba di 679 militari tedeschi qui rimasti uccisi l’8 maggio a seguito dell’esplosione di una scatola di bombe a mano difettose (e figuriamoci….).
Una mostra permanente ci parla del rapporto tra Verdun e Charles de Gaulle: da quando egli combatté qui (e fu fatto prigioniero) fino all’epoca in cui presiedeva le cerimonie in quanto Capo dello Stato.
Usciamo all’aperto.
Risaliamo in pullman diretti verso un’altra meta, strettamente legata alla precedente: la visita all’Ossario (Ossaire) de Douaumont.
Durante il tragitto, ecco un elegante -e significativo- monumento eretto, nel 2006, in memoria dei caduti francesi di fede musulmana.
Spontaneo chiedere -cercando di evitare toni polemici e /o ironici- alla signora che ci guida:
E i caduti di fede ebraica?
Risposta cortese che para la schiena, diciamo: “Le rispettive comunità hanno preferito inumarli nei loro cimiteri”. OK.
Ecco l’Ossario in cui sono tumulati circa 15.000 militari francesi e altrettanti tedeschi, caduti nel corso della battaglia.
Siamo nei pressi di uno dei nove villaggi, di cui ho parlato sopra.
La costruzione, iniziata nel 1920, architetti Léon Azéma, Max Edrei, Jacques Hardy, e inaugurata nel 1932,
riproduce una grande spada piantata nel terreno, della quale emerge solo l’impugnatura. E’ il più importante monumento francese costruito a ricordo della Grande Guerra ed è stato utilizzato più di recente per le cerimonie ufficiali sulla riconciliazione franco tedesca.
Sempre emblematica Verdun: dalla separazione tra Francia e Germania in base al Trattato omonimo dell’843, passando per le numerose occasioni, lungo il corso della Storia, in cui i due popoli si sono combattuti. Pensiamo, ad esempio, a quando essa, che in base al Trattato era in territorio francese, nel 923 cadde sotto il dominio teutonico, fino alla liberazione nel 1552 per opera di Enrico II (di Francia). O allorché, nel 1792,le armate rivoluzionarie francesi vi furono sconfitte dai prussiani. Fino al 1870: fu l’ultima delle fortezze francesi a cadere nella guerra franco-prussiana
E fino alle iniziative di riconciliazione dopo la Grande Guerra, con la costruzione, tra l’altro, di questo luogo; di nuovo la “separazione”, una manciata di decenni dopo (sappiamo ad opera di chi) e, infine, terminata la Seconda Guerra Mondiale, nuova riconciliazione [8].
Kohl e Mitterrand che si tengono per mano. Retorica? Forse; ma non ti lascia indifferente.
Siamo davanti ad una sorta di necropoli estesa per 138 metri, coperta da una lunga volta a botte sotto la quale i visitatori possono seguire un percorso costellato da tombe e targhe commemorative: noi lo percorriamo nella sua lunghezza in rispettoso, trepidante silenzio.
L’ossario vero e proprio è posto nei sotterranei. “Morte anonima e seriale….Di molti corpi non c’era il nome…di molti nomi non si aveva più il corpo”. Così lo storico Antonio Gibelli.
L’ossario è visibile dall’esterno attraverso le finestre.
Al primo piano c’è un piccolo museo della guerra.
Al centro della struttura, la Torre dei Morti (Tour des Morts), dotata di fari, dalla quale -ma noi, per mancanza di tempo, non saliamo- si ha una panoramica sul cimitero di fronte e sulle zone in cui si svolsero le battaglie.
La costruzione, nella sua originalità, si avvicina, dal punto di vista artistico, allo stile chiamato Art Nouveau, sia per la presenza di decorazioni floreali, come le vetrate della cappella (autore George Desvallières, parigino -1861 /1950-, che aveva combattuto nella Grande Guerra) sia per le forme stilizzate e flessuose.
Davanti all’Ossario c’è un grande cimitero che ricorda quelli costruiti per i caduti della Seconda Guerra Mondiale e che abbiamo visitato: sulle spiagge della Normandia nel 1994 (militari USA) o a Montecassino, 2013 (militari polacchi).
Questo secondo è affidato, dal 1945, alla custodia dei monaci di Montecassino ed ospita le salme di 1.052 soldati del 11° Corpo d’Armata Polacco, comprese quelle del Generale generale Władyslaw Anders e del Cappellano Arcivescovo di Gawlina, morti nel 1970 e qui inumati per loro espresso volere.
O quello, sempre polacco, in uso dal 1946, posto alle porte di Bologna, in Comune di S. Lazzaro di Savena, dove riposano 1432 combattenti polacchi caduti tra l’autunno 1944 e la primavera 1945. Essi appartenevano al Secondo Corpo d’Armata Polacco che, proveniente dall’Alta Valle del Tevere, contribuì dapprima alla liberazione di diverse località dell’Appennino forlivese, indi a quella di Bologna, sotto il comando del suddetto Gen. Anders.
I soldati polacchi furono i primi militari alleati ad entrare a Bologna, assieme alla Brigata Majella, il 21 aprile 1945, giorno della sua Liberazione. Il 20 settembre 1946 il cimitero venne affidato alle autorità militari.
Qui, all’Ossaire, sono sistemate le tombe, contraddistinte da croci, in bianco per i soldati appartenenti ai vincitori, in nero per i vinti.
Una sezione del cimitero, posta in direzione della Mecca, è dedicata a caduti musulmani; un piccolo monumento presso il cimitero è dedicato ai caduti ebrei. Risale al 1938 ed è opera dello scultore Stern, nativo di Verdun.
Peccato non averne conosciuto prima l’esistenza.
Poco lontano dall’Ossario sorgono le rovine dell’Ouvrage de Thiaumont, altro luogo fortificato distrutto dalla guerra, con crateri di granata, e bunker distrutti nella battaglia.
Una precisazione doverosa. Nella redazione di questo “Diario” di Verdun -nel quale alterno quadretti lieti di vita vissuta a notizie storiche- mi è stata di notevole utilità l’opera, uscita in DVD (n. 20, dei quali a Verdun è dedicato il n. 5), a cura di Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport, con la guida competente di Paolo Mieli e Carlo Lucarelli.
Lo scrittore Henri Bordeaux (1870 / 1963), che ha combattuto in entrambe le guerre mondiali, fa vivide descrizioni dell’inferno di Verdun.
In Dolore e gloria di Verdun si chiede: “Sono uomini o cumuli di fango? Dall’elmetto agli stivali..hanno tutti un’unica tonalità, l’argilla marrone di Verdun, il cui odore e colore è familiare a qualunque veterano della battaglia…”.
Pierre Teilhard De Chardin (Orcines, 1881/ New York, 1955), gesuita, illustre teologo, scienziato fu a Verdun come caporale barelliere; quindi a contatto quotidiano con la sofferenza più cruda.
Ci ha lasciato riflessioni profonde. Il 2 novembre 1916, ad esempio, nel suo Diario di guerra, annota: “Che strana vita e quanto dura è quella che si svolge lassù… Lasciando da parte le granate cui finisci per non pensare se non quando sono incombono su di te senza che tu abbia la possibilità di reagire..la terra oppone una tale inerzia agli spostamenti di un uomo anche solo e armato della propria corazza di fango che a lui capita, anzi molto spesso, di cadere spossato e con le lacrime agli occhi. Verdun è anche questo”.
In questa lunga battaglia furono usate dall’esercito tedesco nuove armi, oltre ai gas, quali il lanciafiamme; mentre fece la sua prima apparizione il carro armato. Senza dimenticare il contributo dell’aviazione (si distinsero Manfred von Richtofen, il leggendario Barone Rosso, nonché il trucemente celebre Hermann Göring).
Scrive poi Jandkowski (op. cit., pp. 302 /303)
“La battaglia di Verdun fu una carneficina di dimensione mai vista a quella epoca, nel massacro di Verdun le vittime ufficiali ( tra morti e feriti ) francesi furono pari a 377 231 unità, ma il loro numero reale fu probabilmente attorno a 542 000 soldati, mentre quelle tedesche dovrebbero aggirarsi sulle 434 000 unità [9]. Questo olocausto di vite umane fu provocato in massima parte dalla sola forza distruttrice dell’artiglieria; migliaia di soldati morirono spazzati via dal suo fuoco senza aver avuto la possibilità di vedere il nemico contro cui combattevano. Secondo alcune fonti i proiettili che furono esplosi da parte francese ammontarono a circa 15 milioni mentre i tedeschi ne spararono circa 22 milioni.
Il risultato più immediato di questa battaglia, che ossessionò le menti di milioni di soldati, e che stroncò la vita di migliaia di giovani soldati fu il passare di mano di pochi metri di terreno sconvolto dalle continue esplosioni, mentre quello [cioè il risultato finale] non lo potremo mai quantificare, ma solo leggerlo sui volti e negli occhi di quei uomini che alla battaglia parteciparono”.
In occasione del Centenario ha riaperto, ampliato e trasformato, il Memoriale di Verdun (situato in Comune di Fleury devant Douaumont) , che vedremo in una prossima occasione.
Rinnovato dopo due anni di lavori, il Memoriale di Verdun propone un nuovo percorso di visita su tre livelli. Fin dall’ingresso, il visitatore inizia a seguire i passi di un soldato, francese o tedesco. In seguito, impara a conoscere la vita quotidiana dei Paesi in guerra, attraverso lo sguardo dei soldati in licenza. L’ultimo livello, luminosissimo, si apre infine sul paesaggio circostante.
Oltre 2000 oggetti da collezione, foto inedite e testimonianze evocano l’esperienza di questi uomini provenienti da diversi Paesi d’Europa.
Tornati in città, ci concediamo dopo cena una passeggiata di saluto a questo luogo denso di Storia.
Saliamo alla Porte Châtel.
La Cattedrale, dalle forme composite, dispiega tutto il suo fascino nella luce ancora vivida del tramonto.
[1] Gravelotte è un piccolo villaggio di circa 700 abitanti, situato ai margini del pianoro che domina la valle della Mosella. Distrutto più volte nei secoli passati e, in epoca più recente, sia in occasione della guerra franco-prussiana del 1870 che durante il secondo conflitto mondiale.
[2] Già tedeschi e francesi si erano già scontrati nel settembre 1914 nella battaglia sul fiume Marna, a circa 40 chilometri da Parigi, allorché, dopo l’invasione del Belgio, con manovra a tenaglia in ottemperanza del cosiddetto “Piano Schlieffen” -dal nome del generale tedesco che lo aveva concepito- l’esercito germanico puntava deciso alla conquista della capitale, ma le armate francesi, grazie ad con un’eroica resistenza (alcune truppe arrivarono al fronte utilizzando taxi requisiti dalle autorità militari) glielo impedirono.
Il “Piano Schlieffen” era volto ad evitare il combattimento su due fronti, francese e russo: schiacciare la Francia con una guerra lampo, mentre in Russia, dato tutto il contesto negativo, a cominciare dall’immenso territorio, senza escludere il locale, immarcescibile oblomovismo russo (!), la mobilitazione era ancora in corso.
[3] L’Autore del monumento, assai evocativo, è Claude Grange (1883 / 1971), già combattente nella Prima Guerra Mondiale, autore di numerose opere di alto significato.
[4] François-Auguste-René Rodin (Parigi, 12 novembre 1840 / Meudon, 17 novembre 1917), pittore e scultore francese, è considerato il padre della scultura moderna.
[5] Edizione originale: Verdun (21th February 1916), Paris, Gallimard, 2013; uscito in Italia l’anno successivo con il Mulino, Biblioteca storica, pp. 44, €. 29,00. Un testo che sa intrecciare storia militare, politica, culturale e dar conto sia dei fatti che della costruzione del “mito di Verdun”.
[6] Così Annalisa Lomonaco in www.vanillamagazine.it, 12 settembre 2016.
[7] Duilio e Dante Donzelli, padre e figlio, scultori e pittori, parteciparono con impegno alla ricostruzione artistica della regione delle Mosa, il Dipartimento simbolo della Prima Guerra Mondiale: su 180 chiese distrutte, poi ricostruite dopo il conflitto, in un certo numero di esse (66) i due artisti dipinsero affreschi di ispirazione bizantina e rinascimentale e scolpirono una cinquantina di monumenti in memoria degli uccisi di questi luoghi.
[8] Un breve accenno alla battaglia della Somme.
La battaglia della Somme (dal nome del fiume che attraversa i luoghi interessati, Piccardia, nord della Francia) fu un’imponente serie di offensive lanciate dagli anglo-francesi a partire da luglio (1916) nel tentativo di sfondare le linee tedesche.
La battaglia, voluta fortemente dalla Francia per alleggerire l’enorme e insostenibile pressione germanica su Verdun, dimostrò l’impreparazione tattica e strategica con cui lo Stato Maggiore britannico affrontò la prima grande offensiva delle forze alleate..
I tedeschi ressero molto bene l’attacco protetti nei loro rifugi sotterranei (Stollen), e quando ne uscirono si trovarono davanti un’enorme massa di uomini che avanzavano lentamente nella terra di nessuno a passo di marcia, prestandosi quindi ad essere un facile bersaglio.
Con l’autunno la pioggia trasformò il campo di battaglia e le trincee in un immenso pantano che rese impossibile ogni ulteriore velleità bellica; il 19 novembre si spense l’ultima fase della battaglia, e nemmeno l’apparizione sul campo dei primi esemplari di carro armato, nel settembre 1916, provocò una svolta a favore degli anglo-francesi.
Da un punto strettamente tattico si poté parlare di limitato successo alleato: l’esercito tedesco infatti dovette arretrare di alcuni chilometri, ma il guadagno territoriale irrilevante e l’elevatissimo numero di perdite decretarono il fallimento strategico complessivo dell’operazione: con 620 000 perdite tra gli Alleati e circa 450 000 tra le file tedesche, la Somme si dimostrò una delle più grandi e sanguinose battaglie della prima guerra mondiale.
Da ricordare: è stata la prima battaglia in cui furono ammessi i corrispondenti di guerra. Un documentario di circa un’ora The battle of the Somme fu visto in Gran Bretagna da oltre 20 milioni di persone.
[9] Dati più recenti suggeriscono un numero di vittime molto più alto: circa 976.000 morti e 1.250.000 feriti, includendo anche i civili.