Titolo originale MEDUZOT; Israele /Francia, 2007)
” ‘Ecco, ora ti ho aggiustata…..’
‘Abbiamo i biglietti per i Caraibi….la nostra luna di miele…’
‘A che vi servono i Caraibi? Basta che stiate insieme’ “
Una giovane sposa di Tel Aviv, Keren, rimasta chiusa per errore nella toilette del ristorante dove si sta svolgendo il suo ricevimento di nozze, sale su uno sgabello nel maldestro tentativo di aprire una finestra per attirare l’attenzione altrui, cade e si frattura una gamba.
Data l’impossibilità di viaggiare in aereo in tali condizioni, ella deve giocoforza rinunciare al progettato viaggio di nozze ai Caraibi e così, insieme al marito Michael, si rassegna a trascorrere la luna di miele in un albergo sul lungomare, anonimo quanto rumoroso. I due cambiano più volte la stanza in cui alloggiano, nella vana speranza di trovare uno spazio di silenzio e di intimità.
Michael si dà da fare perché il soggiorno sia il più confortevole possibile e, in occasione di una delle sue peregrinazioni nella hall dell’albergo alla ricerca di una camera lontana dal traffico sottostante, conosce in ascensore una donna affascinante e misteriosa, la quale si presenta a lui come scrittrice, che, tuttavia, gli domanda se l’espressione “eterna disgrazia” si scriva con una zeta o con due.
Batya, una ragazza che si guadagna da vivere come cameriera nello stesso ristorante dove abbiamo incontrato Keren e Michael, è triste perché si è appena lasciata con il suo fidanzato, Amir; è seduta sulla spiaggia, chiusa in cupi pensieri. All’improvviso, ecco uscire dal mare una misteriosa bambina dai capelli rossi, con addosso solo un salvagente; la piccola dimostra circa cinque anni, ha uno sguardo intelligente e un po’ melanconico, non proferisce parola. In compenso, in un primo momento, segue dovunque Batya come un’ombra, prima alla centrale di polizia dove la ragazza la conduce nella speranza, malriposta, di rintracciare suoi eventuali genitori o parenti, indi nel modesto appartamento in cui la giovane vive, alla mercé di un esoso padrone di casa, pronto a imporre un aumento del canone di affitto, ma restìo a provvedere alle urgenti riparazioni di cui necessita il tetto.
Ad un certo punto, però, la piccola scompare…e questo getta Batya nella disperazione più nera…..anche perché, di lì a poco, ella verrà licenziata dall’ambizioso e sciocco direttore del ristorante, che ha già provveduto ad allontanare una giovane fotografa, specializzata nel riprendere scene di matrimoni, alla quale Batya, sua amica, si era rivolta per ritrovare la bambina sparita nel nulla.
Joy è una filippina che lavora in Israele come “badante”: conosce un’anziana donna sola e scorbutica, di origine tedesca, con la quale ha problemi di comunicazione: Joy parla solo inglese, mentre la donna si esprime in modo ostinato nella lingua del Paese di nascita (e magari, indovini, ha scarsa confidenza con l’ebraico). Nonostante queste difficoltà, Joy riesce, sia pure per poco, a rinsaldare il legame tra la donna e la figlia, attrice in una compagnia teatrale, impegnata a mettere in scena un improbabile Amleto sperimentale.
La misteriosa bambina, ad un certo punto, ricompare: il suo salvagente è assai più grande di quello originario e colpisce Batya, che cade a terra, viene ricoverata d’urgenza in ospedale……..poi……
Meduse è l’ultimo saggio della cinematografia israeliana, distribuito ora in Italia grazie alla Sacher Film di Nanni Moretti, il quale ha avuto il merito di apprezzare il valore di questo lungometraggio che ha vinto il Premio Camera d’Or all’ultimo Festival di Cannes, dopo aver riscosso un notevole successo in Patria.
Registi sono una giovane coppia molto conosciuta ed apprezzata in Israele (e non solo): la sceneggiatrice Shira Geffen e lo scrittore Etgar Keret; lei ha scritto la sceneggiatura ed entrambi hanno curato la regia. In una recente intervista Etgar ha confessato che quando, dopo aver riflettuto sul testo, cercarono un regista israeliano per girare il film, nessuno parve soddisfarli; così decisero di assumersi direttamente il compito.
Il risultato è un’opera delicata, evocativa, di notevole suggestione; frutto di un lavoro “a quattro mani”, in cui essi hanno fatto, per così dire, tutto insieme; ovviamente addivenendo agl’inevitabili compromessi. E magari accorgendosi che lavorare insieme è stato forse più semplice che vivere insieme, come, d’altra parte, Etgar e Shira fanno da circa un decennio.
Il contesto è, come detto, Tel Aviv; ma una Tel Aviv dell’anima, senza un’eco, nemmeno lontana, del conflitto mediorientale.
Gli Autori spiegano che a loro stava a cuore rappresentare un altro tipo di guerra: quella che si svolge nell’animo delle persone; in fondo, anche in una situazione drammatica come quella israeliana, i problemi quotidiani sono comuni a quelli di chiunque altro nel mondo (la ricerca del lavoro, le difficoltà economiche, ecc.) e così i problemi che contano: la solitudine, i rapporti genitori/figli, il mondo dell’infanzia con i suoi traumi che pare riemergere dalle onde del mare…..
Il mare, l’acqua in genere, è uno dei protagonisti della storia: può significare le nostre paure, il nostro inconscio, il fluido della vita nel quale i sentimenti delle persone vagano, come meduse, appunto, senza una precisa direzione e senza toccarsi. O anche un mondo indefinito in cui annullarsi. Ma può anche simboleggiare una sorta di rinascita, come nella splendida scena in cui Batya e la bambina si ritrovano sott’acqua…..
Lunghi sguardi e presenze fantastiche non mancano: oltre la bambina, vediamo un maturo gelataio, che altri non è che il padre di Etgar……….Pure Etgar appare, silenzioso, in un paio di scene.
Altro tema è quello delle occasioni non colte, per le persone che, pur cercandosi e desiderandosi, si perdono.
Così, all’inizio, Amir, in procinto di partire, chiede a Batya di dirgli di restare, lei, però, tace, così il giovane se ne va, a bordo di un autobus; mentre si allontana, la ragazza ha un ripensamento e mormora: Resta. Ma è troppo tardi.
O anche nella scena dell’abbraccio tra Joy e la signora tedesca; i loro sguardi non si sfiorano nemmeno poiché entrambe pensano ad una realtà lontana da quella del momento; la signora alla figlia, che è ritornata al suo teatro, e la badante filippina al suo bambino, che ha dovuto lasciare in Patria, con il quale fa lunghe conversazioni telefoniche struggendosi per la nostalgia.
Il linguaggio dell’opera è semplice, spesso surreale, lieve, ironico, con note che appassionano, come il commento musicale, dato dalla celebre canzone La vie en rose, cantata sia in ebraico, sia in francese, da una sensuale voce femminile.