(Titolo originale Amalia’s Tale, 2008)
 
Trad. Domenico Giusti, Ed. RCS Libri S.p.A., Milano, Prima ed., Ottobre 2010, pp. 286,
€. 19,00
 
“Ci sono molti modi di scrivere storia e io…mi sono azzardato a provarne parecchi: ho scritto di re, papi …e di grandi cambiamenti del mondo, e ho anche scritto delle vite e dei drammi quotidiani di poveri contadini analfabeti…”
"Ci sono molti modi di scrivere storia e io……mi sono azzardato a provarne parecchi: ho scritto di re, papi…….e di grandi cambiamenti del mondo, e ho anche scritto delle vite e dei drammi quotidiani di poveri contadini analfabeti……"

                                
              David I. Kertzer
(New York, 1948) è Professore presso la Brown University di Providence (Rhode Island, U.S.A.) quale titolare della cattedra di Scienze Sociali “Paul Dupee”, dove insegna anche Antropologia e Studi Italiani: è considerato tra i più illustri studiosi statunitensi della storia del nostro Paese.
Il suo celebre saggio Prigioniero del Papa Re -dedicato al notissimo e tragico “caso Mortara”, una vicenda ottocentesca, iniziata a Bologna nel 1858, colorata della più cupa atmosfera medievale, cui difensori pelosi della Chiesa/Istituzione vorrebbero dare una qualche forma di giustificazione, a costo di arrampicarsi sugli specchi-, pubblicato da Knopf/Vintage nel 1996 e da Rizzoli nel 1997, ha avuto pure un’edizione teatrale (2006), scritta dal Premio Pulitzer Alfred Uhry.
Tra le varie pubblicazioni, tradotte in italiano e da noi note -ma ve sono altre, reperibili in lingua originale, su argomenti diversi nell’ambito politico/sociale-, ricordiamo: I papi contro gli Ebrei (2002) e Prigioniero del Vaticano (2005), entrambi usciti con Rizzoli.
Con il commento a La sfida di Amalia ho inteso allontanarmi dal mio consueto ambito d’interesse (la cultura e letteratura ebraica e israeliana) non solo perché, pur privilegiandolo, esso non ha alcun carattere di esclusiva -ne seguirà, a breve, un altro, sul libro/confessione di una sensibile scrittrice, uscita di recente da una drammatica esperienza personale-, ma anche perché, da tempo, conosco ed apprezzo Kertzer a motivo dei volumi sopracitati; inoltre la storia, che egli qui racconta, si svolge a fine ‘800 proprio nella mia città, Bologna. Senza contare che questo saggio ha un forte contenuto morale e civile: al di là del carattere, del vissuto dei singoli personaggi, resta la storia in sé, la sua rilevanza, i principi di fondo di cui essa è portatrice.
Sono state queste le ragioni che mi hanno indotto a leggere l’opera e ad assistere, a metà gennaio scorso, quando ancora mi trovavo sui primi capitoli, alla sua presentazione, in sede locale, nella suggestiva cornice della Libreria Ambasciatori (dunque non lontano da dove si svolsero i fatti salienti della vicenda), a cura dell’Autore e di ospiti qualificati, come, ad esempio, Flavia Franzoni Prodi. Proprio Flavia, “antica” compagna di corso universitario, che aveva letto il libro in lingua originale, mi ha convinta circa la bontà della mia scelta grazie a quel suo caratteristico argomentare, sempre gradevole. Perché entusiasta sì, ma del tutto privo di certa foga teatrale -striata di insopportabile retorica mercantilistica di televisiva memoria e accompagnata da una qual certa vena didascalica- dalla quale talora si fa prendere chi vuol trasmettere ad altri il proprio entusiasmo di lettore.
 
La sfida di Amalia narra eventi che sarebbero rimasti sepolti da una coltre di oblio (i suoi interpreti non compaiono infatti sui manuali di storia, come Papa Pio IX) se, come ci confessa nel Poscritto, dal significativo titolo Il recupero della storia sepolta, l’A. non se ne fosse imbattuto in occasione di una ricerca sulla storia sull’abbandono infantile, effettuata presso gli archivi dell’Ospizio degli Esposti di Bologna. Detta ricerca produsse un libro, il cui titolo (Sacrificed for Honor) bene esprime la sofferenza degl’innocenti protagonisti.
Per ritornare alla vicenda che ci occupa, essa era nota a tutti coloro che “leggevano testi di diritto alla fine del XIX secolo…[come] una delle più celebri cause su un caso di imperizia e di negligenza in campo medico…”.
E’ la storia, iniziata nell’agosto 1890 (ma l’evento, per così dire scatenante, si era verificato alcuni mesi prima), di un processo che vide fronteggiarsi, da una parte, il potente Corpo amministrativo centrale degli Ospedali di Bologna, l’istituzione che gestiva l’Ospizio degli Esposti, nella persona del suo Presidente, il Conte Francesco Isolani, e, dall’altra, una povera contadina analfabeta, Amalia Bagnacavalli, proveniente da un paese del vicino Appennino, Vergato, o, meglio, da una sua frazione denominata Oreglia.
Ecco, in breve, i fatti, la ragion d’essere di un processo, che risente, più o meno direttamente, degli eventi sociopolitici che si snodano durante la sua durata, cioè un decennio.
Una contadina, Amalia Bagnacavalli, appunto, la quale, per venire incontro alle necessità economiche della propria compagine familiare, si era sobbarcata l’onere di far da balia ad un trovatello (come all’epoca era costume diffuso), contrae la sifilide dopo aver allattato per breve tempo una neonata illegittima, Paola Olivelli, affidatale dall’Ospizio degli Esposti di Bologna.
Per la verità, dato un primo sguardo alla bambina subito dopo che le era stata consegnata, Amalia aveva notato che, nella piccola, c’era qualcosa che “non andava” ed avrebbe voluto restituirla all’istituzione, ma i medici preposti avevano rifiutato qualunque scambio.
Alcuni mesi dopo, la donna, indirizzata dal medico condotto del Paese (il Dr. Carlo Dalmonte), il quale ne aveva diagnosticato ben presto il contagio, ad un legale di città (l’Avv. Augusto Barbieri, giovane ed ambizioso), muove causa, col patrocinio di lui, al Corpo amministrativo centrale degli Ospedali di Bologna, per ottenere il ristoro per i danni subìti.
Ne nasce una vicenda giudiziaria, accuratamente ricostruita dall’Autore, articolantesi in varie fasi e con una conclusione assai amara per la protagonista, la quale, nelle more del processo, ha il dolore di vedere contagiato il proprio marito (Luigi Migliorini) e l’amata primogenita, la piccola Adele, la quale morirà in breve tempo a causa del terribile morbo, seguita a breve distanza da due fratellini, Domenico e Giuseppe, venuti alla luce nel frattempo. Senza contare altri due piccoli, nati morti.
 
PERCHÉ NASCE IL LIBRO E COME
L’opera si inserisce nel filone, nato da alcuni decenni presso gli studiosi, di far luce sulla storia della gente comune -della quale non vi sono testimonianze scritte, salvo che negli archivi delle parrocchie e dei comuni di residenza-, sulla maggioranza invisibile, attraverso il metodo della “microstoria”. I volumi che seguono tale metodologia scientifica portano alla luce, come rileva Kertzer, un insieme di eventi illuminando una “oscura serie di personaggi del passato che rappresentano, pur con tutte le loro peculiarità individuali, la grande popolazione di illetterati che la storia [ufficiale] solitamente ignora”.
A tal fine il Processo non solo costituisce di per sé fonte di conoscenza per il suo carattere di narrazione particolareggiata e drammatica -occorre comunque saper leggere le “carte” al di là del linguaggio giuridico, apparentemente distaccato e arido-, ma contiene sempre, come rileva l’A., una notevole mole di testimonianze che ci narrano l’incontro, sempre carico di drammatica tensione, tra il mondo dei “potenti” e quello dei “diseredati”, dei poveri.
Kertzer ci confessa la sua passione per la ricerca, non solo tra gli archivi, ma soprattutto sul campo: “…Recarmi a Vergato per scoprire se i registri parrocchiali del XIX secolo erano ancora reperibili….è stata una sorta di piacevole avventura….Fortunatamente [i registri] c’erano e abbiamo potuto vedere tutte le registrazioni, operate dal parroco per le famiglie di Amalia e Luigi, compresa quella che aveva fatto poco prima della Pasqua del 1890, quando visitò la famiglia Migliorini e registrò la presenza di un’esposta di nome Paola Olivelli…”.
Prima di iniziare il racconto l’Autore ne opera un sintetico, ma rigoroso, inquadramento storico-politico.
 
 STORIA E SFONDO POLITICO SOCIALE; AMBIENTE UMANO
Ci troviamo in un’epoca di rapide trasformazioni: sono trascorsi trent’anni dall’Unità d’Italia e venti da quando Roma è divenuta Capitale. Nel 1876 assistiamo alla caduta della cosiddetta Destra storica, legata all’aristocrazia e impegnata a conservare quanto più possibile il vecchio mondo, e all’ascesa della Sinistra, che assume il controllo del Parlamento. La Sinistra non è certo una forza rivoluzionaria, anzi è piuttosto incline ai compromessi per amore di potere, tuttavia è in grado di dar vita ad una serie di riforme -destinate a modificare in modo notevole pure l’assetto delle campagne italiane-, quali, ad esempio, l’obbligo scolastico, anche nelle zone più sperdute della Penisola, nonché le prime disposizioni volte a regolamentare il lavoro di donne e minori.
Saranno però i grandi movimenti popolari, affacciatisi alla ribalta europea fin dalle rivoluzioni del 1848, il fattore più rilevante di cambiamento; in primo luogo il movimento socialista che, negli ultimi decenni dell’800, assumerà la caratteristica di vero e proprio partito di massa.
Nella seconda metà dell’800, poi, Bologna aveva acquisito la fama di città nido di attività rivoluzionarie: pensiamo agli anarchici di Bakunin, dei quali ci parla Riccardo Bacchelli nel suo Il diavolo al Pontelungo (1927).
Vi erano aspre polemiche, anche sui numerosi giornali sorti con l’introduzione della libertà di stampa; e non mancavano nemmeno i duelli, ancora ampiamente diffusi, pur dichiarati illegali.
Una vicenda che vede protagonista una giovane contadina dell’Appennino, la quale osa chiamare a processo una potente istituzione della città (e con essa un noto aristocratico con chiara fama di benefattore) sarebbe stata inimmaginabile senza tener conto dell’epoca di profondi rivolgimenti in cui essa si svolge. Tra questi, in primo luogo, l’istituzione di un sistema giuridico come oggi lo intendiamo, in grado cioè -come annota perspicuamente Kertzer- di consentire la promozione dell’azione legale e l’esecuzione dei relativi atti. In un siffatto contesto si muove il difensore della protagonista, il quale, non più succubo delle ragioni dei potenti, ma anzi desideroso di dar voce a coloro che fino ad allora non ne avevano alcuna, assume la difesa della donna.
Avviciniamoci ai principali attori della storia e portiamoci idealmente a quel giorno di inizio agosto 1890.
L’Avv. Augusto Barbieri, ventottenne, nativo di un comune dell’Appennino bolognese (Monghidoro), la cui famiglia si era trasferita in città quand’egli era ragazzo, ha aperto il suo studio legale da circa quattro anni. E’ un giovane professionista ambizioso e non privo di qualità. Così ce lo presenta l’Autore: “A ventotto anni Barbieri era già autore di libri, aveva una moglie incinta che avrebbe ben presto dato un fratellino al primo figlio, nato due anni prima, e faceva parte di un circolo di riformatori non privo di ambizioni politiche….” Alcuni episodi, non proprio commendevoli, dei quali era stato protagonista suo padre -notaio in Monghidoro, dunque una persona in vista nel paese- avevano segnato profondamente Augusto, creando in lui una sorta di sentimento di rivalsa e vivissimo desiderio di autoaffermazione. E’ simpatizzante per la Sinistra moderata, appassionato di politica; anzi, nei primi anni di pratica legale, egli ha maggiore dimestichezza con la sede del giornale La Patria (per il quale scrive articoli e dove trascorre parecchio tempo in appassionanti discussioni in compagnia di altri giovani progressisti) che con le aule di giustizia nelle quali è inevitabile scontrarsi con gli avversari su assai più ardue questioni giuridiche.
Pur definendosi, come detto, un progressista, un difensore dei poveri, tuttavia ha una concezione elitaria della politica e dunque teme la forza prorompente del socialismo, considerato una minaccia per i ceti colti ed abbienti, gli unici legittimati, a suo parere, a governare le masse.
Tra le pubblicazioni l’Avv. Barbieri può vantare un solido volume dedicato alla funzione primaria della pubblica amministrazione: l’incremento del benessere pubblico. Buona parte dell’opera è incentrata sui problemi dell’istruzione, del servizio sanitario e, mentre sono denunciati i privilegi delle classi ricche, è auspicata la nascita di una società giusta nella quale ogni retribuzione venga corrisposta sulla base del merito. Barbieri si era anche occupato, con i suoi “compagni di crociata”, di prostituzione e delle problematiche annesse (come, tanto per cominciare, le modalità con cui regolarla).    
E ora, mentre si domanda come mai, tra tutti gli avvocati bolognesi, ella avesse scelto proprio lui, intuisce che quella giovane contadina, dalle povere vesti e dal pesante accento montanaro, Amalia appunto, che gli siede di fronte, prigioniera di un forte disagio -tipico di chi si trova in un ambiente non certo familiare, che la fa sentire fuori posto-, ha senz’altro da raccontargli una storia fuori dell’ordinario. Non si sbaglia.
La narrazione della donna è sconvolgente; essa riflette purtroppo un mondo ancora legato a modelli ancestrali; nonostante fosse stato operato, negli anni successivi all’Unità, un riordino del sistema sanitario, le strutture pubbliche locali erano rette da regolamenti che risalivano allo Stato Pontificio. L’Avvocato l’ascolta con attenzione, facilitato dal fatto che il modo di esprimersi della donna ha un che di vagamente familiare; in fondo entrambi provengono da due Comuni appenninici e la famiglia Barbieri ha ancora alcune proprietà nel luogo d’origine.
Conosciuto il dramma della giovane contadina dalla viva voce di lei, Kertzer immagina che egli così rifletta tra sé e sé: “…Era il momento di decidersi a spiccare il salto. Così si fece forza e si convinse che assumere la difesa di Amalia, se condotta nel modo giusto, lo avrebbe segnalato come uno degli avvocati emergenti di Bologna”. 
Davvero significativo nel libro è l’excursus storico sui Brefotrofi, tipica espressione di un contesto nel quale tutta la colpa della nascita illegittima era scaricata sulla donna, salvi casi di comprovata violenza sessuale. Nel secolo XIX essi erano diffusi in larga parte d’Europa, ma il loro Paese d’origine era stato l’Italia. Il primo brefotrofio fu istituito, pare, nel 1198, su iniziativa di Papa Innocenzo III per accogliere i neonati indesiderati. A Bologna il primo brefotrofio venne aperto nel 1400, come estensione di un monastero benedettino preesistente, che accoglieva già da due secoli i piccoli abbandonati. Nel 1600 le autorità ecclesiastiche davano ordini a funzionari locali e parroci affinché individuassero le donne nubili in stato di gravidanza e ne registrassero il nome presso il cosiddetto Ospizio degli Esposti: le donne non sposate non potevano tenere con sé i figli poiché questo era ritenuto, nello Stato Pontificio, un oltraggio alla moralità pubblica.
Con la proclamazione dell’Unità d’Italia, nel 1861, l’Ospizio degli Esposti venne sottoposto all’autorità del Corpo amministrativo centrale degli spedali, un organismo che presiedeva alla gestione di tutti gli ospedali della città. In questo modo l’Ospizio divenne un’istituzione pubblica, finanziata coi proventi di un’imposta gravante su tutta la provincia di Bologna.
Il problema principale che si poneva davanti agli amministratori era il seguente: come assistere le centinaia di bambini che affluivano all’Ospizio, in un’epoca, è appena il caso di ricordarlo, in cui erano sconosciuti pastorizzazione del latte e integratori alimentari?
L’unica soluzione era di affidare il nutrimento di questi bambini (figli naturali, i cosiddetti “bastardini”, in gergo non solo locale), sottratti alle madri, alle cure di donne disposte a far loro da nutrici. Con il venir meno dello Stato Pontificio era certo scomparso il prelievo coatto dei neonati, ma restava l’onta del figlio illegittimo; sull’Appennino c’erano numerose famiglie che avevano cura di tali bambini abbandonati. Non solo, ma era anche costume tenere questi bambini (almeno fino a 15 anni) in campagna, dove almeno avrebbero imparato a lavorare. Ciò avveniva dietro retribuzione mensile corrisposta alle famiglie ospitanti fino al 15° anno dei ragazzi.
Successivamente, essi restavano sul posto: i maschi aiutavano nei campi, le femmine nei lavori domestici. A Oreglia una famiglia su quattro svolgeva tale servizio, che costituiva la maggior spesa pubblica per l’assistenza sociale nella provincia di Bologna.
L’Ospizio favoriva il matrimonio delle ragazze (“trovatelle”, sempre per usare un’espressione gergale, come tale sgradevole e stigmatizzante) provvedendo alla dote; vi erano però alcune che, pur dotate, non trovavano marito e l’Ospizio le richiamava a servire all’interno dello stesso.
Inoltre all’interno dell’Istituto vi erano numerose donne che allattavano i neonati in attesa che questi fossero prelevati dalle balie esterne. Anzi sovente accadeva questo: poiché lasciare -spesso giocoforza- il proprio figlio non legittimo all’Ospizio costava ben 25 lire (!!), quelle che non avevano di che pagare tale somma erano costrette a restare all’interno della struttura -in una sorta di clausura forzata- per allattare i figli altrui! Con tale assurda conseguenza: l’unico neonato che queste donne non potevano allattare era il proprio figlio!
Interessante è poi un’altra digressione dell’Autore: sulla storia del tremendo morbo, la sifilide, per la quale rimando alle pagine ad essa dedicate. Giova qui solo ricordare che, nel secolo XIX, essa era la prima emergenza sanitaria in Italia e in Europa. E un veicolo di infezione (noto peraltro da alcuni secoli) era proprio l’allattamento dei neonati abbandonati, specie se figli di prostitute: i neonati contagiavano le balie -a loro volta madri di figli piccoli- con conseguenze facilmente immaginabili. Il problema era conosciuto ma, come sovente accade, nessuno si prendeva la responsabilità di porlo alla ribalta: tutti sapevano, certo, ma -mi riferisco all’ambito locale- la vicenda era rimasta, per così dire, sottotraccia, nonostante il Ministero della Sanità emanasse direttive per combattere la grave situazione (tra l’altro, dopo l’Unità, era entrata in vigore una nuova regolamentazione della prostituzione): liquidate le donne contagiate con una cifra miserevole, chi presiedeva il Corpo amministrativo degli spedali aveva la ferrea sicurezza che mai l’istituzione avrebbe potuto essere considerata responsabile dei danni patiti da quelle sventurate (e dalle loro famiglie!).
Il libro contiene uno studio di ambiente assai efficace, a cominciare dalla ricostruzione del primo viaggio a Bologna di Amalia, nel marzo di quel fatale 1890, dov’è visibile per le strade il dramma dei contadini costretti a emigrare, a causa della grave crisi che aveva colpito l’agricoltura alcuni anni prima. Con stile e linguaggio degni di un romanziere Kertzer, nel raffigurare la sua protagonista che si reca in città per la prima volta, ci mostra la Bologna fine ‘800: circa centomila persone, abitanti per lo più in case umide e senza luce, nebbiosa per lunghi mesi, con intatte le mura erette nel tardo medioevo (“il segno imponente del limite che separava il mondo dei contadini da quello della civiltà”). Le folle di poveri: quanti, tra loro, giunti per vendere i loro prodotti, cercavano espedienti ingegnosi per evadere il pagamento del dazio d’ingresso! Ma non manca l’orgoglio degli uomini di campagna, che ci tenevano ad indossare, per la circostanza, un abito nuovo e pulito, magari rammendato più volte, ma privo di macchie, le lavandaie impegnate nella fatica quotidiana, i canali emananti il caratteristico fetore delle acque dense di liquami fognari….
E i pochi ricchi, uomini col panciotto e donne “dai cappelli monumentali”, l’ombrellino appeso al braccio e le vesti aderenti che ne valorizzavano il corpo, in contrasto agl’indumenti privi di forma delle donne povere. Il sollievo dei poveri per aver, ancora una volta, superato il rigido inverno, l’annunciato arrivo dall’America del leggendario Buffalo Bill, “l’imprenditore cow boy” in tournée nel vecchio Continente con la sua vasta troupe, nella quale spicca la tiratrice scelta Annie Oakley (“Anna prendi il fucile” di cinematografica memoria)…
L’attenzione di Amalia è catturata dai palazzi e dal tram a vapore (introdotto alcuni anni prima) corrente lungo il perimetro delle mura e da quegli strani tram ippotrainati….
E il Palazzo comunale che troneggia in Piazza Vittorio Emanuele II (ora Piazza Maggiore), con relativo monumento equestre del “Re Galantuomo” al centro, i piccioni…
Una Bologna assai diversa dall’attuale, tuttavia facilmente riconoscibile.
Negli anni lungo i quali si svolgono gli eventi narrati, c’è anche un altro aspetto economico-sociale che l’A. non manca di farci rilevare: come detto sopra, da qualche tempo il sistema agricolo, la principale fonte di prosperità di Bologna, era entrato in una grave crisi. Le innovazioni nei trasporti (treni-merci e navi a vapore) avevano agevolato la concorrenza con i prodotti stranieri -in primo luogo- nordamericani, rivelatasi perdente per il mercato locale. Ciò aveva prodotto povertà ed emigrazione; e, tra le classi agiate cittadine, solo coloro che avevano capito quanto tutto fosse cambiato e intrapreso attività economiche al passo coi tempi, non sarebbero andati incontro alla rovina; contrariamente a chi era rimasto chiuso in una visione della vita e dei rapporti sociali ormai superati.
Non mancano efficaci pennellate sugli aspetti sociologici e antropologici della famiglia contadina, un vero e proprio clan, con rapporti di parentela stretti: la casa costruita in pietre del posto, collocate l’una accanto all’altra con minimo spreco di calce, le finestre piccole e strette per proteggere dal freddo in inverno e dal caldo d’estate; la vita dura specie nella stagione fredda; l’uso radicato ed accettato che solo gli uomini siedono a mangiare a tavola, poiché le donne stanno loro intorno a servirli. L’analfabetismo largamente diffuso: Amalia, ad esempio, non sa leggere l’orologio, come possiamo rilevare in occasione di una visita medica cui è sottoposta presso il brefotrofio.
Profonda umanità e capacità di introspezione psicologica Kertzer la riserva in primo luogo nel descrivere le sofferenze di Amalia e dei suoi: il dolore, la vergogna, la paura, che crescono all’avanzare della malattia; l’imbarazzo tremendo nei confronti dell’ambiente circostante, sempre pronto a giudicare, a ipotizzare, al massimo a compatire…ma ben poco solidale.
C’è un personaggio, dal quale muove tutta la storia, ancora più positivo, per la verità, dell’Avv. Barbieri: si tratta del Dr. Carlo Dalmonte, il medico condotto di Vergato fin dal 1875, cui Amalia, in preda a grande preoccupazione, si rivolge per sottoporre la piccola ammalata, Paola, ad una visita. Impegnato nella difesa dei poveri contro i soprusi dei potenti, Dalmonte ben presto si era reso conto delle sofferenze che i bambini del brefotrofio portavano alle famiglie della montagna, proprio a causa della sifilide.Egli aveva, a più riprese, denunciato la negligenza dell’Ospizio degli Esposti, ma invano. Sarà proprio il caso di Amalia a persuaderlo che è giunto il momento di far causa alla struttura in modo che il Tribunale ne riconosca le responsabilità medica: quelli dell’Ospizio, egli pensa, avrebbero dovuto riscontrare i segni di malattia su Paola prima di consegnarla ad Amalia!
E’ il Dottore che consiglia ad Amalia di rivolgersi all’Avvocato affinché i responsabili (“quelli dell’Ospizio”) fossero condannati a pagarle le cure. Dunque è da questo semplice medico condotto -le cui valutazioni gl’illustri periti universitari, nominati dall’istituzione, cercheranno in tutti i modi, nella loro tipica arroganza, di contestare e demolire- che ha inizio la complessa vicenda processuale.
Impietosa, nel suo sarcasmo, la rappresentazione -prima e durante il processo- della classe accademica locale del tempo, per lo più legata al vecchio mondo (salvo rare, luminose eccezioni) con relative debolezze e “tic”: altro che virtù del cosiddetto “buon tempo antico”! Immancabile, tra queste “virtù”, come annota con amarezza -ma senza sorpresa- chi scrive, la colpa attribuita agli Ebrei, da parte di un “Chiarissimo” Direttore di clinica, nella massiccia diffusione della sifilide in Europa, dopo la cacciata degli stessi dalla Spagna del 1492!
E il “vecchio mondo”, ancora tanto potente, la ruling class extrauniversitaria, è raffigurato anch’esso senza sconti, né infingimenti: tutto dedito al culto dell’apparenza e non dotato certo di sensibilità sociale, come invece vorrebbe sembrare agli occhi della gente comune.
L’Avvocato Barbieri, colpito dalla vicenda e non privo -come sappiamo- di aspirazioni politiche, comprende che occuparsi con impegno della delicata questione può consentirgli di diventare uno degli avvocati più in vista della città. Egli quindi assume la difesa della donna.
Inizia così la battaglia legale tra Amalia Migliorini, nata Bagnacavalli, contadina analfabeta residente in Oreglia, frazione del Comune di Vergato (Bologna), e il Corpo amministrativo degli spedali di Bologna in persona del suo Presidente, il Conte Francesco Isolani.
Battaglia che esprime anche l’aspro contrasto tra la nuova classe dirigente, formatasi all’indomani dell’Unità d’Italia (impersonata dall’Avv. Barbieri e dal Dr. Dalmonte) e la nobiltà, ostinatamente ancorata ai propri privilegi e legata ad una larga fetta dell’establishment medico.
 
IL PROCESSO
Inizia un duello che vedrà tutti i gradi del giudizio: Tribunale; Corte d’Appello; S.C. Cassazione in Roma che “casserà” la sentenza di secondo grado “con rinvio” ad altra Corte d’Appello (Ancona, come accadeva per lo più, per una sorta di ultrattività, per così dire, strutturale dello Stato Pontificio). Durata complessiva della vicenda: dieci anni; un tempo che apparirà lungo, immagino, ad un profano, ma non lo è di certo a chi frequenta le (odierne) aule di giustizia per ragioni professionali. Non racconterò “per filo e per segno” le diverse fasi di tale…guerra, combattuta a suon di atti di citazione, comparse, memorie, perizie (d’ufficio e di parte), udienze, arringhe, testimonianze, sentenze….Non intendo guastare nel lettore il piacere della scoperta di quanto, nell’arco di poco più di un secolo, per un verso sia mutata la sensibilità giuridica e culturale, ma contemporaneamente, per altro verso, vi fossero, già fin da allora, persone sensibili in grado di precorrere i tempi.
Efficacissima la rappresentazione del processo fin dalle prime battute, nelle sale di Palazzo Baciocchi a Bologna (attualmente sede della Corte d’Appello), ambiente non molto mutato nel corso del tempo: i testimoni (come il medico condotto che intende dare una lezione alle ingessate autorità sanitarie cittadine che non avevano tenuto in considerazione le sue denunce del pericolo diun’infezione di massa); i legali; le parti; le domande; le risposte; la ricerca dei punti deboli nell’avversario da parte di ciascuno dei difensori; i precedenti invocati; i colpi bassi del “Vecchio Mondo”, ancora incredulo per essere stato attaccato in modo così deciso; le sorprese riservate dal “Nuovo”; l’aleggiare, tra le pagine delle Consulenze Tecniche -mediche- di una qual certa sottile perfidia che, mi si passi la sincerità, si trova, allo stato puro, nell’ambiente universitario in un grado davvero inimmaginabile per chi non ci si è mai imbattuto…. Tutto prende rapidamente vita davanti al lettore.
Il primo grado si conclude a favore dell’istituzione.
Se, da una parte, viene accolta la tesi, sostenuta dall’Avv. Barbieri, del nesso di causalità tra l’allattamento della piccola Paola Olivelli e la malattia di Amalia (nesso negato dalla controparte), tuttavia viene rigettata la domanda di responsabilità dei medici alla luce che “era nella natura stessa della medicina che vi fossero molte opinioni diverse e molte ipotesi in conflitto tra loro”.
“Sarebbe stata una barbarie” proseguono i giudici, con una valutazione lontana dalla nostra sensibilità, tenuto conto che l’odierno stato della scienza -ben più evoluto di quanto non lo fosse a fine Ottocento- ha condotto ad una dilatazione del concetto di “Responsabilità medica” “se non…un colpo inferto alla scienza..accogliere un parere rispettabile, su cui un dottore basasse diagnosi e trattamento, e poi, nel caso in cui tale diagnosi risultasse erronea, considerare il dottore responsabile per i danni che ne fossero seguiti”. Ne consegue una totale reiezione della domanda di responsabilità in capo ai medici dell’Ospizio [1].
Ma si tratta solo del primo grado. Il processo prosegue e vengono scalate tutte le fasi del giudizio, mentre il caso diviene famoso e dibattuto non solo in campo medico, ma anche giuridico, suscitando commenti e reazioni a favore dell’una e dell’altra parte. Ad esempio, dopo la sentenza della Corte d’Appello di Bologna, che era andata in direzione opposta rispetto al Tribunale ed aveva condannato il Corpo amministrativo degli spedali -ritenuto responsabile- al pagamento di una somma provvisoria in favore di Amalia, su un’autorevole Rivista di settore era apparso un articolo violentemente polemico nei confronti della sentenza stessa. Se questo principio, tale era, più o meno, il tono dell’articolo, entrerà nella giurisprudenza, ogni qualvolta che un medico tratterà un paziente, l’ospedale rischierà tutto il suo patrimonio! [2]
Basti ciò per rilevare quanto siano cambiate l’impostazione e la cultura giuridica!
Dopo una fase di cassazione, per così dire, “pilatesca”, la Corte d’Appello di Ancona, alla fine del giudizio di “rinvio”, con sentenza deliberata a maggioranza dopo alcuni giorni di accese discussioni tra magistrati (siamo nel luglio 1896) ritiene “gli spedali responsabili pel fatto dei suoi dipendenti [ai sensi dell’art. 1153 Cod. civ. del 1865, odierno art. 2049 C.c.] a tutti i danni materiali e morali e li [ha] condanna[ti] alle spese tutte”.
Nelle more del procedimento il Corpo amministrativo cerca di mettere in atto provvedimenti volti a diminuire gli effetti del contagio; e inoltre,  tramite i propri avvocati, si impegna a chiudere altri eventuali “casi Bagnacavalli” elargendo somme alle donne contagiate, ma facendo loro firmare, in compenso, lettere liberatorie con le quali esse erano vincolate a non chiamare in causa, per il futuro, l’Ospizio degli Esposti.
 
CONSEGUENZE SULLA SORTE DI MADRI E BAMBINI
A seguito della vicenda Bagnacavalli, la politica dell’ospizio in merito all’allattamento, come detto, cambia: si comincia a preferire le madri naturali alle balie esterne, superando la mentalità assurda di allontanare i bambini dalle prime. Questa posizione, d’altra parte, tenuto conto dei tempi, avrebbe comportato un grave rischio: i bambini senza una madre, a causa dello spettro, peraltro reale, della sifilide, erano destinati, in assenza di una balia, all’allattamento artificiale, con gravi rischi per la loro sopravvivenza. Kertzer non manca di mettere in luce in un significativo capitolo (“Vite perdute, vite salvate”) i diversi risultati di una politica socio-sanitaria che si trova di fronte ad interessi contrapposti. Se è vero che ai bambini senza madre era riservato l’allattamento artificiale, anziché, come detto, l’intervento delle balie, perché essi erano a grave rischio sifilide, tale modalità di nutrizione era ancora assai imperfetta e comportò la morte di diversi tra loro; giova ancora rammentare che, all’epoca, non era stata introdotta la pastorizzazione del latte e occorrerà giungere agli anni Venti del Novecento per scoprire una formula di nutrimento assai simile al latte materno. D’altro canto è parimenti vero che, nel corso degli anni in cui si svolse il processo e in quelli successivi, “dozzine di giovani contadine dovettero la propria salute e la vita dei figli non ancora nati alla donna di Vergato”.
 
QUALE “SFIDA” PER AMALIA? RIFLESSIONI
Ma anche la vita della protagonista e della sua famiglia era cambiata, nel corso degli anni; e non certo in meglio.
Oltre al dolore, come sappiamo, per la morte dei suoi figli, Amalia e il marito si erano trovati di fronte a gravi problemi economico-finanziari, che saranno la causa della loro rovina.
Lascio al lettore percorrere le pagine dedicate all’epilogo della storia, che hanno il sapore della beffa e che attestano, ancora una volta, quanto fosse veritiera la frase di Don Lorenzo Milani, figura tanto poliedrica -e strumentalizzata- quanto poco conosciuta: “Se uno conosce 2000 parole e un altro 20, il primo opprimerà il secondo”.
Ecco una riflessione significativa di Kertzer, venata di amara ironia, a proposito di un personaggio centrale della storia: “Se…..abbia avuto qualche dubbio o scrupolo per quello che aveva fatto o stava per fare, nella documentazione depositata negli archivi non ne è rimasta alcuna traccia”.
Il tono del racconto è drammatico e coinvolgente, a cominciare dalla scansione dei capitoli: “Una visita inattesa; “Il giorno fatidico”…”Intentare causa al conte”; ”L’attacco dello psichiatra”, “Il tribunale decide”, ecc. Nella narrazione lo sviluppo del processo accompagna il dramma di Amalia e della sua famiglia.
Il libro contiene un accurato studio dei caratteri: i diversi tipi umani sono ricchi di sfumature, mai, per così dire, stilizzati. Tuttavia non siamo di fronte ad un romanzo, pur avendone l’opera sovente i contorni e la capacità di coinvolgere chi legge dalla prima all’ultima pagina per poter sapere “come andrà a finire”, bensì ad un saggio storico politico (arricchito, alla fine, da una variegata bibliografia a tutto campo), rilevante sia per la storia del diritto che per quella della medicina, date la messe di dati ivi contenuti, tutti attingibili da fonti accuratamente citate.
L’A. osserva un ineccepibile rigore espositivo nel suo lasciar immaginare ciò che i singoli interpreti della vicenda possono aver detto, senza riprodurre dialoghi diretti. I suoi “tratti di penna” sono piuttosto efficaci: ad esempio, quando ci descrive Amalia -mai ne è registrato uno scatto d’ira, d’impazienza o di ribellione- e di quanto ella fosse cambiata nel trascorrere degli anni, della malattia e delle vicende processuali, così si esprime: “….in quel periodo [dopo la pronuncia della Corte d’Appello di Ancona] Amalia non portava più i segni visibili della malattia..ma si sentiva sempre stanca….La donna che una volta veniva definita come lo specchio della salute…adesso aveva un’aria malaticcia; la pelle…aveva un malsano colorito cinereo e il corpo robusto di un tempo era ora fragile e smagrito”.
Con profonda umanità Kertzer immagina, nel prosieguo del tempo, Amalia anziana e sola che ripensa a quella drammatica vicenda (la “saga legale”, com’egli la definisce)e passa in rassegna le persone che ha incontrato nel corso di quegli anni tumultuosi, come, ad esempio, quel “….vecchio dottore pomposo che dirigeva il manicomio e insisteva sul fatto che non fosse possibile che Paola le avesse trasmesso la sifilide, che doveva invece averla contratta [lei] da qualche altra parte”. Il “vecchio dottore” altri non è che il Prof. Francesco Roncati, illustre psichiatra -dunque del tutto incompetente nella materia interessata-, nominato tra i Periti d’Ufficio, anche per intercessione del Corpo amministrativo degli spedali. La saggezza antica delle persone semplici.
Quella di Amalia non è affatto una “sfida”. La donna si trova di fronte a eventi troppo grandi, che fatica a comprendere: non li domina, ma ne è, in definitiva, dominata. Altri manovrano il suo destino. Il titolo più corretto dell’opera è quello originale: Amalia’s Tale, La Storia di Amalia.
L’A. immagina, a seguito delle vittorie nelle aule giudiziarie, una contenuta gioia di lei, ma anche la sana diffidenza contadina di chi ha “il buon senso di non lasciarsi travolgere dalle proprie speranze”. E lascia trasparire la grande dignità di questa donna, sì coinvolta in una storia i cui contorni, forse, non le sono chiari fino in fondo, ma nella quale conserva una sua serenità d’animo.
La vera sfida invece è quella di aver plasmato, traendoli da materiali sepolti negli archivi, un dramma sorprendente, una storia ”che oltre che alla mente” sa rivolgersi al cuore. E questo scrittore di forte tempra morale, che non concede sconti, che non ama le scorciatoie, ha saputo, attraverso la scrittura di questa profonda “opera di formazione”, dare finalmente voce a chi non….ha voce.
 



[1] Lo “stato della scienza” è un concetto usato in maniera ricorrente dal legislatore nei decenni più vicini a noi; cfr., ad esempio, il Codice del Consumo, D. Lgs. n. 206/2005, ivi (art. 118, lett. e) esclude la responsabilità per danni del fabbricante di un prodotto difettoso “se lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche, al momento in cui il produttore ha messo in circolazione il prodotto, non permetteva ancora di considerare il prodotto come difettoso”.

[2] Cfr. (come riferito dall’A. nelle note a p. 262): GABBA C.F. 1895, Commento, Il Foro it. Raccolta generale di giurisprudenza civile, commerciale, penale, amministrativa, vol. XX -, 1895.