[Segue 23 aprile]
Alcuni anni fa lessi uno stupendo romanzo di una giovane scrittrice ebrea americana, nata a Boston e cresciuta a Filadelfia,
Nomi Eve:
Il frutteto di famiglia [1].
Con la lievità di una ricamatrice e, ad un tempo, con la forza espressiva di un Autore classico, Nomi narra la storia della sua famiglia: dalla prima metà dell’Ottocento, quando i trisavoli -Rabbi Yochanan Schine ed Esther Sophie Goldner Herschell, nipote del Rabbino capo dell’Impero britannico- emigrarono in Terra di Israele e si sposarono a Gerusalemme nel 1837, fino ai giorni nostri, con la protagonista, l’Autrice stessa, il marito Jeremy (“principe di tutte le mie pagine, con cui amo danzare”) e il loro piccolo figlio, Lev. Tutto ruota intorno ad un frutteto, il frutteto di famiglia, appunto, un agrumeto curato ed amato come un essere umano, simbolo della famiglia stessa (non manca, alla fine un interessante manuale di frutticoltura). Lungo il racconto -strutturato secondo un dialogo scritto tra Nomi e il padre Yehoshua (nella finzione Eliezer)- le diverse figure sono inserite in vari contesti, ma è Israele, a far da sfondo, con un notevole contributo di Gerusalemme. Ebbene, tra i personaggi incontrati ve ne sono alcuni che hanno uno stretto rapporto proprio con i membri del Nili. Si parla pure di Aaron con le scoperte in campo botanico e l’opera in favore della libertà per il suo popolo, di Sarah, il cui ricordo affascinò per sempre il bisnonno di Nomi, Shimon, il quale collegava l’intrepida donna, prima che alle rischiose attività spionistiche, ad una simpatica “danza dell’acqua” per irrigare il frutteto -l’unica forma di irrigazione conosciuta allora in quei luoghi- che non prevedeva l’uso di tubi, ma solo quello delle gambe
[2] . Pure i proiettili e la pistola usati da Sarah per suicidarsi hanno una loro storia.
Mitica Sarah. Secondo alcuni, sarebbe stata conosciuta ed amata (unica donna!) da Lawrence d’Arabia, il quale, addirittura, le avrebbe dedicato il suo
I sette pilastri della saggezza, ma questa voce, pur suggestiva, non è suffragata da alcuna prova o indizio.
Per restare invece nel concreto, non va trascurato il bell’Absalom Feinberg, del quale si occupano a lungo pure Lomonaco ed Engle. Uomo coraggiosissimo, poeta -autore, tra l’altro, di “Mille baci”, una ballata dedicata a Rivkà Aaronsohn, divenuta poi una celebre canzone israeliana-, nato nel 1889 a Gedera da una famiglia di origine ucraina giunta in terra di Israele con la Prima Aliyah, aveva aderito entusiasta al progetto del Nili. Amico fraterno di Aaron, suo collaboratore presso la Stazione Agricola di Atlit, lui e Sarah erano innamorati, ma la famiglia della ragazza, stando al racconto di Lomonaco, gli aveva destinato la piccola Rivkà. Quando poi Sarah era ritornata dai suoi, lasciando il marito non amato e con l’urgenza di impegnarsi per il riscatto del suo popolo, l’amore tra lei e “Absa” (così era chiamato da tutti) aveva preso il sopravvento.
Nel gennaio del 1917 Absa e un altro compagno (Yoseph Lishansky), camuffati da beduini, erano partiti diretti al Cairo, con lo scopo di fornire agli Inglesi notizie sui movimenti dell’esercito turco. Mentre attraversavano il deserto, vicino a Rafah, al confine con l’Egitto, un gruppo di beduini, probabilmente evocati dalla guida che accompagnava i due, lì assalì: Absa restò ucciso, Yoseph gravemente ferito (si salverà e morirà poi da eroe per il Nili). Il corpo di Feinberg fu portato via e dell’uomo si perse il ricordo, finché, nell’autunno 1967, dopo la vittoriosa Guerra dei Sei Giorni, una pattuglia dell’esercito israeliano, su informazione di alcuni beduini, giunse davanti ad una palma, in un luogo chiamato dalla gente del posto Kabr Yehud (Tomba dell’Ebreo). Sotto l’albero furono scoperti i resti del poeta; la pianta era nata dai datteri che egli aveva in tasca al momento della morte.
Facile immaginare chi gli avesse donato i frutti. “Sarah raccolse una manciata di datteri e gli corse dietro……Prendili…li mangerai in viaggio….Absalom…la strinse con forza e poi si mise i datteri nella tasca interna della tunica”
[3] .
E’ ora di ripartire.
Lasciamo questo luogo, certo denso di significati, ma poco conosciuto dalla generalità dei turisti, compresi coloro che compiono sovente viaggi in Israele, a cominciare, in primo luogo, da coloro che si affidano al tradizionale circuito devozionale -e sovente fuorviante- dei pellegrinaggi.
Ho intessuto un legame con casa Aaronsohn, impalpabile, ma forte, di persone, di cose e di…case. Come scrivo sopra, quel colore rosa carico lo ritrovo nelle ville e palazzi della mia città, Bologna, e sovente Aaron con Sarah e gli altri mi ritornano al cuore.
Siamo diretti sulla costa, ad Atlit.
La Stazione Agricola Sperimentale non sopravvisse alla morte del suo fondatore.
Judah Magnes, il rabbino americano a lungo docente presso l’Università di Gerusalemme, che conobbe e aiutò Aaron, visitò il posto anni dopo, ma lo trovò fatiscente ed abbandonato. Oggi non resta pressoché nulla, “eccetto qualche palma”
[4] .
Eccoci sul mare, in un’atmosfera simile a quella del nostro Adriatico nei primi anni Sessanta, dove famiglie con bambini e cani si concedono qualche ora di riposo a contatto con la natura.
Ricordi medievali: le notevoli rovine di un castello crociato, risalente all’inizio del XIII secolo, detto Castrum Peregrinorum, poi conquistato dai Musulmani nel 1291; la struttura non è visitabile, poiché è parte di un’installazione della Marina militare israeliana.
Sullo sfondo il Monte Carmelo, sito di grande interesse, in primo luogo, ma non solo, sia per l’Ebraismo che per il Cristianesimo. Dalla Bibbia leggiamo che sul Monte risiedeva il Profeta Elia (IX secolo a. C.), lo sfidante vittorioso sui profeti del dio Baal (1Re: 18, 17-40); a imitazione di Elia un gruppo di monaci cristiani si stabilì sulle pendici dando origine all’Ordine dei Carmelitani.
Il principale motivo di interesse per Atlit è però rappresentato dal Campo di Internamento Britannico per immigrati clandestini, un grande centro di detenzione, costituito nel 1939, nel quale furono rinchiuse migliaia di immigrati clandestini ebrei (circa 120.000), subito dopo la Guerra. Erano per lo più sopravvissuti della Shoah, catturati dai britannici mentre tentavano di entrare nella Palestina mandataria, sfidando le disposizioni restrittive del tristemente famoso “Libro Bianco” del 1939.
Riprendiamo il tema dell’
Aliyah Bet e Angela ci legge un illuminante brano de
I clandestini del mare in cui Ada (Sereni) racconta la propria intima tensione e le peripezie delle navi cariche di umanità dolente: “Erano passati oramai otto mesi da quando ero partita da casa; sentivo una gran nostalgia dei miei….. Dal mio
kibbutz di Ghivat Brenner mi tenni in contatto con l’ufficio di Tel Aviv per avere notizie delle navi e della loro partenza. Il giorno stabilito per l’imbarco sul
Fede e sul
Fenice mi recai a Tel Aviv per leggere i telegrammi; in effetti da Milano era giunto un telegramma, ma il suo tenore era: ‘
Fede e
Fenice scoperti durante la partenza e fermati. Israele e Freier arrestati. Alòn per ora libero’. Dunque eravamo stati scoperti! Sarei voluta tornare subito in Italia….”
[5] .
Ecco una fotografia di Ada: è già anziana, ma lo sguardo e il sorriso sono di una ragazza.
Un paio di anni fa, in occasione del
Salone Internazionale del Libro di Torino (con Israele quale Paese ospitante )
Proedi Editore,in persona di
Andrea Jarach, ha presentato, tra le sue diverse iniziative, l’opera
La Spezia, porta della speranza, costituita da volume e DVD (
prodotti dall’Associazione Gruppo Samuel -fondato da Don Gianni Botto-, in collaborazione con Moving Image, essi raccolgono le testimonianze dei protagonisti), opera nella quale viene narrato come, dopo il 1945, il porto di La Spezia divenne
Sha’ar Tzion,
la Porta di Sion, dalla quale i sopravvissuti allo sterminio del Popolo ebraico (in tale contesto circa 23.000 persone) salparono su diverse navi, tra cui la
Exodus, la
Fenice e la
Fede ed intrapresero il loro viaggio, clandestino, della speranza verso la nuova patria, Israele. Ciò fu possibile anzitutto grazie al sostegno delle autorità e della popolazione italiane e, in particolare, dei cittadini di La Spezia
[6]. La città, per questo episodio, fu insignita della Medaglia d’Oro.
La struttura che ora visitiamo è stata in parte ricostruita grazie ai racconti di coloro che vi furono detenuti, ma il cancello attraverso il quale passiamo è originale.
Il luogo rende perfettamente al visitatore l’idea di ciò che esso è stato: un carcere, tra l’altro fortificatissimo, come se avesse dovuto custodire pericolosi delinquenti, con il filo spinato tutto intorno e le camionette militari a guardia.
Beninteso, nulla a che vedere con i campi di concentramento o di sterminio, ma immaginatevi quale fosse lo stato d’animo di queste persone, ancora vive dopo aver passato l’Orrore massimo, le quali, compiuto un viaggio durissimo per mare, di nuovo -e, per di più, nell’agognato Heretz Israel!- vengono ammassate dai soldati della potenza occupante inglese (e le famiglie separate: uomini da una parte, donne dall’altra…), schedate, con tanto di presa di impronte digitali, nonché, senza tanti complimenti, sottoposte a disinfestazione col tristemente noto DDT, procedura che, a tacer d’altro, rendeva inservibili gl’indumenti, cioè i residui ricordi della vita passata.
All’interno del capannone che funge da struttura, per così dire, museale, ci fermiamo, con Angela e la giovane guida locale, una ragazza bionda, davanti ad una sorta di camera di sterilizzazione in metallo -ve ne sono alcune- dall’aspetto angosciante, tra il sadico e il fantascientifico -quello da terrore, altro che ET!- in puro stile Hollywood anni Cinquanta (concetti non poi così irriducibili tra loro).
Alle pareti immagini parlanti degl’internati: donne e uomini dai cui volti traspare la sofferenza vissuta, ma anche la speranza in una nuova vita. Ecco un’immagine ripresa dalla nostra Chicca.
A commento di ciò Angela ci spiega che il centro di documentazione qui istituito raccoglie numerose testimonianze. Alcune sono davvero tremende, in altre i protagonisti tentano di..smitizzare la loro difficile situazione: in fondo, essi dicono, ciò che conta è l’aver messo i piedi sulla Terra dei Padri e poter ricominciare.
C’è, in riprova, una grande fotografia scattata in occasione di una visita di Haim Weizmann al campo: l’uomo politico è al centro e tutti gli sguardi, le braccia, i corpi convergono su di lui abbracciandolo idealmente.
Visitiamo anche alcune baracche che ci danno una certa idea di come fosse la vita qui.
Anzitutto i tetti delle costruzioni, in lamiera, con conseguente insopportabile caldo estivo; poi le lunghe file di letti, da non garantire un minimo di riservatezza.
Peraltro la vita si afferma con forza nelle piccole, grandi cose di ogni giorno. Qua una fisarmonica, là un grammofono: magari tali strumenti avranno contribuito a rendere meno angosciose le giornate, prima in mare, poi in questa detenzione, per così dire, supplementare; una macchina da cucire, un’asse per stirare; alcuni quaderni serviti per lo studio della lingua ebraica, in vista della nuova esistenza, che, dopo tale ingiusto Purgatorio, sarebbe iniziata in Terra di Israele, una volta assorbita, sia chiaro!, la quota massima di 1500 persone al mese…..
Un lettino con le sponde per un piccolo eroe e, poco lontano, un paio di scarpine.
Il 10 ottobre 1945 il Palmach (unità di forze speciali della Haganah) irruppe nel campo e liberò 200 prigionieri: a capo della spedizione c’era il giovanissimo Itzhak Rabin. Tale incursione convinse i britannici a chiudere il campo.
Proseguiamo la nostra conversazione sull’immigrazione clandestina e, in particolare, sulle drammatiche, spesso tragiche, vicende delle navi che trasportavano reduci della
Shoah. Rammentiamo nomi celebri come
Exodus,
Patria o
Struma. Quest’ultimo era “una carretta del mare stipata di immigrati ebrei, in fuga dai nazisti [e sappiamo quali alti prezzi, anche in termini monetari, gli Ebrei pagavano per tentare di salvarsi!], decisi a entrare illegalmente in Palestina. Nel dicembre del 1941 era salpata da una città romena sul Mar Nero. Durante il viaggio era stata bloccata nel porto di Instanbul su pressione degli inglesi intenzionati a impedirne l’attracco a Haifa. Le quote di immigrazione previste dal Libro Bianco erano state superate e l’Alto Commissario Mc Michael era stato irremovibile….A bordo dello Struma 779 disperati, di cui 250 donne, 79 bambini….Per due mesi nessuno si era preso cura di loro, oramai in condizioni disperate. Anzi, il 23 febbraio 1942 la nave -i motori in avaria- era stata rimorchiata dai turchi di nuovo nel Mar Nero e lì lasciata in balìa delle onde. Alcune ore dopo un sottomarino sovietico, ignaro della sua identità, l’aveva colata a picco con un siluro: i passeggeri erano tutti affogati, tranne uno”
[7] .
All’esterno, verso la spiaggia, un originale monumento in colore azzurro a forma di onde marine stilizzate sulle quali sono incisi, in ebraico, i nomi delle imbarcazioni, ci ricorda eventi e persone: per Yom Ha-Zikharon, il Giorno del Ricordo di tutti i Caduti per l’Indipendenza e la Vita di Israele (compresi gli uccisi negli attentati terroristici), vengono onorate anche le persone morte durante l’immigrazione clandestina.
[1] Nomi EVE, Il frutteto di famiglia, Mondadori, Milano, 2001, pp. 346; titolo originario The Family Orchard, Alfred A. Knopf, Inc. New York, 2001.
[2] N. EVE, op. cit., p. 82.
[3] M. LOMONACO, op. cit., p. 98.
[4] M. LOMONACO, op. cit., p. 605.
[5] A. SERENI ASCARELLI, op. cit., p. 79.
[7] M. LOMONACO, La caccia di Salomon Klein, cit., pp. 264-265.