(Titolo originario: The King’s Speech); Regno Unito / Australia, 2010; Genere: Storico, Drammatico
“Dimenticate il resto e ditelo solo a me”
Londra, Anni Venti del XX secolo. La Giovane Signora, vestita in modo elegante, ma non ricercato, si affaccia allo studio di un insolito personaggio, Lionel George Logue.
Chi è costui? Nato in Australia nel 1880, figlio di un birraio, fin da giovane ha insegnato tecniche per parlare in pubblico; non è un medico, bensì un appassionato attore dilettante, anche se le sue capacità interpretative non sono apprezzate come meriterebbero da insegnanti di recitazione conformisti o direttori di mediocri compagnie di giro.
Dopo la Prima Guerra Mondiale Lionel applica ai reduci, vittime dello shock bellico e colpiti da psicosi traumatica, le sue metodologie nelle quali mescola umorismo, costanza e condivisione. Una terapia, per così dire, centrata sul paziente, più che su teorie astratte o, peggio, su tecniche umilianti per chi, già a disagio per i propri problemi, è costretto a sottoporvisi.
All’inizio degli anni Venti egli si trasferisce a Londra con la moglie Myrtle e i tre figli ed apre uno studio (al n. 146 della centrale Harley Street) per la cura delle disfunzioni del linguaggio.
“A mio marito si richiede…si richiede di parlare in pubblico” esordisce la Giovane Signora, dopo essersi presentata come Mrs. Johnson. Ella confessa che il coniuge si è rivolto a tanti medici senza alcun risultato e che è giunta da Lionel a seguito di un’autorevole segnalazione, pur consapevole che i suoi metodi sono “controversi”. Logue accetta, ma avverte: esige totale fiducia in lui e nelle sue regole. Mrs. Johnson, di rimando, acconsente, ma pone, quale condizione imprescindibile, che sia lo stesso specialista a recarsi, per le sedute di cura, presso il paziente e non viceversa, come per lo più accade. Al motivato rifiuto di Lionel, l’incontro sembra sfumare, ma il combattivo amore di lei verso il marito, da una parte, e la curiosità, venata di arguzia, del terapista, dall’altra, salvano la situazione.
L’identità del paziente viene svelata: si tratta del Duca di York, secondogenito del sovrano regnante sul trono britannico, George V.
Albert Frederick Arthur George (Windsor), classe 1895, è un giovane uomo riservato e sensibile, il quale, fin dalla nascita (a suo dire), ha sofferto di una grave forma di balbuzie, che gl’impedisce di affrontare con serenità quegl’impegni richiesti dal suo rango. Da ragazzino aveva patito anche un altro inconveniente: una leggera deformazione alle ginocchia -le cosiddette “gambe a X”, di pessima memoria- a causa della quale era stato costretto ad indossare fastidiose steccature correttive; senza contare l’ottusa forzatura (in voga peraltro fino a pochi decenni fa) a scrivere, lui naturalmente mancino, con la mano destra. A tali orpelli da incubo va aggiunta la rigida etichetta di corte che non dà scampo e l’inevitabile confronto sia con la personalità del padre, sia, soprattutto, con la brillante figura del fratello maggiore, Edward David, il Principe di Galles, destinato un giorno a sedere sul trono.
L’unica luce in questa notte di rigido conformismo sono la moglie Elizabeth, una nobildonna scozzese, la Giovane Signora, appunto. Matrimonio d’amore, il loro, allietato dalla nascita di Elizabeth (“Lilibeth”), come la mamma, nel 1926, e Margareth, nel 1930.
Tutti i tentativi di affrontare sul serio il problema -e magari risolverlo- sono naufragati miseramente. Elizabeth tuttavia non sa rassegnarsi al debilitante handicap del marito, tanto più che questi, a causa di ciò, in diverse occasioni ufficiali, non ha saputo dimostrarsi all’altezza del proprio rango, rendendosi addirittura ridicolo agli occhi della Corte e della Nazione e provocando a lei cocenti dolori e umiliazioni.
Proprio per questo ella, come estremo tentativo, si è rivolta a Logue, figura di eccentrico logopedista, ben lontano dalla scienza ufficiale.
L’inizio del rapporto tra il Principe e il Terapeuta è irto di difficoltà. Albert non intende affatto parlare di sé, della sua infanzia, dei suoi problemi, come invece pretenderebbe chi ora ha in mano il suo destino; non comprende, non vuole comprendere, che le parole che tenta di pronunciare gli restano incollate lì, tra la lingua e le corde vocali, a causa dell’emotività che lo coglie ogni volta che deve affrontare una situazione impegnativa oppure parlare di quelle persone dal confronto con le quali egli si vede perdente in partenza. Esempio tipico: il fratello maggiore, corteggiato dalle donne, appassionato del volo, nonché ammiratore di quell’ex caporale austriaco, berciante ma assai astuto, che ha conquistato la Germania e si sta leccando i baffetti alla prospettiva di papparsi l’Europa tutta, programma cui, da tempo, sta lavorando indisturbato.
E poi Albert non sopporta che Logue, in ottemperanza di quell’assurdo rapporto paritario che intende chissà perché instaurare con lui, non solo pretenda di essere chiamato semplicemente “Lionel”, anziché “Dottor Logue”, ma addirittura gli si rivolga apostrofandolo con il diminutivo di “Bertie”, consentito solo agli stretti congiunti. L’unico modo -peraltro rischioso- di allentare la tensione è fumare una sigaretta dopo l’altra: “Mi hanno detto che distende i nervi”, si giustifica.
Ma il logopedista non molla la presa: con calma, serenità, insegnando al paziente tecniche di rilassamento non convenzionali, pian piano egli riesce prima ad ottenere fiducia, indi a far nascere nel Principe stima in se stesso e nelle proprie capacità.
Basta con il ridicolo metodo, usato in precedenza da decrepiti mestieranti, inviatigli dalla Royal Family, di provare a scandire le parole tenendo in bocca un certo numero di biglie di vetro!
Occorre affrontare la vita. Tanto più che, alla morte dell’anziano sovrano, David, lo scintillante erede, diviene sì Re Edoardo VIII, ma…..
Il giovane regista inglese Tom Hooper ha costruito un autentico capolavoro.
E infatti il film, candidato a ben 12 Oscar, ha vinto il premio del pubblico al Toronto International Film Festival, 5 British Independent Film Awards 2010 e, dopo aver ottenuto 7 candidature ai Golden Globe 2011, se n’è aggiudicata una per il miglior attore protagonista, Colin Firth.
Il discorso del re è il racconto di un’amicizia sincera, durata una vita, tra il figlio di un birraio australiano e il figlio di un re inglese. La pellicola prende spunto dal libro scritto da un nipote di Logue, Mark, col titolo: “Il discorso del re: come un uomo salvò la Monarchia Britannica”. Al di là della personalità illustre di uno dei due protagonisti, si potrebbe definire una ”Piccola Storia” sullo sfondo della ”Grande Storia”, cioè degli eventi drammatici che precedettero la Seconda Guerra Mondiale, a cominciare dal progressivo stringersi sulla Germania e sul mondo dell’incubo nazista.
E’ la vicenda di come un Principe -la cui personalità era stata conculcata dal duro ambiente nel quale era cresciuto, al punto di sviluppare un difetto fisico gravemente menomante- riesca lentamente ad uscire dal bozzolo della paura, da lui subìta, per affrontare le dure prove che lo attendono, specie dopo che il fratello re aveva preferito abdicare anteponendo alla ragione di Stato quelle dell’amore (la relazione con la miliardaria americana Wallis Simpson, due volte divorziata).
E’Albert dunque a salire al trono, assumendo il nome di George VI.
Il film -curato nei minimi particolari come spesso le pellicole britanniche, ma mai, per così dire, artificioso- è tutto giocato sulle sfumature psicologiche del rapporto tra i due uomini, i cui caratteri, all’inizio, non potrebbero essere più diversi e inconciliabili l’uno rispetto all’altro.
Il gioco è possibile grazie ai fantastici interpreti.
Geoffrey Rush -del quale ricordiamo, per tutti, Shine, sulla vita del pianista David Helfgott, che gli valse, nel 1996, l’Oscar come miglior attore protagonista- sa alternare l’ironia e la battuta alla durezza di chi è consapevole di quanto il proprio metodo sia giusto.
Lionel è una persona essenziale, priva di fronzoli, che ha scelto di vivere “in semplicità”, esercitando la sua professione in uno studio pressoché privo di mobili, dai muri scrostati e senza paludarsi di una costosa segretaria. La sua forza sono la sicurezza di sé e l’appoggio costante della moglie e dei figli. Ed era proprio in compagnia di uno dei ragazzi quel giorno, allo Stadio di Wembley -una delle scene iniziali del film-, quando l’allora Duca di York, incaricato di tenere il discorso di inaugurazione della struttura sportiva, dopo le prime battute, si era bloccato per l’emozione, incapace di proseguire. Il figlio allora aveva profeticamente proposto a Logue: “Perché non gli dai una mano?”
Colin Firth -verrebbe da soprannominarlo Colin The First-, la cui professionalità indiscussa è emersa negli ultimi anni, ha il compito più difficile ed appassionante: riuscire a trasformare il “ranocchio in un principe”, anzi in un Re dietro al quale la Nazione possa incamminarsi lungo la strada ardua da percorrere.
E la trasformazione avviene senza retorica, né trionfalismi, con le inevitabili cadute, paure, bizze…regali, grazie anche all’assistenza della moglie, una toccante Helena Bonham Carter, perfetta nel dar corpo alla più simpatica figura della monarchia britannica contemporanea, la Regina Madre Elisabetta, Queen Mum com’era soprannominata, simbolo della resistenza inglese al nazismo (detestata da Hitler, va da sé), morta centenaria nel 2002, della quale i sudditi conoscevano debolezze e passioni, come il gioco del biliardo e il wisky di buona marca.
“Bertie, siete un uomo coraggioso!” commenta ad un certo punto Lionel Logue all’indirizzo del suo paziente. Ed è davvero così, sia dal punto di vista della vicenda individuale, sia per quanto riguarda l’aspetto storico. La famiglia reale non si allontanò mai da Londra e dintorni, nemmeno nei periodi più duri del conflitto. “Il Re sta col suo Popolo, la Regina sta col Re, le Principesse stanno con la Madre”. Punto.
Che cosa sarebbe accaduto se, sul trono di S. Giorgio, fosse invece stato seduto Edoardo VIII, con le sue simpatie filotedesche, cioè una figura “politicamente corretta” ante literam?
Il momento più alto della vicenda, il centro di tutto il film è il discorso che il sovrano rivolge alla Nazione il 3 settembre 1939 allorché, non avendo la Germania ottemperato alla richiesta perentoria, proveniente da Gran Bretagna e Francia, di lasciare la Polonia appena invasa, l’Europa (e in seguito il mondo) precipita inevitabilmente in guerra. Per la seconda volta, dopo poco più di vent’anni, contro i Tedeschi.
Con notevole efficacia drammatica il regista rappresenta il contrasto tra la solennità del Discorso, trasmesso per radio fino ai più remoti angoli dell’Impero britannico, e l’ambiente semplice, scarno in cui esso viene pronunciato: il sovrano in maniche di camicia davanti al microfono e Lionel Logue, di fronte a lui, che muove le braccia come un direttore d’orchestra, aiutandolo nelle pause, nei momenti più difficili, nel superamento di quei trabocchetti originati da certe consonanti. Qualche incertezza nell’esposizione è rimasta, ma è quasi impercettibile.
Bertie parla diretto a Lionel: il..resto dev’essere dimenticato, messo da parte.
il sottofondo musicale di accompagnamento è indovinatissimo: il secondo movimento (Allegretto) della Sinfonia n. 7 di Beethoven -come, a conclusione del film, c’è lo scintillante concerto per clarinetto K622 di Mozart!-.
Le parole pronunciate dal sovrano sono di altissimo livello morale, culturale, umano: la vita contro la morte; la forza della democrazia contro la barbarie della dittatura. Esse penetrano nell’anima e ascolti con il fiato sospeso per l’emozione, dall’inizio alla fine.
“…..Siamo stati costretti ad un conflitto perché ci viene richiesto di affrontare la sfida di un principio che, se dovesse prevalere, sarebbe fatale per ogni ordine civile nel mondo….Tale principio, spogliato di ogni travestimento, è sicuramente la mera primitiva dottrina che la ragione è del più forte….E’ impensabile pensare di rifiutare tale sfida!”
Frasi più che mai attuali.
Ecco un trailer del film