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(Titolo originale True Grit; USA, 2010;   Genere: Drammatico, western)

                  “Mi dicono che siete un uomo che ha….grinta”
“Come ti chiami, ragazzina?”
“Mi chiamo Mattie Ross”.                 Arkansas, Stati Uniti, seconda metà del XIX° secolo.
Una tosta ragazzina di quattordici anni, Mattie Ross,è fermamente decisa a vendicare la morte del padre, Frank, ucciso a sangue freddo da un balordo, certo Tom Chaney. Questi è fuggito alla svelta lontano, nella cosiddetta “Nazione indiana”, luogo immenso, rifugio di ladri di cavalli ed assassini, dove i pellerossa non sono più i coraggiosi combattenti del passato, difensori della loro terra, ma sopravvivono, come possono, di piccoli scambi, all’interno di una sorta di grande riserva (lo si evince, tra l’altro, da un brevissimo, indicativo episodio).
Mattie non si rassegna a stare in famiglia a consolare la mamma, distrutta dal dolore, e a accudire i due fratellini, mentre quell’assassino se la spassa in libertà. Giustizia dev’essere fatta, la morte di Papà Ross, centrato da un colpo in piena fronte davanti alla Pensione Monarch, va vendicata; Chaney catturato e impiccato.
Ma come fare? Qualcuno deve aiutarla. La ragazza svolge opportune indagini e avvicina Reuben Cogburn, uno sceriffo duro e spietato con la fama di infallibile tiratore, ma pure, così ella viene avvertita, con un incorreggibile debole per la bottiglia.
Il primo incontro tra i due non è incoraggiante: l’uomo, mezza età, soprannominato il Grinta -alto, robusto, con un occhio coperto da un benda nera, un intramontabile sdrucido abito scuro,- è quanto di più diffidente e burbero si possa immaginare. Ma Mattie non è tipo da scoraggiarsi; è molto abile, degna figlia di commerciante, a contrattare su tutto: da una partita di cotone, a un cavallo, al compenso per un killer/vendicatore. Ella ha imparato presto che tutto ha un prezzo, morale o materiale, “eccetto la grazia di Dio”; e, quando proprio se la vede brutta, evoca, come un deus ex machina, l’Avvocato J. Noble Daggett di Dardanelle (Arkansas), il legale di famiglia, a sua volta abilissimo negli affari.
Cogburn è il tipo che fa per lei, tanto più che è uno sceriffo federale della “Corte Distrettuale degli Stati Uniti d’America per il Distretto Occidentale dell’Arkansas avente giurisdizione criminale sul Territorio indiano”; dunque ha piena autorità a catturare Chaney e ad assicurarlo al boia. La “Nazione indiana” qui interessata è la “Nazione Choctaw” il cui territorio, d’inverno, è tutto bianco di neve.
Dopo un batti e ribatti da una parte e dall’altra a proposito del compenso a fronte di tale incarico, l’uomo accetta la proposta e si appresta a partire. Ma -sorpresa!- Mattie non lo lascia certo andare solo: ella lo accompagnerà sin dall’inizio per verificare che svolga a dovere il compito assegnatogli, meritando i cento dollari pattuiti. Cogburn non vorrebbe saperne, Mattie però è irremovibile. Lo sceriffo allora, dopo una -per la verità- non convinta resistenza,  si rassegna a tale compagnia poiché, in fondo,  ha bisogno di danaro sicuro; ma, ecco spuntare il terzo incomodo. Si tratta di un giovane sui trent’anni, aria spavalda, occhi azzurri, un ciuffo ribelle sulla testa. Il suo nome è La Boeuf (ma si pronuncia La Bif) ed è un Texas Ranger, dunque, a sua volta, uomo della legge. LaBoeuf è anch’egli alla ricerca di Chaney (il cui vero nome, veniamo a saperlo da lui, è Theron Chelmsford) per arrestarlo poiché questi ha sparato ad un senatore texano ed al suo cane, uccidendoli. Il giovane persuade lo sceriffo e Mattie ad accettare la sua presenza e così l’insolito terzetto parte, a cavallo,  per questa caccia nella quale ciascuno è fortemente motivato, tra praterie, lunghi silenzi, vasti orizzonti, incontri imprevisti.
Un continuo faccia a faccia con la Paura, il Dolore, la Morte, il nascere di un rapporto tra i tre fatto non solo di complicità, ma anche di affetto, pur in mezzo a furibonde litigate. Fino al Finale, o meglio ai finali, di sorpresa.
I fantastici fratelli del Minnesota, Ethan e Joel Coen, hanno dato vita ad un altro grande film, dopo il paradossale, ma denso di saggezza, A Serious Man di due anni fa.
Tratto dal romanzo omonimo di Charles Portis, riservato scrittore -nativo (1933), a sua volta, dell’Arakansas- autore di opere considerate dei classici, espressione della profonda anima americana, pubblicato in Patria nel 1968 (all’epoca vi si ispirò un altro film, diretto da Henry Hathaway, grazie al quale John Wayne vinse l’unico premio Oscar della sua lunga carriera, quasi in extremis) ed ora uscito da noi con Neri Pozza Editore / Giano, Il Grinta non è  affatto un remake della pellicola precedente, che i Coen, tra l’altro, dichiarano di non avere visto; bensì una sorta di western atipico, caratterizzato da momenti di azione -pochi, ma rilevanti- e di molti dialoghi, uno più denso di spunti dell’altro. Sarebbe interessante leggere la sceneggiatura originale.
Il film, come il romanzo del resto, nasce dalla rievocazione operata, anni e anni dopo, dalla protagonista, divenuta una donna nubile di mezza età, che ha conservato una “lingua tagliente” e che, a detta dei vicini pettegoli, ha solo due amori: “la mia chiesa e la mia banca”. Ma scopriremo che ciò non è vero fino in fondo.
Il pregio dell’opera sta nei dialoghi, nello studio dei caratteri, nel contrasto tra l’esigenza di giustizia (non una vendetta fine a se stessa) e la necessità di mercanteggiarne talora la realizzazione.
Una stupenda ballata sull’amore filiale e pure paterno -senza che l’interessato, il Grinta, cioè, se ne renda conto-, costruita senza sbavature, né retorica.
Il tutto è legato dalle stupende ed evocative musiche di Carter Burwell: ora canti dal sapore nostalgico; ora ritmi cadenzati, ad indicarci i momenti significativi della storia.
Con spunti interessanti e bellissimi singoli quadri d’ambiente nati da un qual certo spirito ebraico che permea tutto il film, a cominciare dal versetto, tratto dal Libro dei Proverbi, con il quale si apre la pellicola, carico di drammatica verità: “I malvagi fuggono quando nessuno li insegue”.
Consequenziale, tra le altre, la scena in cui Mattie spiega al Grinta e a La Boeuf la differenza tra ciò che è male in sé e ciò che è male per la legge.  Il messaggio è chiaro: la giustizia incomincia già su questa terra. Che poi la giustizia abbia come epilogo inevitabile la forca si spiega col fatto che ci troviamo in un luogo di frontiera, in un Paese ancora tutto da costruire, dove molta strada deve essere percorsa sul piano del garantismo giuridico.
Presentato con successo al 61° Festival cinematografico di Berlino, il film si avvale di ottimi interpreti. Vediamone i principali.
Jeff Bridges, l’indimenticato Jeffrey “Drugo” Lebowski, protagonista di un’altra pellicola di successo dei Coen, è un “Grinta”, pur talora un po’ troppo sopra le righe, carico di umanità e ammirazione nei confronti della sua giovanissima compagna di viaggio. Non manca di una certa autoironia, come quando confessa che sua moglie, che lo ha lasciato portando con sé il loro figlio (e non facendoglielo più vedere), aveva deciso, in precedenza, di fare di lui un avvocato: “Mi diede da leggere un libro sui titoli di credito. Non ci ho capito niente!”.
Progetto tramontato e, forse  per tale ragione, matrimonio andato in fumo. Il titolo di Avvocato dà un certo prestigio, a quanto pare. In compenso il nostro sa maneggiare la pistola alla perfezione, anche tra i fumi dell’alcool.
Particolare curioso: nel film l’occhio bendato dello sceriffo è il destro, mentre nel romanzo di Portis è il sinistro. Distrazione o desiderio di distinguersi da parte dei registi?
Non dovrebbe essere stato facile per Matt Damon, abituato a ruoli di primattore, interpretare una parte, se non secondaria, almeno defilata; ma il professionista di razza lo si riconosce anche da tali circostanze. Ironico e affascinante è il suo Laboeuf, ben ricordato dalla protagonista, pur a decenni di distanza.
Ma la vera rivelazione del film è la matricola (o quasi) Hailee Steinfeld, coetanea della sua Mattie Ross. Dotata di eccezionale capacità espressiva e di una notevole disinvoltura che non la fanno sentire in soggezione in compagnia di stars di prima grandezza, Hailee sta in scena dall’inizio alla fine del film -non si comprende quindi la candidatura all’Oscar come attrice “non protagonista”- e anzi pare proprio dominarli, i suoi colleghi più titolati!
Bellissima la scena in cui la ragazzina dalle lunghe trecce indossa, con fatica ed emozione, il soprabito di Papà Tom, che le sta grande di alcune misure, e calca il cappello a larga tesa di lui, senza dimenticarne la “Colt da dragone”.
Un’autentica vestizione per imbarcarsi nella grande avventura di catturare l’assassino.
A casa la mamma non intende sbrigare le questioni nate a seguito dell’improvvisa morte del marito senza l’aiuto e i consigli della sveglia figliola. Questo si sa: ebbene, la mamma dovrà aspettare qualche tempo. Maiora premunt.
Mattie conosce bene la Bibbia: “Anche se camminassi in una valle oscura” ripete tra sé e sé al buio e prosegue: “non temerò nessuno”, versione più combattiva del tradizionale ed anodino “non temerò alcun male”.
E’ proprio un peccato che, nonostante il considerevole numero di candidature all’Oscar, il film sia rimasto a…. bocca asciutta. Tuttavia, forse la mancata vittoria impedirà alla giovanissima attrice di cadere nella trappola di chi, a lungo, viene legato indissolubilmente a quel ruolo e a quella pellicola che gli avevano assicurato grande popolarità.
Avrà un luminoso avvenire, se continua su questa strada.
Non era facile scoraggiare Mattie Ross. Non è certo facile, ritengo, scoraggiare Hailee Steinfeld.

https://youtu.be/diBULj3Cehc

P.S. Giorgio Napolitano[e non solo!]  presto in Israele per ritirare il premio Dan David.

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 15 maggio si recherà a Tel Aviv. Fra i motivi della visita quello di ritirare il Premio Dan David -uno dei più prestigiosi riconoscimenti israeliani- che gli fu attribuito nell’edizione del 2010. Lo conferma una nota ufficiale diffusa oggi dall’organizzazione del premio. La consegna -si legge nel testo- si svolgerà nell’Aula Magna dell’Università di Tel Aviv, tradizionale sede della premiazione, alla presenza fra gli altri del presidente israeliano, Shimon Peres, già Nobel per la pace. Il Dan David è un riconoscimento nato diversi anni fa per iniziativa dell’uomo d’affari e filantropo Dan David, ed è destinato a uomini politici, di scienza e di cultura. Si divide in tre categorie -Passato, Presente e Futuro- per ciascuna delle quali è annualmente conferito un milione di dollari. Napolitano è stato scelto nella categoria ‘Passato’per “la sua dedizione al rafforzamento dei valori democratici e alle istituzioni in Italia e in Europa”, oltre che come esempio di “ragionevolezza e moderazione” nell’attività politica. Alla cerimonia del 15, che lo vedrà in veste di ospite d’onore, sarà formalizzata pure la consegna dei premi per l’edizione 2011 a Marcus Feldman, di Stanford University, per i suoi studi sull’evoluzione animale e vegetale (Passato); ai registi Joel ed Ethan Cohen per il contributo al rapporto fra cinema e società (Presente); e a Cynthia Kenyon, University of California, e Gary Ruvkun, di Harvard, per le loro ricerche in ambito medico e genetico sulla longevità umana (Futuro).

 

Grande gioia per l’attribuzione del Premio David al nostro Presidente della Repubblica; ma identica felicità per il riconoscimento ai fratelli Coen. Ciò specie in considerazione del fatto che, tempo fa, una persona tanto pretenziosa, quanto priva di cultura e spirito, definì, con mio grande sconcerto, un piccolo gioiello quale A serious Man “una pellicola antisemita” (!!!). Ciò perché detta persona non riuscì, con una certa sua rabbiosa contrarietà, a capire la raffinatezza con cui i fratelli Coen prendono benevolmente in giro certi tic del loro quotidiano essere ebrei.
Grazie al cielo, in Israele, hanno opinioni un po’ diverse su che cosa sia davvero …l’Antisemitismo! (4 Maggio 2011)