[Segue 27 Aprile]
La prima creatura che ci viene incontro è un affettuoso cane lupo di nome Micha,
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seguito poco dopo da Moshe Buch, la nostra guida in loco.
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Piccoletto, simpatica faccia contadina, un certo “senso per la scena”, ci dà il benvenuto del kibbutz -lo chiama per brevità così- nel cosiddetto “Cortile dei Pionieri”, una piazzola ben curata sulla quale si affaccia un gruppo di edifici: Museo, Biblioteca, fabbricati operativi. In perfetto ordine sono posizionati alcuni attrezzi agricoli.
Degania si appresta a festeggiare i cento anni di vita; anzi, nel suo inglese fluido, Moshe lo definisce la “Sala parto del movimento kibbutzistico”.
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Ci parla con affetto di questi giovani entusiasti partiti dalla Russia alla volta della Palestina per costruire un villaggio ebraico, guadagnandosi da vivere con il lavoro della terra, conseguita in proprietà dalle organizzazioni sioniste.
“Gli Ebrei” osserva “avevano tanto pregato affinché D-o (o magari il Messia) li riportasse nella Terra dei Padri ed Herzl si propose di aiutare D-o ad…aiutarli in questa loro impresa”.
Capitava che i ragazzi si conoscessero e facessero amicizia durante il viaggio per mare dal luogo natìo alla Terra di Israele: vivevano così insieme l’emozione dell’arrivo.
Leggiamo le pagine toccanti di Francesca Cernia Slovin: “In acque calde e tranquille, la nave aveva proseguito a lenta marcia…Ma durante l’ultima notte, uno strano, quasi accordato, silenzio si distese da prua a poppa. Sola, una voce femminile…intonò una ninna nanna….Mentre l’ultima ombra lasciava il mare aperto…un brivido inatteso fece trasalire quei corpi abbandonati, come se fossero stati sfiorati da un lieve battito d’ali…D’improvviso, qualcuno mormorò: ‘Giaffa….’ Un altro gli fece eco rispondendo: ‘La Palestina’ E un terzo appena più forte esultò: ‘Eretz Israel!’ Tra centinaia di passeggeri, i sionisti si alzarono a uno a uno, lentamente e in silenzio….i lunghi giorni di stenti, la fame, il fetore, i ratti furono dimenticati. Ora c’erano solo loro, i sionisti della Seconda Aliyah, l’uno abbracciato all’altro, con il collo allungato verso l’alto, lo sguardo proteso verso terra, i gemiti, le lacrime e i sorrisi librati nella brezza dell’alba”[1] .
Entriamo nel piccolo, interessantissimo Museo che racchiude, insieme all’Archivio, l’epopea di questo pezzo così rilevante della storia di Israele, dall’inizio fino ad oggi.
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Ecco le prime case, costruite in fango da coloro che avevano preceduto i veri e propri fondatori della kvutzah
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Un’immagine fotografica color seppia, ben composta e davvero affascinante, ci presenta alcuni dei “Magnifici Dodici”, tutti molto giovani; gli uomini indossano la rubashka, il tradizionale camiciotto russo a girocollo, con l’abbottonatura laterale. Essi lasciarono il freddo della Russia per approdare a queste zone paludose -come sappiamo e com’è attestato, ad esempio, da un’immagine scattata dal fotografo Avraham Susskin, lo stesso che scattò la storica immagine dei fondatori al lavoro, alcuni dei quali ritratti sul tetto della prima capanna-; “…vennero qui” confessa Moshe “senza una particolare preparazione, ricchi soltanto di: un grande cuore, due mani e grande amicizia gli uni verso gli altri”. Uomini e donne alla pari, finalmente: stessi diritti e stessi doveri. Da un piccolo gruppo di 12 giovani sarebbe derivato un movimento di 150.000 persone!
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Ci sono, ad esempio: Sarah Malkin, nata in Russia, aliyah nel 1904, la ragazza in seconda fila -con gli occhiali da studiosa, lo sguardo severo e i riccioli neri-, la stessa che, alcuni anni prima, vestita da uomo (!), aveva cercato lavoro come operaio agricolo a Petach Tikvah, la Porta della Speranza, il primo insediamento (1878) costruito in Terra di Israele.
Il giovane con la cravatta scura, i capelli lunghi e l’aria sognante è Yoseph Bussel, originario della Lituania, il quale aveva abbandonato gli studi rabbinici per amore di Sion. Era considerato il “cervello del gruppo”: egli, che, tra l’altro, teneva la contabilità, decise, d’accordo con gli altri, che tutte le entrate fossero divise in parti uguali e che ogni proprietà fosse comune: qualunque cosa entrasse in proprietà di uno, sarebbe appartenuta a tutti.
“I primi giorni dopo il nostro arrivo in Palestina ci sbeffeggiavano e non potevano capire che noi giovani venivamo per lavorare..” ricordava. La kvutzah, secondo Yoseph, serviva essenzialmente a due scopi: “Conquistare il lavoro senza che vi fossero padroni o dipendenti”, dunque alla realizzazione di un vero socialismo; ma anche alla messa in pratica di due principi fondamentali del sionismo: “La conquista del lavoro” e “La conquista della terra”. In tal modo la kvutzah diventava la sintesi perfetta di sionismo e socialismo, la realizzazione degli obiettivi del risorgimento nazionale ebraico [2]. In simile contesto egli propugnava anche l’allevamento collettivo dei bambini. Purtroppo Yoseph morì prematuramente, nel 1919, annegando nel lago di Tiberiade (aveva solo 29 anni).
Una decisione presa all’unanimità dai fondatori era stata quella di non sposarsi prima che fossero trascorsi cinque anni dalla costituzione della comunità. Ma l’impegno non fu osservato da Yoseph Baratz -il quale in precedenza aveva lavorato come scalpellino a Gerusalemme, originario di Kishinev, teatro del terribile pogrom del 1903- che, prima dello scoccare del fatidico lustro, impalmò la sua Miriam (anch’essi visibili nella foto, a sinistra).
Miriam -di origine ucraina, nata Ostrovsky da una famiglia di ideali sionisti, morta nel 1970- è stata un personaggio simbolo di Degania; molto popolare in tutto il Paese, ed ha rappresentato il modello dell’autentica “pioniera”.
Il matrimonio (il primo a Degania!) fu allietato dalla nascita di sette figli, numerosi nipoti e pronipoti. Il loro Gideon fu il primo nato del villaggio, venuto alla luce all’Ospedale della Missione Scozzese, a Tiberiade
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Quanto scrive Meir Shalev nel suo romanzo d’esordio a proposito del primo nato a Nahalal, ben si attaglia al primo nato di Degania [3] .
“Ce lo passammo di mano in mano e lasciammo che ogni Compagno e Compagna lo prendesse in braccio. Per un attimo di timor sacro e di dolcezza sentimmo la promessa che esalava caramente dalla sua carne…Uno dopo l’altro, quasi toccassimo un oggetto sacro, lo tenemmo, e ognuno di noi lo benedisse….Ognuno di noi sentiva di avere in lui una sua parte”.
Il secondo nato fu il figlio di Dvora e Shmuel (divenuto quest’ultimo nel tempo un rilevante uomo politico israeliano) Dayan nel 1915. Il bambino poi diventerà uno dei personaggi che hanno fatto la storia del Paese.
Fu chiamato dai genitori Moshe (Moshe Dayan significa Moshe il Giudice) in memoria di un giovanissimo abitante di Degania, Moshe Barsky, di origine russa, ucciso (anch’egli il primo!) nel novembre 1913 -mentre era alla ricerca di un farmaco proprio per Shmuel- da alcuni beduini ai quali il mulo sul quale egli viaggiava aveva fatto gola. I fratelli di Barsky, racconta la nostra guida, profondamente colpiti dalla tragedia, si trasferirono tutti qui.
E ripenso alle pagine da favola, eppure così realistiche, di Shalev mentre considero le vite di tali giovani: “Tutti…erano nati in un Paese lontano…alcuni erano venuti in carri di ‘mugichi’ che avanzavano lentamente tra nevi e pomi selvatici….lungo spiagge rocciose….Altri erano venuti cavalcando oche selvatiche dalle chiare penne, che avevano ali lunghe e..planavano e stridevano dalla gran gioia sopra vasti campi e un mare nero. Altri …avevano pronunciato parole magiche che ‘li avevano portati in un gran vento ‘ fino a qui, ardenti di entusiasmo e a occhi chiusi”[4] .
Il kibbutz crebbe rapidamente, come possiamo vedere dalla documentazione esposta, in particolare dalle cartoline, come quella che Moshe mi regala nella quale c’è una ragazza biancovestita intenta a dar da mangiare ai polli: alle sue spalle solide case in muratura.
Degania Ragazza con fazzoletto bianco
Sostiamo davanti a oggetti, materiali diversi, fotografie, alcune davvero commoventi.
In una sala del Museo, la quarta, c’è la Stanza del Ricordo, con le immagini dei caduti in tutte le guerre combattute da Israele: “Ognuno di loro è accanto a noi in un rapporto strettissimo” sussurra Moshe.
Per quanto Degania sia considerata “la madre di tutti i kibbutzim e insediamenti collettivi”, tuttavia, pur in mezzo a intensi dibattiti e lacerazioni interne, ha intrapreso, per taluni aspetti, una strada diversa da quella imboccata da altri insediamenti collettivi sorti successivamente. Un esempio per tutti: qui non c’è mai stata la famosa beit yeladim -o “casa per i bambini”, di cui ci parla Bruno Bettelheim nel suo saggio di oltre un quarantennio fa, problematico quanto interessante- [5]; i figli infatti hanno sempre dormito con le rispettive famiglie.
Ritorniamo all’aperto e Moshe, con un certo orgoglio, ci fa notare: “Vedete com’è rigogliosa e verde quest’erba? All’inizio qui c’erano solo terra sabbiosa e fango” e ride accarezzando un gatto nero con occhi verdissimi da tigre, che scappa senza lasciarci il tempo di fotografarlo.
Micha, il mite lupetto incontrato all’inizio della nostra visita, deve vedersela con un paio di…concorrenti: un labrador beige (più tranquillo) e un rottweiler marrone (dall’aria non proprio socievole).
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Trascorsi alcuni minuti ad osservarsi senza che alcuno tra loro prenda posizione nei confronti degli altri due, il terzetto si allontana, apparentemente in pace.
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Degania Alef è stata la patria di un certo numero di israeliani illustri, ma anche personaggi leggendari lavorarono qui: pensiamo alla poetessa Rachel, a Yoseph Trumpeldor, a Aharon David Gordon. Molti membri di Degania Alef, poi, la lasciarono per fondare, com’è accaduto sovente, altri kibbutzim.
Aharon David Gordon, soprannominato lo Tzaddik della Galilea -sepolto nel locale cimitero, come Sarah Malkin e alcune figure rappresentative-, può essere considerato il Padre spirituale della Seconda Aliyah.
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E’ stato il fautore della creazione, nella Terra dei Padri, di un “nuovo Ebreo”, di un “nuovo Popolo ebraico”, in polemica con i membri della Prima Aliyah, i quali, a suo vedere, avevano “lasciato che lo yishuv divenisse una semplice emanazione della Diaspora”, mentre, affermava con decisione “Nostro sforzo è fare della Palestina la madre patria dell’ebraismo mondiale” [6] . Gordon, nei suoi scritti, ha pagine assai significative sull’influenza negativa della Diaspora e sulla capacità da parte di quest’ultima di rendere l’Ebreo persona dipendente dagli altri, alla loro mercé [7] .
Il lavoro agricolo, egli sosteneva, è un lavoro che, in sostanza, si fa su se stessi. La trasformazione diviene allora “redenzione” ottenuta col sacrificio personale: impegno concreto, nei campi, secondo una visione della vita che si richiama ad un’autentica “religione del lavoro” (dat ha-avodah). Il Sionismo elabora così una propria storia, distaccandosi dalla visione diasporica, anzi contrapponendosi ad essa.
“Un Paese si acquista vivendoci con il lavoro e la creazione” scriveva Gordon, rilevando come il lavoro non rappresentasse solo lo strumento decisivo che “permetteva agli ebrei di riacquistare l’elemento cosmico dell’identità nazionale”, ma anche lo strumento per regolare i rapporti con la popolazione araba. La questione sul possesso della Palestina, egli riteneva, ahimé ingenuamente, si sarebbe risolta in modo quasi naturale grazie ad una competizione sul lavoro che avrebbe visto due popoli diversi impegnarsi pacificamente, ma con intenso pari sforzo, per conquistare quanto più terra possibile[8] . Sappiamo purtroppo che la politica ha imboccato una strada diversa, imbrogliando le carte per quanto concerne le vicende storiche, le quali attestano con oggettiva chiarezza che non vi fu alcun esproprio o furto da parte ebraica ai danni degli Arabi [9] .
Altro punto rilevante nella visione dei Pionieri: l’uomo nuovo non guarda al passato, ma al futuro, in quanto obiettivo da raggiungere. Il recupero dell’ebraico, poi, come lingua viva di una nazione in continua costruzione è “forse la creazione più significativa in questo contesto, sospeso tra l’idealismo delle premesse e il pragmatismo degli sforzi[10] .
Negli anni più recenti anche Degania ha affrontato un processo di privatizzazione, non privo di problemi. Vedremo l’evoluzione di questa…nuova Degania e come essa saprà affrontare le sfide del futuro. Al momento l’istituzione vanta un’attività agricola ben sviluppata, oltre che un’industria manifatturiera -l’azienda Tool Gal, che produce apparecchi per il taglio dei diamanti è di sua proprietà-, oltre che essere un’interessante meta per gli amanti di un turismo scelto e di qualità, i quali possono trascorrere qualche momento di relax anche godendosi una passeggiata nel simpatico zoo che ospita specie animali provenienti pure dall’Australia (canguri) e dal Sudamerica.
Salutiamo Degania mentre fissiamo le immagini emblematiche di un paio di trattori
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e risaliamo sul bus.
Vediamo una diga sul lago; Angela osserva che, pur essendo la portata d’acqua del Giordano diminuita nel corso degli anni, Israele dà alla Giordania una quantità di acqua ancora superiore a quanto previsto dagli accordi di pace siglati tra i due Stati nel 1994.
La strada sale e ammiriamo il lago dall’alto. Siamo in un clima subtropicale con piante di mango e avocado, ma basta salire ancora un poco per trovare flora di collina come ciliegi e meli.
Siamo diretti al Kibbutz Lavi, ben noto.
In lontananza i Corni di Hittim, che videro la vittoria di Saladino sulle armate dei Crociati (4 luglio 1187), vittoria che aprì la strada alla seconda invasione musulmana.
Ecco Lavi, il Leoncello, dove alloggiammo anche l’anno scorso.
Il luogo, come sappiamo, è bellissimo ed ottimamente disposto. Dopo esserci sistemati nelle camere, compiamo una passeggiata all’esterno. Splendidi giardini, boschi di rose, essenze profumatissime….
Con Letizia, la simpatica “siculo-cormonsiana”!
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Che meraviglia affacciarsi da una di quelle finestre!
                                                DSC01668            Ileana

, Valeria e Maria Pia sul dondolo

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L’emozione della prima casa al kibbutz (1955)
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Rientriamo.
I vasti locali al piano terra sono ben attrezzati con molti internet points.
Numerose famiglie di ebrei ultraortodossi si alternano alle postazioni, soprattutto i ragazzini, mentre le madri chiacchierano tra loro e i padri “smanettano” senza sosta sul cellulare.
Dopo cena c’è l’incontro con un membro del kibbutz originario di Milano che vive qua da un trentennio circa, Guido Sasson.
Guido ci spiega in breve l’organizzazione interna: il kibbutz garantisce un certo budget personale, che ciascuno spende come vuole.
Oltre a questo vengono erogati i servizi comuni, come la mensa, la lavanderia, l’abitazione, la sanità, l’asilo, la scuola. In questo modo si ottengono buone economie di scala; la vita in comunità offre vantaggi, in particolare per i bambini che vivono in un ambiente sicuro, a contatto con i coetanei fin dai primi anni di vita. Lavi dispone di 10.000 ha di terreno in proprietà; è composto di 250 membri adulti e 450 bambini. Non vi sono volontari esterni.
Oggi qui c’è una totale libertà di movimento, contrariamente al passato, quando tutta la vita si svolgeva all’interno: c’è chi lavora all’interno -e di attività ce ne sono molte: agricoltura e allevamento del bestiame (per il 25% delle persone occupate), gestione dell’albergo e una piccola industria che fabbrica mobili per sinagoghe (per il 50%)- e chi va a lavorare all’esterno (il 25%).
Vi è poi un’attività preziosa, volontaria, di recupero, rivolta sia a ragazzi disadattati che a persone con problemi diversi, ad esempio ex carcerati.
Poiché si tratta di un kibbutz religioso, si cerca di osservare quanto più possibile le regole bibliche anche nel lavoro: ad esempio, in agricoltura, la frutta non viene raccolta per i primi tre anni di vita di un albero; teniamo conto, precisa Guido, dell’anno sabbatico e della rotazione delle colture.
Abbiamo avuto, e abbiamo, dei problemi dovuti alla diminuzione della manodopera in agricoltura: la raccolta della frutta in passato la facevamo noi, mentre oggi dobbiamo ricorrere a manodopera esterna, per lo più straniera (la quale, peraltro, può restare qui solo quattro anni).
Su 270 kibbutzim esistenti oggi in Israele, una quarantina segue le regole iniziali (e si tratta dei kibbutzim che dispongono di una quantità maggiore di risorse, i più “ricchi” per intenderci); la privatizzazione si fa strada, ma ciò non significa che il kibbutz abbia fatto il suo tempo come insinuano alcuni; anzi. La crisi più seria l’abbiamo attraversata negli anni passati. Oggi oltre il 40% dei nostri figli, trascorsi alcuni anni all’esterno, o magari all’estero, ritorna in kibbutz. Tra l’altro, chi lavora nel kibbutz ha maggiori possibilità di stare in famiglia e con i figli rispetto a coloro che vivono all’esterno: qui alle sette del mattino inizia il lavoro per tutti, il che significa che, dalla metà del pomeriggio, si è liberi di dedicarsi ai propri affetti.
Lo avreste immaginato? Chiede ridendo.
E precisa, sintetico, ma efficace: ciò che interessa, ai fini del nostro modo di pensare e vivere, non è tanto quello che fai durante il giorno “fuori” di qua, bensì ciò che tu realizzi per la comunità dopo il lavoro.


[1] F. CERNIA SLOVIN, op. cit. (V. Quinta Puntata, nota 3, del 23 aprile), pp. 66/67.
[2] L. CREMONESI, op. cit., pp. 180/181.
[3] MEIR SHALEV, E fiorirà il deserto, trad. Gaio Sciloni, Rizzoli, Milano, 1990, pp. 399; la citazione è a p. 62. Il romanzo, il cui titolo originale è Roman Rusi, Am Oved Publishers Ltd., Tel Aviv, 1988, è stato pubblicato anche da Frassinelli nel 2002 (traduzione di Elena Loewenthal) col titolo La montagna blu, pp. 435.
[4] M. SHALEV E fiorirà il deserto, cit., p. 12.
[5] B. BETTELHEIM, I figli del sogno, Mondadori, Milano, 1969, pp. 328, traduzione di Paola Campioli; titolo originale: The Children of the Dream, The Macmillan Company, 1969.
[6] L. CREMONESI, op. cit., pp. 164 e ss.
[7] L. CREMONESI, op. cit., p. 159.
[8] L. CREMONESI, op. cit.,ibidem.
[9] Istruttivo, a tale proposito, in www.israele.net, l’articolo di Marco PAGANONI, Israele-60 anni; Rifiuto della spartizione e mito dell’esproprio del 4 giugno 2008, che manda in frantumi i miti della propaganda euro-palestinese sul tema.
[10] C. VERCELLI, op. cit., pp. 132/133.