[Segue 26 Aprile]
Basta con la “siesta”.
Ci aspetta, al Keren Hayesod in Via King George 48, il nostro amico Yosh Amishav.
E’ sempre un grande piacere incontrare Yosh, ricco di buonumore ed umorismo.
Visitiamo rapidamente con lui la sede del Keren, che non avevo mai visto, un ambiente operoso e pieno di luce. Vicino all’entrata una targa a ricordo dell’attentato qui perpetrato l’11 marzo 1948. Ci accomodiamo al primo piano in una saletta tutta per noi.
Subito il nostro padrone di casa chiede chi -tra noi- è qui in Israele per la prima volta e, ottenuta la risposta, parte con l’inevitabile ulteriore domanda: “I vostri familiari erano preoccupati per questo viaggio?”; di nuovo, poco dopo: “Sapeste, poche settimane fa, mia madre…..Quando, al telefono, le ho comunicato che mi trovavo in Sicilia, è piombata in una grande agitazione…immaginava regolamenti di conti ad ogni angolo di strada, uccisioni…..Mi chiamava al cellulare di continuo! A parte queste angosce senza motivo, la Sicilia è davvero meravigliosa!”
Yosh ha la preziosa qualità di metterti a tuo agio, smitizzando tutto con una battuta o una risata. A volte ho l’impressione che esageri, quanto ad ottimismo, ma, nello stesso tempo, penso che, se “dall’altra parte” ci fossero persone come lui, la pace, quella vera, sarebbe possibile sul serio.
Due, ma proprio due, parole sull’istituzione, di cui egli è esponente di primo piano, e sul significato del suo nome.
Keren Hayesod (קרן היסוד), fondato a Londra nel 1920, è il Fondo nazionale di costruzione d’Israele e la centrale finanziaria del movimento sionista mondiale, nonché dell’ Agenzia Ebraica per Israele (o Sochnut, l’ente diretto a favorire l’immigrazione in Israele e alla difesa dell’ebraicità dello Stato; in passato fu, come sappiamo, l’organo governativo dello Yishuv).
Ecco il manifesto istitutivo (tratto dal sito web
www.kh-uia.org.il), pubblicato il 24 dicembre 1920 su
The Jewish Chronicle.
Il vocabolo “Keren” significa, in primo luogo, “Raggio”; ma nell’espressione Keren Hayesod vuol dire “Fondo”, di danaro per finanziare un progetto. Il vocabolo Yesod, preceduto dall’articolo Ha, poi, sta per “Fondamenta, Base”. L’espressione KEREN HAYESOD sta ad indicare dunque il programma di: Istituire un fondo per finanziare le fondamenta, la base di uno Stato, cioè Israele.
Infatti, fin da quando lo Stato era in fase di costituzione, il Keren Hayesod finanziò il rientro e l’integrazione nella Terra dei Padri di molti ebrei provenienti da tutto il mondo (in particolare i sopravvissuti della Shoah), nonché la costruzione di nuovi centri -indispensabili alla nuova realtà in fieri-e di tutta una serie di infrastrutture come la Società Elettrica, le fabbriche di estrazione del Mar Morto e la società navale nazionale ZIM. Fino al 1948 raccolse -in gran parte presso le varie diaspore ebraiche nel mondo- centoquarantatré milioni di dollari, che permisero di trasformare il Sogno in Realtà.
Il Keren è attivo in sessanta Paesi ed è, come detto, il “braccio finanziario” dell’Agenzia Ebraica; il suo budget è di circa 200 milioni di dollari all’anno (se ho ben capito). La sede coordinatrice è quella in cui ci troviamo ora.
Yosh ci racconta del rilevante impegno profuso, a partire dagli anni ’90 del Novecento, quando emigrarono qui dall’Unione Sovietica (poi CSI) un milione di persone: “Per rendere l’idea, è come se gli USA avessero assorbito la popolazione della Francia”.
I giovani di origine russa stanno dando un rilevante contributo al Paese, dall’ambito sportivo (“Avete presente il saltatore in alto Averbuch?”) a quello artistico, a quello, aggiungo io, della sicurezza: quante giovani guardie giurate, originarie magari della periferia dei Paesi dell’ex impero sovietico (talora freschi cittadini israeliani, o magari persone in attesa della cittadinanza) hanno o evitato attentati o sacrificato la propria vita per rendere meno catastrofiche le conseguenze di quegli atti criminali!
C’è purtroppo il rovescio della medaglia, in termini di: disadattamento, malavita organizzata e alcoolismo -antica piaga, quest’ultima, dei Paesi esteuropei-, fenomeni che, in precedenza, non erano frequenti. Tuttavia, egli ribadisce, il bilancio complessivo è più che positivo.
In generale il compito del Keren è far sì che chiunque giunge nel Paese, anche da contesti i più arretrati dal punto di vista socio-economico, sia in grado ben presto di comprendere l’ebraico e di sbrigarsela in qualsivoglia necessità della vita quotidiana.
Quali sono le attuali priorità specifiche del Keren?
Supportare Tzahal nella creazioni di basi importanti nel Neghev, territorio nel quale la popolazione, già scarsa, sta invecchiando; il Neghev, insieme alla Galilea, è una delle aree di investimento. A riguardo egli rileva un certo disinteresse governativo nei confronti dei beduini colà viventi. Altra priorità, anzi lo scopo primario, la sua ragion d’essere, è, come detto sopra, l’attività di sostegno ai segmenti più deboli della società, non solo coloro che provengono dall’Est Europa, ma gl’immigrati da nazioni teatri di tremende guerre: pensiamo alla Cecenia, al Dagestan e, di recente, a Darfur e Sudan. In quest’ultimo caso, si tratta sovente di profughi di religione musulmana, che nessun Paese professante la medesima fede ha inteso accogliere.
Yosh ci porta il caso degl’immigrati dall’Etiopia, giunti in due ondate, nel 1984 -con l’Operazione Mosè, a ricordo dell’immagine biblica: questa gente che non aveva mai visto un aeroplano, credette davvero di essere trasportata nella Terra Promessa “su ali di aquile”- e nel 1991 -grazie all’Operazione Salomone, l’illustre ”antenato”-, allorché, nell’arco di sole trentasei ore, 15.000 Etiopi di religione ebraica furono condotti in Israele con un massiccio ponte aereo.
Per la popolazione di origine etiopica non è stato facile adeguarsi a un sistema di vita e di valori assai diverso da quello del Paese di provenienza, fondato quest’ultimo su una società agricola arcaica caratterizzata da modelli tribali in cui l’autorità del padre è indiscussa. Il crollo di questo “pilastro” ha portato gravi fenomeni di disadattamento: vediamo padri confusi e disorientati, figli adolescenti che si atteggiano a…bulli e si sentono ora il vero leader di casa. Quanto alla madre, il solo fatto che ella esca di casa per lavorare è vissuto come fatto scandaloso e imperdonabile, tanto che, stando alle statistiche di cronaca nera, un terzo delle mogli uccise dai mariti è di origine etiope.
La verità è, riflette amaramente Yosh, che la nostra società corre veloce e non si ferma certo a guardare chi è in difficoltà. Comunque, bando ai catastrofismi: la comunità ha fatto comunque passi avanti. Il tasso di disoccupazione medio in Israele è del 7%, con un 65% imputabile ai maschi ultraortodossi.
Accanto a coloro che compiono l’aliyah, vi è un “flusso in uscita” di circa diecimila persone le quali, ogni anno, lasciano il Paese, vinti dall’angoscia e dalla paura per il loro futuro: per lo più o ritornano nei luoghi di origine o partono alla volta degli USA.
Se è notorio che gli Arabi israeliani non compiono il servizio militare, non tutti sanno che essi possono praticare, su base volontaria, il servizio civile: attualmente i giovani impegnati sono circa seicento.
Tra le tante domande rivolte dagli ospiti non può mancare quella relativa al conflitto israelo/palestinese, o meglio riguardante la situazione socio economica della Cisgiordania. Il notevole tasso di sviluppo dell’area (oltre il 7%), reso possibile dall’intraprendenza degli operatori locali, dai notevoli finanziamenti internazionali, nonché dal contributo israeliano, è ben visibile.
Il Primo Ministro dell’ANP, Salam Fayyad, sta costruendo, a parere di Yosh, le istituzioni dello Stato Palestinese. Da parte mia nutro profonde riserve. In primo luogo, il personaggio, al di là delle apparenze, è, nella sostanza, un estremista arafattiano che ritiene “cosa propria”, cioè dei Palestinesi, il patrimonio politico, storico e culturale altrui, cioè degli Ebrei / Israeliani. Da ciò deriva che un vero Stato palestinese sarà realizzabile solo quando i leaders palestinesi -a cominciare proprio da Abbas e Fayyad, ritenuti, chissà perché, moderati- riconosceranno Israele come Stato ebraico, punto di partenza per ogni seria trattativa e non questione nominalistica, come sostengono tanti sedicenti esperti, che non conoscono la storia, né hanno a cuore i fondamenti della democrazia. Tale riconoscimento, per la verità, mi sembra, al momento assai lontano, anche dall’orizzonte dei politici arabi -e, in primo luogo, palestinesi- più pragmatici e “moderati”. Disconoscimento, va da sé, che gode del pieno appoggio di parte dell’Occidente, il quale, con colpevole spirito autolesionista e per non essere disturbato nel suo stile di vita materialista e agnostico, nega le proprie radici democratiche e intende vendersi, anzi regalarsi, ancor meno che per un….cappuccino.
Vengono in mente le parole del Profeta Amos, fustigatore dei costumi del regno di Samaria (6, 1a.4-7) ”….bevono il vino in larghe coppe e si ungono degli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano”. Attenti a ciò che ci aspetta, se non mutiamo percorso: “Andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti”.
Ci congediamo dal nostro amico con una foto ricordo di questo simpatico incontro (Yosh è il signore in ultima fila, con la camicia color azzurro carico, accanto ad Angela).
Ritorniamo in albergo dopo un ampio giro.
Il pullman ci lascia sul viale intitolato a Re David e così ripassiamo dal Quartiere Montefiore, dove vediamo e fotografiamo la carrozza di Sir Moses. Lo immagini, nelle sue passeggiate da queste parti, anziano e indomito
oltre a un bassorilievo colorato illustrante la zona
e ci fermiamo tra le piante di Mishkenot Sha’Ananim
l’istituzione culturale di fama internazionale, cui accenno anche nel Diario 2009, costituita dalla Jerusalem Foundation -“creatura” quest’ultima di Teddy Kollek, il leggendario Sindaco di Gerusalemme (dal 1965 al 1993)-. Mishkenot comprende il Centro di conferenze “Konrad Adenauer”, sale per conferenze, auditorium, biblioteche e una lussuosa “foresteria” con venticinque camere per ospiti, dotate di una vista impagabile sulle mura della Città Vecchia.
Da un belvedere fotografiamo la parte in muratura della barriera difensiva, in direzione
Betlemme.
Ricordo la visita del 1996 alla cittadina natale di Gesù, l’antica, indimenticabile Basilica costantiniana della Natività. Allora non vi erano muri, poiché, al di là degli attentati e dei programmi distruttivi arafattiani (che si faceva finta di non vedere, pur evidentissimi), c’era una grande fiducia, per non dire fede cieca e assoluta, nella Pace.
Rientrati in albergo parlo brevemente al telefono con Claudio Pagliara, dal 2003 responsabile dell’ufficio RAI per il Medio Oriente. Seguo sempre in TV i réportages di questo giovane giornalista serio, preparato e spiritoso; una boccata d’aria fresca dopo il lungo periodo buio caratterizzato dallo sbucare sul video di certi suoi colleghi dallo sguardo ebete della malafede, improntata all’immancabile condanna di qualsivoglia reazione opposta dall’esercito “con la Stella di David” alle feroci stragi di israeliani inermi. Claudio non è il tipo di giornalista che se ne sta comodo in albergo a sorseggiare bibite, in attesa di prendere come oro colato le “veline” cartacee passategli da una sola parte (quella palestinese, of course, ma il discorso non cambierebbe nell’ipotesi -per la verità solo “di scuola”, cioè irreale- che la fonte unica fosse israeliana). Il nostro va sul campo, nelle zone a rischio, e non teme di rivolgere domande scomode a chicchessia.
Con quell’aria da bravo ragazzo-che tutte-le-signore-vorrebbero-come-genero-o-come figlio lo vedi a suo agio sempre, o almeno non lascia intravvedere ansie o preoccupazioni. Si tratti di intervistare politici importanti, di parlare con giovani palestinesi ansiosi di un’esistenza normale, di intrattenersi con belle ragazze protagoniste della vita notturna di Tel Aviv o di farsi calare, “imbragato” come si conviene, in uno dei tanti tunnel a Rafah e dintorni, non perde mai il suo caratteristico aplomb.
Non ho avuto difficoltà a mettermi in contatto con lui, persona davvero affabile, prima dall’Italia tramite posta elettronica, poi, qui a Gerusalemme, col cellulare. C’era anzi una sorta di semiappuntamento, con Mauro e con me, per oggi, al termine della nostra giornata di visita. Chissà quali racconti ci avrebbe riservato!
Purtroppo un contrattempo professionale -che non mi rivela, ma di cui sinceramente si scusa- lo costringe in RAI mandando tutto all’aria; e domani la nostra carovana deve ripartire.
Quale sarà stato il contrattempo? Credo di conoscere la risposta.
Dopo alcuni giorni verrò infatti a conoscenza di un orrendo cartone animato, diffuso da Hamas, avente ad oggetto la disperata ricerca del figlio Gilad da parte di Noam Shalit; tale macabra novità ha fatto subito il giro del mondo e dunque immagino fosse necessario per Claudio occuparsene senza indugio, come inviato in questi luoghi.
Spero che avremo una prossima occasione di incontro; intanto lo seguirò in TV e sul blog personale.
Con Mauro usciamo prima di cena per contemplare le tante valli silenziose in città, ricche di vegetazione e di parchi; in esse, per legge, è proibito costruire.
Dal Quartiere Montefiore ci incamminiamo lungo viali e vialetti fioriti.
Entriamo nell’Anfiteatro Merril Hassenfeld, indi nel Mitchell Garden: sopra di noi le mura della Città Vecchia, che stanno assumendo il caratteristico colore rosato. Ricordo di aver visto in TV, tempo fa, una rappresentazione diretta da Riccardo Muti. Uno spettacolo indimenticabile.
Siamo giunti, credo, nella cosiddetta Geenna (o in prossimità di essa): incantati, rinveniamo una certa, per così dire, dualità del luogo. Una magica contrapposizione tra il nome, Geenna, evocante castighi divini, e la meraviglia dei profumi inebrianti da cui siamo avvolti.
Risate di giovani nell’imbrunire.
Il traffico è intenso a quest’ora, ma, se tendi l’orecchio, tra le valli odi i cani abbaiare.
Rammento ancora le pagine di Shulamit Hareven. Un personaggio del suo romanzo, più volte richiamato, è un medico appassionato di musica, il Dr. Heinz Barzel, immigrato a Gerusalemme dalla Germania, soprannominato ben presto il Dottor Bimbi. Stabilitosi a Rehavia in una bella casa con giardino, aveva ordinato un cedro dal Libano e si era impegnato al massimo perché esso vi trovasse il suo
habitat e crescesse bene perché“chi si costruisce una casa Gerusalemme deve avere anche un cedro”.Il cedro attecchiscee Barzel, felicissimo, organizza, per onorare l’albero, una grande festa a casa sua
, una serata “degna di Schubert”
[1]. Nessuno conosceva, per la verità, il significato esatto di quell’espressione, anche se tutti avevano chiaro che si riferiva a momenti belli, di calda intimità.
Pure la nostra serata -di Mauro e mia-, tra le essenze di Gerusalemme, è..degna di Schubert.
Nella hall del King Solomon vedo Chicca intenta a parlare con una signora. La riconosco subito, anche se sono trascorsi sei o sette anni da quando ci incontrammo in occasione di una sua visita a Bologna: Zina Corinaldi!
Abbigliamento sportivo, una zazzeretta pepe/sale a incorniciare un viso sorridente, sono molto felice di rivedere Zina, che ti incanta ogni volta per le acute osservazioni pronunciate con un accento israelo/brasiliano, davvero unico. Scambiamo quattro chiacchiere.
Per Zina vale quanto promesso a Claudio: l’anno prossimo a Gerusalemme.
L’arrivederci della città ha il volto di Boaz Modai, gerosolimitano doc da ben otto generazioni. Funzionario del Ministero degli Esteri, svolge il delicato compito di responsabile nella formazione dei giovani diplomatici. Nel 2000 è stato il coordinatore della visita di Giovanni Paolo II in Israele. Ci intrattiene circa i principali problemi sul tappeto, a cominciare dalla questione Iran, pericolo mondiale, non solo limitato a Israele, del quale l’Occidente non sembra rendersi conto.
Occorre in primo luogo tener ben presente che non possiamo paragonare l’Iran di oggi all’Iraq del 1981, quando l’aviazione israeliana distrusse Osirak, il reattore nucleare iracheno costruito con capitali francesi, attirandosi le prevedibili contumelie dell’universo mondo, ma salvando quest’ultimo da spiacevoli sorprese (pare proprio che la “cattivanima” di Saddam Hussein fosse vicino alla costruzione della Bomba). L’Iran, imparata la lezione, ha piazzato i suoi reattori nucleari o in luoghi non identificabili o in zone popolate, rendendo così oltremodo difficile una spedizione punitiva.
Altra questione: i rapporti israelo/palestinesi e l’eventuale ripresa del processo di pace. Se ne parla, ma non vi sono (ancora) contatti diretti; anche perché la controparte ha posto come precondizione la moratoria delle costruzioni anche a Gerusalemme (???), il che non era certo in agenda. Alla domanda se sia in discussione la divisione della Città, risponde in modo negativo; almeno per ora (speriamo. E ci mancherebbe…).
Boaz vede con preoccupazione la progressiva delegittimazione di Israele come stato di apartheid, operata dai suoi nemici con la piena complicità (almeno di una parte) di quell’Occidente che, viceversa, dovrebbe conoscerlo come parte di se stesso. Confessa di essersi recato recentemente in Polonia e di aver visitato i Campi di sterminio: da questa esperienza ha dedotto la ferma convinzione che Israele deve anzitutto contare sulle proprie forze poiché, in caso di grave difficoltà o peggio, nessuno correrebbe in suo aiuto.
Riferisce con una certa soddisfazione che la crisi economico/finanziaria che ha investito il mondo, pur colpendo anche Israele, lo ha pregiudicato meno rispetto ad altri Stati.
La conversazione prosegue in modo piacevole e…diplomatico. Il nostro interlocutore, infatti, da buon funzionario ministeriale, ritiene giustamente di non scoprire troppo le sue carte, anche se si trova davanti ad un gruppo di amici.
Circa i rapporti tra Bibi Netanyhau e Barack Obama: certo, tra i due non corre simpatia, ma gli USA -il Paese più rilevante per Israele- non sono solo Obama. D’altronde, quest’ultimo ha compreso che non può condizionare Gerusalemme più di tanto, e ciò è importante.
Inoltre, a proposito dei Paesi e Governi arabi, esprime l’auspicio che questi possano essere disposti ad accettare da Obama ciò che hanno decisamente rifiutato quando a parlare era Bush.
E’ consapevole delle difficoltà e contraddizioni dell’Europa, vista come un luogo di variegate posizioni: l’attuale governo italiano è vicino a Israele, così come altri, quali la Repubblica ceca o la Polonia, ma vi è pure chi non è precisamente amichevole, mentre altri sono, per così dire, altalenanti; e inoltre abbiamo istituzioni ed organismi con diversi orientamenti, ecc., ecc…
Un teatro oltremodo difficile; un Grande Gioco di dimensioni Mondiali.
[1] S. HAREVEN, Una città dai molti giorni, cit., p. 78