batticuore

 

(Titolo originale Dofeq, Hakibbutz Hameuchad, Tel Aviv, 2007)

Trad. Antonio Di Gesù, Ed. Giuntina, collana Israeliana, 2010, pp. 285, €. 17
“Lo osservava e gli diceva qualcosa come: ‘che vita piena ha avuto..davvero invidiabile’ e lui si tratteneva a stento dal dirle  ‘Ma se è saltata giù dal quinto piano e si è portata pure il cane!”
In un periodo in cui la classe politica di Israele pare aver smarrito, magari solo in parte, lo slancio ideale dei decenni passati e da tempo non entrano in scena personalità in grado di lasciare un’impronta significativa sul Paese, la letteratura si rivolge alla realtà intima, ai pensieri, alle sensazioni. Emerge così un mondo ricostruito quasi a prescindere dalle concrete coordinate spazio/temporali; anche se sappiamo quanto il contesto generale, in apparenza rimosso, condizioni la storia di ognuno.
Nel 2002, in piena Seconda Intifadah, un gruppo di soldati -circa una cinquantina, i Sarvanim, Obiettori di coscienza, ridenominati, vai a vedere perché, Refusnik, a imitazione dei dissidenti dell’URSS- dichiararono, in una lettera che fece il giro del mondo occidentale, di non essere più disposti a combattere nei cosiddetti Territori Occupati.
L’evento, in sé abbastanza marginale -in ogni democrazia capita talora che qualche militare rifiuti, ad un certo punto, di prendere le armi; perfino in una realtà atipica qual’è quella israeliana-, ebbe, com’era prevedibile, una certa risonanza mediatica in Europa, Italia compresa.
Yaniv Iczkovits, nato a Rishon Letzion nel 1975, laureato in Filosofia, fu il primo firmatario di quella lettera. Docente all’Università di Tel Aviv, nel 2007 ha pubblicato in Patria il suo Dofeq, vincitore dell’importante Premio per le “Opere prime”, istituito dal quotidiano Ha’aretz.
Nelle scorse settimane il romanzo è uscito con la Casa Editrice Giuntina: il suo titolo in italiano è Batticuore.
Fa da sfondo della vicenda la città di Tel Aviv, caratterizzata da un che di sciatto e anonimo, con le parti superiori degli edifici costellate dai motori degli impianti di condizionamento.
La storia si dipana attraverso la quotidianità di alcuni gruppi familiari, legati tra loro da rapporti di parentela, e non solo.
Yudit, è una donna matura, sposata e madre di tre figli. E’ una persona inquieta, prigioniera di una cronica depressione, dovuta, oltre che al comune e diffuso “male di vivere”, sia ad un rapporto non soddisfacente col marito, sia ai problemi -reali e/o supposti- che i suoi ragazzi le procurano.
Il primogenito, Udi, terminato il servizio militare qualche tempo addietro, se ne va in India -come tanti altri coetanei israeliani- alla ricerca di se stesso e del significato della propria esistenza.
Giovane di poche parole, è fortemente critico nei confronti della società degli adulti (impersonata dal padre, Amos), tenuta insieme dallo scotch delle frasi fatte e da un superficiale conformismo.
Nella figura di Udi, che vuol indagare dentro di sé senza infingimenti, ho ritrovato la personalità dell’Autore, il quale, in un’intervista ad Anna Momigliano, dichiara: “Quando mi sono congedato ho sentito così tante emozioni contrastanti e scrivere voleva dire far ordine nei miei sentimenti, resettare la mia immagine nel mondo”.
Il minore, Roy, il beniamino di casa, presenta difficoltà di pronuncia: ciò comporta lunghe, estenuanti sedute dalla logopedista, con conseguente indotto ansiogeno che coinvolge figlio e madre (sempre presente agl’incontri) ed accentua, nei confronti del ragazzo, la già eccessiva protezione di lei, la quale, magari inconsciamente, finisce per far pesare al figlio il suo handicap.
Figura positiva è invece, Noa, la secondogenita, poco più che adolescente, ma più matura della sua età: ella ha, nei confronti della madre, un atteggiamento protettivo che ne attenua, sia pure per poco, le insicurezze.
Tra Yudit e suo marito, Amos, uomo troppo impegnato col lavoro per soffermarsi a prendere coscienza dei problemi di lei, c’è, come sappiamo, un muro di freddezza e di incomprensioni; egli talora ricorre a facili ironie, in grado solo di peggiorare la situazione.

Amos non comprende, non vuole comprendere quanto ella percepisca la malattia come un autentico fallimento.
Una sorta di (apparente) contraltare di Yudit è Dvora, la sua migliore amica fin dai tempi della scuola, spregiudicata nei rapporti con gli altri, ma, dentro di sé, carica di incertezze e paure.
Vi sono poi due coppie di coniugi: il primo è costituito da Ilana e Yoel, fratello di Yudit.
Quest’ultimo è un tipo un po’ ipocondriaco, un po’ ammalato sul serio, oggetto delle battutine di spirito in tema da parte della moglie Ilana, superficiale e maniaca delle diete.
Yoel, in interminabili giornate trascorse a letto, è spesso assistito da Marcel -immigrato dalla Romania (d’altronde anche Yudit e Yoel, il cui cognome è Berger, provengono da quel Paese), vedovo di Rita, parrucchiera morta precocemente di cancro-, il quale ora si guadagna da vivere come infermiere, ma che ha un passato di ottimo accordatore di pianoforti.
Vi è, in Marcel, un che di armonico, una capacità di ascolto che attrae Yudit, tanto più che egli, in precedenza, aveva stretto amicizia con Udi ed era al corrente di un segreto serbato dal giovane dentro di sé, segreto che è la vera motivazione alla base della sua partenza per la lontana India. E Yudit vuol sapere, comprendere …
Mira e Yonatan (quest’ultimo figlio di Ilana e Yoel) sono l’altra coppia; per così dire, il centro del romanzo. Si erano incontrati ed innamorati anni prima a Verona, ma la loro intesa, anche sessuale, sta precipitando, senza che nessuno dei due riesca ad arginare la caduta. Mira è incinta ma……come mai il ginecologo non riesce a percepire il battito cardiaco del feto?
In precaria assenza della moglie, musicista, Yonatan è trascinato dall’amico Dorfman, tipo spregiudicato e senza remore (ma anch’egli con un bel carico di contraddizioni, amici perduti in guerra, solitudine), appassionato di droga parties, in un festino dove incontra un’affascinante giovane donna, Alex, dalla quale è irresistibilmente attratto.
Pure Alex reca segreti e dolori (“E’ tutta la vita che sono un albero sospeso” dice di sé), ma non intende metterne nessuno a parte; men che mai uno come Yonatan, conosciuto da poco.
La storia non ha una vera e propria trama, intesa in senso tradizionale: ci sono tanti quadri, pensieri, sensazioni, una ricerca costante della propria ragione di vita, simboleggiata da quell’agognato “Battito”. La traduzione dall’ebraico del vocabolo “Dofeq” resa invece con “Batticuore”, azzardo un’ipotesi, forse è voluta, poiché sta ad indicare la tensione dell’esistenza, la fatica della quotidianità in un contesto, quello israeliano, dominato da perenne insicurezza e da rischi mortali.
Lo stile e il linguaggio di Iczkovits sono scorrevoli e piani, dunque coinvolgenti; specie nella profonda indagine psicologica e nella capacità di scavare a fondo nel complesso rapporto genitori/figli, a cominciare da quello strano distacco che nasce e si sviluppa, tra le generazioni, originato da una vicinanza fisica imposta e dunque priva di autentica affettività.