Complice indifferenza, sottili distinguo; oppure, nei casi più scomodi, diffamazione che parte con l’accusa di razzismo, brandita come una clava nei confronti di coloro che non si uniformano al pensiero unico multiculturalista del "politicamente corretto"; isolamento che pone il soggetto colpito nell’impossibilità di difendersi con efficacia.
Ogni volta che in Occidente -in primo luogo della vecchia Europa, ma anche, sia pure in misura minore, negli U.S.A.- si parla del rapporto tra Occidente e Islam politico, si entra in una sorta di palcoscenico dell’assurdo, con reazioni che potrebbero fungere da base per un divertente test psicologico, se non ci trovassimo di fronte a problemi di portata mondiale. Quando poi sulla scena fa il suo ingresso una strana categoria di persone, denominata "Dissidenti dei Paesi islamici", beh l’imbarazzo è totale. Rammento in modo nitido,l’atteggiamento di diffidenza, se non di aperta ostilità, che circondava, alcuni decenni or sono, i Dissidenti russi (e delle c.d. Democrazie popolari dell’Est europeo) negli ambienti della sinistra, nostrana e non, più o meno "bene"; come ricordo, viceversa, il coraggio dimostrato, ad esempio, da Carlo Ripa di Meana quando, a Venezia, trent’anni fa, organizzò “Biennale del dissenso”, contestata dalla sinistra tradizionale. O l’abnegazione con la quale Elie Wiesel si impegnò affinché agli Ebrei russi fosse consentito di trasferirsi in Israele; Wiesel riuscì a creare, nel suo Paese di adozione, gli Stati Uniti, un vasto movimento di opinione, forte del quale si recò a Mosca, dove, quasi novello Mosè, costrinse il "Faraone sovietico" a cedere, almeno per quanto riguardava (tanto per cominciare) alcune personalità di rilievo. O, ancora, la costanza adamantina con cui una ragazza russa, ebrea religiosa, di nome Avital Sharansky visitò tutti i Capi di Stato e di Governo occidentali -anche il Papa, credo; ricordo benissimo l’incontro affettuoso con Sandro Pertini- affinché costoro premessero sul Cremlino per indurlo a liberare il marito Anatoly, prigioniero nel gulag, e consentirgli di emigrare nella Terra dei Padri. Dissidenti e Israele: un binomio imbarazzante nei salotti dell’intelligentia, allora come oggi. Poi il comunismo è crollato. Per una complessa rete di cause: ragioni economiche, minaccia dello scudo stellare del Presidente statunitense Ronald Reagan, applicazione del principio di legare la tematica dei diritti umani alla politica economica, secondo lo schema degli Accordi di Helsinki del 1975 -il c.d. scambio Grano/Passaporto-, la solida presenza di Giovanni Paolo II (che tuttavia ebbe a dichiarare una volta: "Non ho nessun merito di ciò; il sistema era marcio, mi sono limitato a dare una….spallata"), la nascita, nella Patria di quest’ultimo, di un sindacato indipendente, Solidarnosc, dove, dietro ad un oscuro elettricista di Danzica, stava non solo un bel gruppo di intellettuali coraggiosi, ma anche una vastissima opinione pubblica…..
Certo il merito per la caduta dell’URSS non è stato propriamente (solo) dei dissidenti; essi peraltro hanno rappresentato la voce della libertà, della costanza, del coraggio, morale, prima che fisico; sono stati una sorta di carburante, di linfa vitale, che scorre anche quando il terreno sembra arido, morto.
Oggi, dovremmo saperlo bene almeno da sei anni, c’è un’altra potenza totalitaria che minaccia le nostre democrazie e il nostro stile di vita: l’Islam radicale, antisemita e genocidario, declinato nelle sue varie forme e rappresentazioni. Un nemico che non coincide con uno Stato, che spesso non combatte con un esercito di soldati in uniforme, un nemico in grado di usare in modo egregio i moderni strumenti tecnologici e massmediatici, che sa sfruttare da consumato professionista i sentimenti di colpa dell’Occidente per il suo passato coloniale; che, in ogni caso, ci sbatte in faccia, ad ogni pié sospinto, il suo odio primigenio senza sconti, senza aver nemmeno bisogno di un aperto pretesto per motivarlo. Noi, l’Occidente, in tutti questi anni (come minimo dal 1979), abbiamo via via sviluppato paura codarda e insicurezza nei confronti dei nostri valori ed imboccato la strada dell’appeasement: quel far finta di credere che con la nostra buona volontà, con le nostre buone intenzioni, l’avversario si placherà; mentre invece non facciamo che il suo gioco, il gioco di chi trova la sua ragion d’essere nell’oppressione dei diritti umani.
Tuttavia anche oggi, nel contesto attuale, è venuta pian piano crescendo una pattuglia di coraggiosi, provenienti dal mondo islamico, i quali, a costo della propria vita, patendo sofferenze indicibili, chiedono il nostro fattivo sostegno nella battaglia per la libertà nella loro Patria, ribadiscono che la democrazia, e non una fallace pacificazione, è l’unico antidoto al terrorismo e ci avvertono che o smettiamo di sostenere, in modo più o meno diretto, le feroci dittature che reggono quei Paesi, o finiremo tutti quanti per esserne distrutti.
Un gruppo di donne e uomini di buona volontà e forte sensibilità politica, in testa l’intrepida Fiamma Nirenstein con Anita Friedman -quest’ultima, insieme ad Anna Borioni, anima dell’Associazione romana Appuntamento a Gerusalemme, costituita nel 2002, che accompagna ogni anno in Israele politici e persone di cultura per conoscere e approfondire la realtà israeliana e mediorientale- con il supporto e/o il contributo economico di un drappello di Associazioni e Fondazioni, impegnate nel campo culturale, politico, sociale: la statunitense / israeliana The Adelson Institute for Strategic Studies of Shalem Center; le italiane: Fondazione Magna Carta; Fondazione Farefuturo; Fondazione Camis De Fonseca; Fondazione Craxi; tutti costoro hanno organizzato a Roma, presso l’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente, nei giorni 10 e 11 dicembre scorsi, un importante Convegno internazionale dal titolo FIGHTING FOR DEMOCRACY IN THE ISLAMIC WORLD, che ha visto come protagoniste, in primo luogo, alcune persone, provenienti da Paesi islamici, le quali si stanno battendo con coraggio e determinazione affinché, anche in detti Paesi, compatibilmente con i diversi contesti, si affermino i diritti umani e i valori democratici.
Occorre subito chiarire, come ha puntualizzato nel suo intervento il Presidente della Fondazione Magna Carta, Sen. Prof. Gaetano Quagliariello, che l’interesse dei promotori nei confronti del dissenso nel mondo mussulmano non è di carattere umanitario, bensì politico.
Ribadire oggi con forza l’universalità dei diritti umani equivale a "compiere un preciso atto politico contro il diffondersi del politically correct, che tende a scegliere di fiore in fiore; dove intervenire e dove no: in America contro la pena di morte, ad Amsterdam a favore del reato di omofobia, ma non quando a Teheran viene mandato all’impiccagione un omosessuale".
Il Convegno è stato l’ideale prosieguo della Conferenza di Praga, svoltasi nella capitale ceca la primavera scorsa su Democrazia e Sicurezza; un appuntamento, cui aveva partecipato pure George Bush, promosso dal Prague Security Studies Institute, dallo Shalem Institute of Jerusalem e dal FAES Foundation for Social Research and Analysis, che aveva coinvolto dissidenti provenienti da molte nazioni in cui la libertà è negata da governi spietati.
Aspetto saliente di quell’incontro è stata la consapevolezza, maturata sulla base della concezione politica di Nathan Sharansky (l’Anatoly di alcuni decenni fa…..), secondo la quale la difesa dei diritti umani è fondamentale per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. La Conferenza aveva analizzato con spirito sincero e critico l’insufficiente impegno occidentale nel sostenere i combattenti per la democrazia ed aveva avuto come suggello la c.d. Carta di Praga, importante documento firmato da tre personaggi emblematici: due (ex) dissidenti originari di Paesi già retti da dittature comuniste (il ceco Vaclav Havel, anima del Movimento Charta 77, e il russo, poi israeliano, Nathan Sharansky) e un esponente politico che sempre si è battuto per la salvaguardia dei valori occidentali, intesi come valori universalmente condivisibili, lo spagnolo Josè Maria Aznar (Presidente del FAES, uno degli enti organizzatori). La Carta di Praga, nel riconoscere, tra l’altro, l’esistenza di una profonda discrepanza morale tra società libere e società dominate dalla paura e dalla repressione “nelle quali si compie una sistematica violazione dei diritti umani senza alcuna possibilità di ricorso contro tali abusi”, impegna governi e popoli ad esercitare pressioni, nelle differenti forme (diplomatiche, politiche, economiche), nei confronti di quei regimi che conculcano i diritti umani e mettono di conseguenza a repentaglio la sicurezza internazionale; ritiene "legalmente responsabili quei governi o quei gruppi che minacciano altri Paesi e popoli di genocidio o sterminio" (a quest’ultimo proposito pensiamo, riguardo agli Stati, alla politica della Repubblica islamica dell’Iran nei confronti di Israele; oppure, quanto ai gruppi, ad Hamas, a Hetzbollah, o al partito Ba’th di Bashar Assad, nei cui statuti è previsto come impegno imprescindibile la distruzione, sempre di Israele); si assume la responsabilità di promuovere politiche di governo e per i diritti umani che si sono rivelate efficaci in altri Paesi, in particolare nelle nuove democrazie.
Il Convegno di Roma ha svolto il difficile compito di proseguire il cammino iniziato a Praga lungo le direttrici allora indicate: far conoscere ancora di più la lotta dei dissidenti, sostenendoli in modo più fattivo rispetto a quanto è stato fatto finora; spiegare il rapporto inscindibile che esiste nel mondo tra libertà e sicurezza.
"L’Islam è compatibile con la Democrazia?" Questa difficile domanda è stata l’oggetto della Lectio Magistralis tenuta dal Prof. Bernard Lewis -americano, di origine inglese, massimo islamologo vivente, Professore emerito di Studi sul Vicino Oriente dell’Università di Princeton, autore di numerosissimi saggi in materia, consulente di diversi governi-, padre politico della concezione secondo la quale la libertà e la democrazia possono essere estese al Medio Oriente.
Il Prof. Lewis, classe 1916, è un signore dallo sguardo vivace e penetrante, che sorride paziente quando lo prego di mettere la sua firma nella pagina iniziale del libro / intervista, scritto con Fiamma nel 2003, Islam – La Guerra e la speranza, che ho portato a Roma con me.
Egli è stato più volte ottimo profeta sugli importanti snodi della recente storia nell’area del mondo oggetto del suo interesse. Ad esempio, quando, nel 1978/’79, arrivarono in Occidente le prime notizie su una possibile rivoluzione in Iran contro lo Shah Reza Palhavi, Ruhollah Khomeini si trovava in Francia, vicino Parigi. Il Prof. Lewis verificò, presso la biblioteca della locale Università, che Khomeini aveva scritto un libro dal titolo Governo islamico, definito più tardi con una certa perspicacia, il suo Mein Kampf. Il professore lesse con interesse il volume, che riuniva una serie di conferenze tenute alcuni anni prima in Iraq e pubblicato solo in due lingue (arabo e farsi), nel quale l’Autore spiegava con chiarezza il suo programma di instaurare un regime islamico tradizionale, non certo una repubblica libera, come fantasticavano all’epoca, in Occidente, scrittori e giornalisti, più per superficialità e ignoranza, che sulla base di dati di fatto. Anzi, sull’onda dell’ottuso entusiasmo che tale rivolgimento suscitò nell’intelligentia europea (femministe di casa nostra in testa, che non dissero mai una parola in difesa delle loro sorelle iraniane, subito imbozzolate negli chador dai mullah), ci fu chi sostenne addirittura che il libro nemmeno esisteva!
La relazione del Prof. Lewis ci ha rivelato quanto sia complesso e variegato il mondo mussulmano e come sia utile, anzi indispensabile, prima di (cercare di) rispondere alla domanda, approfondire i concetti base, a cominciare dal termine "Democrazia". Quando, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la Germania fu debellata e divisa in due, il settore comunista si autodefinì’ "Repubblica democratica". L’aggettivo "democratico" è stato usato da governi autoritari, assai diversi tra loro, ma che avevano in comune proprio la mancanza di democrazia; pensiamo, ad esempio, alla Spagna di Franco, alla Grecia dei colonnelli, (o, appunto, ai regimi comunisti nei Paesi satelliti dell’URSS, le "Democrazie popolari"); o anche a quelle "Repubblica democratiche", instaurate in vari Paesi del Terzo Mondo, ancora oggi esistenti, nelle quali "succede di tutto". Per converso, c’è chi fa coincidere la parola "Democrazia", in tutto e per tutto, con le istituzioni del mondo angloamericano. La democrazia non è una sorta di….legge di natura, esistente una volta, per tutte, in un modello unico. Diverse società possono svilupparne forme diverse. Inoltre, dobbiamo ricordare che la democrazia esige i suoi tempi, non nasce dal nulla, arriva per passi, dev’essere somministrata, afferma il Professore con una suggestiva immagine , "a cucchiaini" e non elargita a larghe mani. Pensiamo soltanto a quanto tempo è stato necessario perché le donne ottenessero il diritto di voto.
La parola "Islam". Per comprendere a fondo il termine occorre distinguere, da una parte, la religione in senso stretto, con le sue credenze e le sue regole, e, dall’altra parte, le civiltà differenziate che essa ha generato. Per rispondere alla domanda se l’Islam sia compatibile, o meno, con la Democrazia, è necessario tenere distinti i due piani: religione islamica e civiltà islamica.
Quando prendiamo in considerazione le dittature che persistono in buona parte del mondo islamico, dobbiamo tenere presente che esse non hanno radici profonde nella tradizione di quei luoghi, ma che, in realtà, i princìpi che le reggono sono stati importati dall’Europa.
Ci sono stati due momenti. Nell’800, i governanti arabi iniziarono ad imitare le istituzioni occidentali, attuando riforme e modernizzazioni. Conseguenza immediata delle riforme fu la creazione di Stati centralizzati, una tipologia sconosciuta in quel contesto; questi modelli di Stato, tuttavia, non portarono automaticamente la libertà. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, a seguito della costituzione del Governo di Vichy, le colonie francesi si schierarono con quest’ultimo e così i nazisti ebbero libertà di azione in Siria, in Libano, in Iraq; iniziò così la nazificazione del Medio Oriente, che portò alla costituzione del partito Ba’th. Al termine del conflitto, spiega il Professore, la forma di governo nazista fu solo lievemente ritoccata. Ecco la vera fonte dei totalitarismi mediorientali: l’importazione dall’Europa; essi, in verità, non hanno radici profonde nella cultura islamica. Alla domanda se Islam e Democrazia siano conciliabili, egli risponde in modo positivo. Vi sono fatti, documenti, che attestano un passato molto diverso dall’attuale. Nell’Islam vi sono due filoni di pensiero politico, due tradizioni ben radicate. La prima: l’idea di un’autorità limitata, in cui il dispotismo ha una caratteristica negativa; l’obbligo di obbedienza non è illimitato. Se, per esempio, il governante esige qualcosa che va contro le Scritture, il popolo può, anzi deve, opporre resistenza. La seconda tradizione è la consultazione come arte del governo; anche questo è un costume ampiamente documentato. Nella tradizione ottomana, quando il nuovo sultano saliva al potere, le alte cariche militari e religiose gli tributavano il loro omaggio; mentre il popolo lo salutava con questa formula "Allah è più grande di te". Era un gesto simbolico, ma assai significativo. Il Prof. Lewis riferisce di aver rintracciato, anni fa, una lettera dell’ambasciatore francese in Turchia, del 1786 (tre anni prima della Rivoluzione). In essa l’autore scriveva, a chi gli domandava come mai le cose, laggiù, andassero così a rilento, che a Istanbul non era come in Francia, dove il re è il re, cioè arbitro di ogni decisione. Il sultano doveva consultare gli alti ufficiali, prima di decidere, e perfino gli alti ufficiali in pensione! Era un governo, non democratico, ma consultivo; governo autocratico, ma un governo autocratico limitato, legale, consensuale, contrattuale (il che è in linea con la tradizione islamica). Riscoprire queste tradizioni politiche può essere il giusto punto di partenza per i Paesi mediorientali, oggi senza libertà.
Anche la Magna Carta Libertatum del 1215 era un elenco di privilegi concessi ai baroni, ma ha posto le basi per la libertà successiva. Oggi il mondo mussulmano vive una situazione di grave pericolo perché minacciato, e in parte dominato, dal fondamentalismo.
Lo studioso conclude la sua lezione con un significativo parallelo tra il rapporto Fondamentalismo/Islam e il rapporto Nazismo/Patriottismo tedesco. Il nazismo, perversione del patriottismo tedesco, finì con incendiare non solo la Germania, ma il resto del mondo (e fu necessaria una guerra di liberazione). Così, oggi, è indispensabile aiutare i mussulmani a liberarsi del fondamentalismo, evitando, in primo luogo, di sostenere i dittatori. Pena la distruzione di tutti.
Ma i veri protagonisti del Convegno sono stati i Dissidenti, politici e intellettuali, che, perseguitati in tutti i modi nei loro Paesi, con grande forza d’animo e determinazione sono in prima linea per l’affermazione della democrazia e la salvaguardia dei diritti umani. Nella loro “due giorni” romana essi sono stati presentati al pubblico da due personaggi assai significativi, anch’essi campioni della lotta per la libertà: il primo giorno da Angelo Pezzana, giornalista e scrittore, direttore responsabile del meritorio sito web www.informazionecorretta.com; il secondo giorno da Nathan Sharansky.
Il Convegno si lega in modo indissolubile a quest’ultimo.
Nathan Sharansky, infatti, firmatario della Carta di Praga, da tempo politico israeliano di vasta esperienza, autore di numerosi saggi, tra i quali, emblematico, The Case for Democracy, scritto insieme al giornalista Ron Dermer (in italiano: In difesa della Democrazia, Sperling & Kupfer Editore, 2005), instancabile esempio per tutti i coraggiosi, con i suoi lunghi anni (9!) passati nei gulag sovietici, rappresenta una sorta di persona/momento di congiunzione tra il dissenso dell’Est europeo, quello del mondo diviso in blocchi, e il dissenso contro le dittature islamiste. Quanto tempo, non può fare a mano di osservare Sharansky, è dovuto passare prima che gli Stati Uniti riconoscessero l’importanza dei dissidenti! Anche allora il "politicamente corretto", dato dal timore di un peggioramento nei rapporti, sempre precari, con l’URSS, impedì una rapida presa di coscienza.
Inoltre, la data del 10 dicembre (inizio del nostro Convegno) è simbolica per Nathan: da quel giorno egli, durante la sua lunga prigionia, iniziava con i compagni uno sciopero della fame, in difesa della democrazia e per ottenere l’autorizzazione ad emigrare in Israele.
Vediamo alcuni di questi esponenti del dissenso mussulmano, la cui sola presenza fisica in sala ha suscitato in me (e credo non solo in me!) uno stato d’animo di condivisione, che ti entra nel cuore per non abbandonarti più; il medesimo di quando, diversi anni fa, incontrai all’Università di Bologna Andrei Sacharov e sua moglie Elena Bonner.
Saad Eddin Ibrahim, egiziano -professore- paragonato da Sharansky proprio a Sacharov, è fondatore e Presidente del centro Ibn Khaldun per gli Studi sullo Sviluppo, docente di sociologia politica all’American University del Cairo, nonché Presidente dell’Associazione dei Sociologi egiziani. Ricopre il ruolo di Segretario generale della Commissione Egiziana Indipendente per la Revisione Elettorale e altri incarichi di notevole responsabilità. E’ stato arrestato nel 2000 e condannato a sette anni di carcere; ma nel 2003, anche a seguito della campagna militare in Iraq, la corte di appello egiziana ha dichiarato il suo processo illegale e lo ha scagionato dalle accuse. Tuttavia la sua situazione è precaria, alcuni nemici lo accusano di "antipatriottismo". E’ un uomo sul cui fisico le sofferenze hanno lasciato un segno visibile: fino a qualche anno fa faceva jogging, ora cammina con fatica. Sembra che tutto il dolore del mondo oppresso stia sulle sue spalle.
"Aiutateci a democratizzare i nostri Paesi, prima che forze oscure uccidano noi e voi!" Questo è l’appello del Prof. Ibrahim. E ancora "La democrazia è inevitabile. Se non siamo democratici, dobbiamo diventarlo; ne va della nostra sopravvivenza".
Kassem Jaafar, libanese -analista strategico e di difesa, specialista di questioni mediorientali- ha richiamato l’attenzione sul fatto che la mancata elezione del Capo dello Stato (nonostante il Parlamento si sia riunito più volte) rappresenta un problema non solo nazionale, ma regionale. C’è un’alleanza antidemocratica che vede uniti Iran, Siria, l’esponente cattolico Aoun e Hetzbollah, vero e proprio Stato nello Stato, longa manus dell’Iran, espressione della strategia di Teheran di esportare la rivoluzione khomeinista in tutto il mondo mussulmano, per diventare altresì, com’è avvenuto, parte integrante del conflitto israelo/palestinese. Se ripensiamo alla guerra dell’estate 2006, ciò è autoevidente. Vi sono poi i forti legami Hetzbollah/Hamas.
Oggi Hetzbollah persegue i seguenti obiettivi: 1) Mantenere la propria influenza nel Paese (non ha mai deposto le armi, dopo la fine della guerra civile, nel 1991); 2) Conservare e rafforzare legami ben solidi con Iran e Siria, dai quali riceve finanziamenti e armi; 3) Bloccare il funzionamento del Tribunale Internazionale che dovrebbe giudicare gli assassini dell’ex Premier Rafiq Hariri, ucciso nel febbraio 2006.
Il quadro è desolante, rileva Kassem Jaafar, tenuto conto anche che ONU, Unione Europea e Lega Araba continuano a far sì che Siria e Iran mantengano la loro influenza in Libano. Che fine hanno fatto, si domanda, le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU che prevedevano la smilitarizzazione di Hetzbollah?
Perché mai Israele non ha attaccato la Siria, centro nevralgico del terrorismo mediorientale?
Perché, aggiungo io -modestamente-, quelle bellissime manifestazioni libere della primavera 2006, guidate da giovani entusiasti che sventolavano le bandiere con l’albero di cedro nel mezzo, non sono state sostenute dall’Occidente e conseguentemente sono finite nel nulla?
Farid Ghadry, siriano -membro del Comitato sul pericolo attuale- di recente ha visitato Israele ed ha parlato alla Knesset, fatto di cui va particolarmente orgoglioso. Confessa che, anche lui in un primo momento, si era illuso che il giovane Bashar el Assad potesse voltar pagina e inaugurare un corso di maggiore apertura nel Paese. Purtroppo ciò non è avvenuto (e non ha importanza che Bashar abbia studiato in Occidente, quando la formazione non è stata democratica!); anzi la situazione è peggiorata, poiché il regime, proprio perché si rende conto della propria debolezza, è diventato ancora più spietato; con il Presidente che continua a istigare, tramite la martellante propaganda, l’odio antiebraico nella popolazione, che, a dire di Ghadry, vorrebbe invece, in gran parte, la pace con Israele. Dà poi notizia dell’arresto in Patria di 22 attivisti democratici, membri della c.d. Dichiarazione di Damasco.
Egli è assai critico verso la posizione del Segretario di Stato americano nei confronti del terrorismo, ritenuta troppo condiscendente: quante persone, in Occidente, chiede, conoscono davvero le dittature del mondo arabo? Quanti si rendono conto che le organizzazioni terroristiche sono il prodotto di queste dittature (pensiamo al rapporto tra la famiglia Saud e al Qaida) e che è assurdo, anche solo ipotizzare, da parte del mondo libero, che sostenere le dittature metta al riparo dal terrorismo? Rivela, con un certo orgoglio, che tanti, in Siria, corrono gravissimi rischi perché solidarizzano con lui, tante persone lottano per la libertà; ma occorrono fondi per questa difficile battaglia. Fondi e sostegno fattivo. Per questo, annuncia "con Nathan Shraransky daremo vita a un Endowement Fund for Freedom around the World".
Bassam Eid, palestinese –Fondatore e Direttore del Gruppo di Monitoraggio Palestinese sui Diritti Umani (GMPDU)- ha lavorato, dal 1989 al 1996, come ricercatore sul campo per conto di B’Tselem, l’organizzazione in cui operano attivisti sia palestinesi che israeliani , volta a denunciare le violazioni dei diritti umani nei c.d. Territori Occupati (quindi con attenzione esclusiva all’operato dell’esercito israeliano…..). Quando, nel 1996, in occasione delle prime elezioni nel Parlamento palestinese, denunciò sia la corruzione dell’ANP, sia l’uso spregiudicato, da parte di Yasser Arafat, della televisione come strumento di propaganda, fu arrestato. "L’arresto" spiega con una certa ironia, dote di cui Bassam non manca, insieme all’ottimismo "è il mezzo che le autorità adottano quando vogliono avere da te un’informazione"; è stato arrestato due volte, poi liberato, poiché dette autorità lo hanno ritenuto non pericoloso, convinte che "con le mie idee, non mi seguisse nessuno!". Dopo l’arresto ha costituito un suo gruppo, appunto il GMPDU, organizzazione apolitica sui diritti umani, volta alla denuncia delle violazioni dei diritti umani (con particolare riguardo ai terroristi suicidi e agli assassini politici tra palestinesi; i palestinesi, afferma, sono tra l’incudine di Fatah e il martello di Hamas) e al supporto di uno Stato palestinese democratico e pluralistico. Nelle elezioni svoltesi di recente al Parlamento giordano, i Fratelli Mussulmani hanno perduto molti consensi; ciò a causa dei crimini commessi da Hamas nella Striscia di Gaza. Tuttavia Fatah non è da meno e l’Anp, che raccoglie tanto danaro, è intrinsecamente debole. L’Occidente non ha compreso le dinamiche che scuotono la nostra società, dovrebbe sostenere noi democratici, che ci sforziamo per essere il punto di riferimento. Bassam Eid, dopo il Convegno, ha tenuto un’affollata lezione all’Università di Torino, grazie all’iniziativa della Prof. Daniela Santus.
Ibrahim Adam Mudawi, sudanese -Presidente dell’Organismo per lo Sviluppo Sociale del Sudan (SUDO)- è amico personale di Nathan Sharansky, da lui incontrato a Praga; è stato arrestato nel 2004 e nel 2006, ha fatto più di una volta lo sciopero della fame. Ha un’aria molto nobile, seria; assomiglia, mi si passi il paragone frivolo, ad una sorta di cugino simpatico di Kofi Annan.
Il Dr. Mudawi che è (stato) testimone di una delle più gravi tragedie del nostro tempo: quelle che si consumano in Sudan e nel Darfur, espressione del fallimento da parte del mondo libero di comprendere le dinamiche che si agitano nei Paesi del c.d. Terzo Mondo. Egli ha insistito sul concetto che l’affermazione della democrazia è un processo lento, da non imporsi con interventi esterni, che deve maturare dal basso, senza lacerare il tessuto sociale, con il contributo di un ceto medio produttivo, indispensabile nella costruzione di una società libera.
Mithal al Alusi, iracheno -Presidente e fondatore del Partito della Nazione Irachena, membro del nuovo Parlamento iracheno- si può definire "Dissidente due volte": durante il regime di Saddam Hussein, quando fu costretto all’esilio dopo essere stato condannato a morte; poi nel 2003 allorché rientrò in Patria per costruire il nuovo Iraq: "per consentire" afferma con una suggestiva immagine, "ai bambini di ritornare a giocare per le strade". Ha un disarmante triste sorriso tra poco scoprirò perché.
E’ stato membro del Congresso Nazionale Iracheno fino al settembre 2004, quando ne fu espulso per aver partecipato, poco prima, ad un Convegno contro il terrorismo a Herzlyia (Iraele). Nell’ottobre di quell’anno ha dato vita al Partito Democratico della Nazione Irachena, che ha dovuto cambiare poco dopo il suo nome in Partito della Nazione Irachena (sic!), gruppo impegnato nella causa della democrazia, dei diritti umani e per la libertà d’espressione, uno dei partiti laici più rilevanti nel Parlamento, che riscuote un crescente consenso nella popolazione. Ha partecipato, come direttore generale, alla Commissione nazionale Irachena per la Debaathificazione, ma ne è stato poi espulso a seguito di alcune sue dichiarazioni in favore di Israele. L’8 febbraio 2005 è sopravvissuto ad un attentato, opera degli islamisti, nel quale sono stati uccisi i suoi due figli: Jamal (22 anni) e Ayman (30 anni, a sua volta padre di due bambini) e la guardia del corpo. Confessa di nutrire un certo pessimismo, almeno per il presente e l’immediato futuro, al di là delle elezioni che si sono tenute due volte, nonché del miglioramento sul piano militare degli ultimi mesi: l’Iran preme su di noi, si trova ad una distanza di poco più di cento chilometri e abbiamo una linea di confine con questo Paese di 1.200 chilometri di lunghezza. Ci sono gruppi fascisti e fanatici che operano contro l’instaurazione di uno Stato di diritto, gruppi che sono un pericolo anche per l’Occidente, a cui interessa perpetuare il conflitto israelo/palestinese e mantenere il caos in Iraq; ma in Iraq vi sono anche forze politiche che guardano con simpatia a Israele perché impegnate nella costruzione della democrazia, consapevoli che tra i due Paesi vi sono comuni interessi contro il terrorismo, per la pace e la creazione di uno Stato palestinese.
Adil Aljuboory, iracheno, ingegnere civile, è Vicesegretario Generale Partito della Nazione Irachena (cui è iscritto dal 2005). Ha iniziato la sua attività politica nel 2001, quando è entrato nel Congresso Nazionale (Iracheno), per conto del quale ha preso parte a incontri di intelligence prima e dopo la caduta di Saddam Hussein. Nella sua esposizione Adil Aljuboory ha richiamato l’attenzione sull’importanza della penetrazione di Al Qaida in Iraq e di come in generale i diversi gruppi terroristici, fin dagli anni ’70, si siano, per così dire, incistati in quel Paese. C’era quindi uno stretto rapporto tra il governo, formalmente laico, e gruppi fondamentalisti. Quando Saddam Hussein si è reso conto che il suo regime stava per crollare, ha acconsentito che questa preziosa rete venisse usata da altri. Il regime dunque è crollato, ma le forze terroristiche sono rimaste.
Un aspetto, a mio parere, importante del dramma iracheno è la strage, da parte delle forze di al Qaida, di professori ed accademici, massacro che ha assunto proporzioni tremende: sono più di 300 gli uccisi dal 2003 a tutt’oggi. Nei giorni scorsi, per fare due soli esempi, Alì al Naimi, illustre esponente della Bagdad University, e Ibrahim Mahammed Ajil, Direttore dell’Ospedale Psichiatrico al Rashad, il più rilevante centro di igiene mentale dell’Iraq; senza contare i presidi e gl’insegnanti. "L’uccisione degli scienziati ed intellettuali iracheni ha uno scopo molto chiaro: svuotare la terra di Babilonia, la terra di tutte le civiltà da ottomila anni…" così si è espresso l’Iraqi Committee for Sciences and Intellectuals.
La figura che mi ha colpita maggiormente -senza, sia chiaro, operare una sorta…gerarchia tra i dissidenti, che suonerebbe come minimo offensiva nei confronti degli altri- e sulla quale mi intratterrò più a lungo è stato l’iraniano Amir Abbas Fakhravar, 32 anni, scrittore e giornalista, fondatore della "Confederazione degli Studenti iraniani", leader del "Movimento Studentesco Indipendente", autore di tre libri, oltre che di numerosi articoli. Lo scorso giugno non è mancato all’appuntamento di Praga. E’ il simbolo dei ragazzi che sorridono e si tengono per mano, sfidando lo sguardo da uccellaccio del malaugurio dell’Imam Khomeini che pare uscire dai giganteschi manifesti di cui le strade del Paese sono tappezzate.
Amir è un bel giovane con gli occhi verdi e dall’aria timida, che, lì per lì, quando ti saluta e sorride, non immagineresti nasconda un carattere forte come l’acciaio; ha passato diversi anni (8, per l’esattezza) in prigione per il suo ruolo nel movimento studentesco, per i suoi scritti, le sue azioni di appassionato democratico. In prigione è stato torturato diverse volte. Qual’era la prigione? Quella di Evin, il famigerato luogo dove, tanto per fare un esempio tra le migliaia, nel 2003 è stata torturata a morte la dissidente irano-canadese Zahara Kazemi, un inferno che ha visto, negli anni passati, le "gesta" come torturatore del Presidente Ahmadinejad, nei giorni scorsi occupatissimo, come sappiamo, ad inviare auguri di Buon Natale a tutto il mondo dal suo blog personale.
Il supplizio più sottile e psicologicamente distruttivo cui hanno sottoposto Amir è definito da Amnesty International "Tortura bianca", una forma di privazione del sonno sperimentata nelle segrete degli ayatollah e dei loro compari nordcoreani: otto mesi in una piccola stanza, senza finestre, con pareti insonorizzate, dipinte di bianco, luce bianca costantemente accesa, riso bianco come scarso cibo, somministrato da persone silenziose vestite di bianco, come lui; proibito dire una parola. Quando fu riportato a casa, Amir non riusciva a riconoscere nemmeno sua madre. Nel 2004 scriveva sul suo samizdat, dalla prigione: "Abbiamo assistito alle esecuzioni dei nostri amici, altri sono stati torturati, alcuni sono al confino solitario da anni. Ma non siamo soli. Molti studenti hanno scelto di rivoltarsi e sacrificarsi perché un giorno l’Iran sia libero".
Com’è stato possibile per lui fuggire dall’Iran? Ha pagato una fortissima tangente. Dalla primavera dell’anno scorso vive negli USA, a Washington, dove è divenuto il più importante dissidente iraniano in esilio. Durante l’ultimo Secular Islam Summit, egli ha definito gli studenti iraniani una "armata silenziosa. La repressione non ha precedenti. In quale altro paese degli innocenti sono incarcerati per una lettera o per aver rilasciato un’intervista a una radio straniera? "
Inevitabile che la sua figura susciti invidie e polemiche, per la sua familiarità con gli ambienti della Casa Bianca , per il fatto che i mass media si sono spesso occupati di lui (la Pbs gli ha dedicato, tempo fa, un lungo documentario) A quelli che lo accusano di essere in cerca di celebrità, come è già successo ad altri dissidenti, Fakhravar replicava calmo, in una recente intervista riportata da il Foglio: "Potete vedere i segni della tortura sul mio volto, i miei polsi e le mie ginocchia. Nella prigione dei pasdaran stavo giorno e notte senza lo spazio per sdraiarmi con in mano il vaso degli escrementi".
Quest’anno è stato assegnato a lui l’importante premio Annie Taylor Award, attribuito nel 2005 a Oriana Fallaci, una sorta di "medaglia del coraggio".
A Roma Amir, che la mattina di martedì 11 dicembre ci ha parlato direttamente in inglese e non in farsi (poi tradotto), ha narrato la sua esperienza di vita, in un Paese con 20 milioni di studenti (tra cui 2 milioni di universitari) dove, tiene a precisare, il 70% delle persone ha meno di 35 anni di età. L’educazione ricevuta a scuola è improntata ad un odio, senza sconti, verso gli Stati Uniti e Israele (e gli Ebrei); tutti i testi scolastici -di ogni ordine e grado- sono scritti e controllati dalla mullahcrazia: gli USA vengono dipinti come un mostro con in testa un cappello a stelle e strisce, assetato di sangue, sangue, in primo luogo, di giovani iraniani.
Dopo il 1979 le scuole, racconta, sono state chiuse per quattro anni, al fine di "ripulire" il sistema e riscrivere i testi e rieducare la popolazione, a cominciare dalle generazioni più giovani; una sorta di "Rivoluzione culturale", ricalcante i metodi e, in parte, i contenuti di quella cinese, di orrenda memoria. Con una tipologia di eroe in più (rammentiamo che l’ideatore, in epoca moderna, del terrorismo suicida è Ruhollah Khomeini): il ragazzino dodicenne che, abbracciato ad una granata, si fa esplodere per poter "bere il vino del Paradiso". Odio nei confronti di USA, Israele -il programma di "cancellarlo dalla Storia" non l’ha inventato Ahmadinejad!-, di tutto l’Occidente, di tutte le altre religioni, a cominciare da quella ebraica, ecco il pilastri dell’educazione impartita. Ma i giovani, si sono ribellati: "Il 9 luglio 1999 il mondo ha udito la nostra voce" ricorda Amir e racconta di quando, allora era studente di medicina, ha visto i suoi amici feriti e uccisi nel modo più barbaro. All’epoca Internet era assai più sfruttabile di oggi perché non schermata come ora; tuttavia, nonostante la generosità e il coraggio degli studenti, il regime ha resistito, anche perché l’Occidente non ha sostenuto il loro movimento e l’opposizione era divisa.
Con l’elezione a Presidente dell’ex Sindaco di Teheran, Mahmud Ahmadinejad, la situazione è divenuta ancora più difficile: il fanatismo si è maggiormente rafforzato, poiché egli ha dato il via ad una sorta di…seconda Rivoluzione Culturale, con la reiterata esaltazione della "cultura del kamikaze": nei prossimi anni, ipotizza Amir, se la tirannide non sarà fermata, un intero Paese di terroristi suicidi verrà esportato nel mondo.
Nella sua appassionata perorazione -che ha suscitato un lunghissimo applauso, nel quale riconoscevi affettuoso rispetto- egli ha chiesto l’aiuto dell’Occidente, a suo parere incapace di comprendere la difficile situazione, distratto e corrivo a vili compromessi per non rinunciare alle fonti di energia che provengono dall’Iran. Ritiene che in Iran la popolazione non vedrebbe affatto male un intervento militare esterno, pur restando, a suo giudizio, le sanzioni la principale arma a disposizione dell’Occidente. Sanzioni durissime: se l’Occidente fosse disposto a rinunciare al petrolio iraniano, il regime imploderebbe. Una figura piena di pathos, Amir Abbas Fakhravar, cui tanti nostri giovani cosiddetti pacifisti dovrebbero idealmente ispirarsi (anziché perdere tempo a dar libero sfogo al proprio odio, da salottieri pseudorivoluzionari -in realtà nazisti autentici-, contro USA e Israele, bruciandone le bandiere ai cortei, celebrazioni del 25 Aprile comprese), che tuttavia sa sognare ed immaginare il suo futuro: in un Iran libero e democratico, gli piacerebbe molto scrivere racconti per bambini.
"Una lezione di sincerità di fronte alla nostra ipocrisia" così Fiamma Nirenstein ha definito la testimonianza di coraggio dataci da questi amici: senza accenti né toni aulici, con semplicità di modi e toni. Una sfida sul piano intellettuale e culturale da parte di un mondo, quello islamico, che noi di solito interpretiamo monolitico, senza sfumature, che magari temiamo e vediamo come una sorta di bambino crudele. Senza pensare, senza ricercare tra le pieghe di una realtà, che è assai più complessa. Ci diamo da fare, fin troppo spesso, per inseguire la benevolenza dei settori più estremisti; in ogni caso facciamo sempre in modo di assecondare il razzismo di organismi e governi, inclusi quelli definiti moderati, per convenzione (e interesse, bieco quanto corto di vedute). Così è successo alla recente, reclamizzatissima, Conferenza di Annapolis, dove l’organizzazione ha fatto salti mortali al limite del grottesco affinché, in nessuna circostanza, lo sguardo di un arabo si incrociasse con quello di un israeliano: il mondo arabo istituzionale colà presente è riuscito a far passare il messaggio secondo il quale il disprezzo razzista è una legittima forma di sensibilità religiosa che merita il dovuto rispetto.
Ed è contro tale atteggiamento cedevole, divenuto in diversi contesti, comportamento abituale che è intervenuto Bruce Bawer, statunitense, trasferitosi in Europa (Olanda) nel 1998, autore di un saggio che ha suscitato consensi, ma anche aspre critiche, "Mentre l’Europa dormiva" (While Europe slept. How radical Islam is destroing the West Within, chissà se e quando tradotto in italiano….) . In esso Bawer pone in evidenza come il c.d. "multiculturalismo" abbia consentito la diffusione a macchia d’olio in Europa del fondamentalismo islamico, un’ideologia che detta le proprie regole, vuol imporre la propria visione arretrata, ginofoba e antidemocratica del mondo, che si fa sempre più agguerrito, perché l’Europa (e non solo lei) indietreggia e si vergogna dei valori sui quali ha fondato la propria esistenza. Egli critica le politiche -praticate prima in Gran Bretagna poi diffuse in altri Paesi- fondate sul "comunitarismo", consistente nell’incoraggiare, all’interno della società, la costituzione di gruppi isolati, autorizzati a seguire le proprie norme, in definitiva anche in contrasto con la normativa statale. Il multiculturalismo ha preso il posto della libertà: ci si riempie la bocca dell’espressione Respect, ma in realtà si tratta di Mafia Respect.
Alle corte: la Sharia ha, di fatto, la meglio sull’ordinamento statale; tanto per fare un esempio, si chiudono gli occhi (e il cervello e il cuore) di fronte alla miseranda condizione delle donne mussulmane che vivono tra noi. E se qualcuno si permette di denunciare questi obbrobri, rischia di ritrovarsi, come Theo van Gogh, con la gola tagliata, magari ad opera di un giovane mussulmano, buona famiglia nonché ottimo olandese parlato e scritto. Lo scrittore mette anche in guardia contro il rischio di una reazione violenta da parte della destra xenofoba, com’è avvenuto in Svezia: la conseguenza sarebbe il fronteggiarsi di leader europei fascisti con islamici fascisti. Prospettiva poco consolante, davvero.
Fiamma Nirenstein ha poi dato la parola ai politici intervenuti al Convegno, la cui partecipazione ha significato appoggio ai dissidenti nella loro battaglia per l’affermazione dei valori democratici.
Capelli un po’ più lunghi di alcuni anni fa, una disinvolta sciarpetta color carta da zucchero, l’atteggiamento più spontaneo di quando era Primo Ministro della Spagna, Jose Maria Aznar, promotore con Vaclav Havel e Nathan Sharansky della Conferenza di Praga e firmatario dell’omonima Carta, in un perfetto italiano che non gli conoscevo, ha posto in luce il legame di interdipendenza tra la democrazia e la sicurezza in Europa e l’esigenza che questi valori vengano estesi là dove oggi sono negati ad opera delle dittature e dei gruppi terroristici, entrambi uniti nell’odio per la libertà. "Non si dialoga col terrorismo; l’appeasement non funziona mai" ha detto forte e chiaro, anche alla luce della notizia di un attentato terroristico, avvenuto poche ora prima in Algeria, che è costato la vita a circa 50 persone. "Dobbiamo rifiutare il complesso di colpa basato su un falso mito che vuole tutte le guerre e le catastrofi dovute all’Occidente, falso mito che ha portato insicurezza nei confronti dei nostri valori". Ha altresì espresso l’esigenza che l’Europa trovi l’unità anche sul piano militare; in questo senso la NATO è una forza di difesa della libertà. Egli infine ha ipotizzato che la terza sessione della "Conferenza di Praga"(definiamola storicamente così) si tenga nella capitale spagnola. Possiamo quindi augurarci "L’anno prossimo a Madrid"?
Sempre all’Europa si è riferito Gianfranco Fini, Presidente di Fare Futuro. L’Europa non deve rinunciare al suo ruolo, di protagonista politico e militare indispensabile sulla scena mediterranea, per garantire la difesa dei valori dell’Occidente, che sono valori universali perché hanno come punto di forza la centralità della persona umana.
In sintonia si è espresso Fabrizio Cicchitto (Vicecoordinatore nazionale di Forza Italia), il quale ha ricordato il legame tra la lotta dei dissidenti russi nei passati decenni e quella attuale nei Paesi mussulmani, senza far mancare accenti polemici nei confronti della maggioranza di governo, accusata di un certo opportunismo nei confronti delle dittature arabo/islamiche.
Un ruolo positivo delle forze di sinistra è stato invece rivendicato da Umberto Ranieri (diessino, Presidente della Commissione Esteri della Camera): "Promuovere la democrazia è interesse di tutti; il problema è ‘come’ " Egli ha dato un giudizio negativo sulla vicenda irachena, nonostante il miglioramento della situazione militare avvenuto grazie alla strategia adottata dal Gen. Petraeus. Indispensabile il sostegno ai dissidenti e alle forze democratiche, anche con l’istituzione di borse di studio per i giovani.
Lord David Trimble (Premio Nobel per la Pace 1998 per la pacificazione dell’Irlanda del Nord), infine, non ha mancato di rammentare, manifestando per questo un certo stupore, come una parte della sinistra radicale si sia schierata con l’Islam radicale; ciò perché essa non si identifica con l’Occidente ed ha così tradito la sua natura e la battaglia per la difesa dei diritti umani. Nonostante le gravi difficoltà, esprime un certo ottimismo sull’evolversi della situazione in Iraq.
*****
Al termine di questa importante Convegno si possono trarre alcune conclusioni, a mio avviso, significative.
La prima, per così dire, di carattere interno. Come notava Anna Borioni, in occasione dell’incontro di apertura con la stampa, la Conferenza, pure affollatissima di pubblico nelle diverse sessioni, si è svolta nell’indifferenza degli organi di informazione (tranne poche, lodevoli eccezioni). In particolare, è mancata la stampa di sinistra, quella che dovrebbe essere, per cultura e tradizione, più sensibile alla difesa dei diritti umani. Non starà commettendo, la sinistra tradizionale lo stesso errore del passato, quando riconobbe ben tardi, e a malapena, il valore dell’impegno profuso dai dissidenti russi (chiamati, ancora oggi, erroneamente "sovietici")?
La seconda conclusione concerne un aspetto strategico, sottolineato da Carlo Panella, in un severo articolo apparso su L’Occidentale il successivo 13 dicembre.
Il vero nodo del problema, nei Paesi islamici, egli scrive, non è tanto il "dissenso" quanto il "consenso" che le tirannie riscuotono presso la popolazione. Pensiamo, ad esempio, all’Iran (o, contesto assai diverso, all’Egitto, o la Siria, ecc) dove il regime riesce a contare su una solida base di consenso politico -un intervento militare esterno, temo, (ri)compatterebbe la popolazione attorno ai mullah, atteso il forte spirito nazionale di questo Paese-, tenuto anche conto che il populismo del welfare islamico distribuisce i profitti del petrolio a decine di milioni di iraniani sotto forma di reddito. O anche, per restare in tema, al successo ottenuto nelle lezioni parlamentari del gennaio 2006, da Hamas, grazie alla sua rete di servizi sociali, che Fatah non si sognava nemmeno di avere.
Quando Hamas ha realizzato il colpo di stato nella Striscia di Gaza (compiendo atrocità di ogni genere), nessuno, tra i palestinesi, ha protestato.
Inoltre l’Occidente non contribuisce certo alla presa di coscienza dei popoli. Alla Conferenza tenutasi una settimana fa a Parigi, la Banca Mondiale e 90 Paesi donatori (occidentali e non) hanno raccolto per i Palestinesi (ANP) la ragguardevole cifra di sette miliardi e mezzo di dollari. Sappiamo l’uso che Arafat e compagnia hanno fatto delle ingenti cifre ricevute nei decenni scorsi, in ordine alle quali è sempre stato ritenuto pacifico non chiedere un rendiconto. Se poi pensiamo che, mentre nel, mai riconosciuto dalla controparte, Stato di Israele, convivono, in dinamiche diverse, Ebrei e Arabi, il futuro Stato Palestinese sarebbe, diciamo, Judenrein. Non mi pare la strada giusta da percorrere.
A fonte delle problematiche accennate sopra, ma ve ne sono molte altre da sviscerare, è necessario aprire una fase di appassionato dibattito e di studio approfondito sulle radici di quel consenso che il totalitarismo islamista raccoglie in strati crescenti della Ummah.