novacella

 

23 LUGLIO, DOMENICA

 

Siamo di luglio, a Bologna, non alle Bahamas. Pure quest’anno il lavoro continua fino all’ultimo e, con esso, il caldo. Tuttavia, per le ferie, un programma minimo esiste da tempo.

Recarsi a Bressanone, o meglio nella vicina Abbazia di Novacella, presso il Centro Congressi, per seguire un corso residenziale sull’Europa – nascita della Comunità, spinte, ideali, soprattutto Storia-, il mattino; cultura europea, essenzialmente musicale, con Musica suonata dal vivo, nel pomeriggio e alla sera.

Quest’anno, 2017, cade il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma istitutivi della Comunità Economica Europea; come talora capita la celebrazione può far dimenticare, o almeno passare in sottordine, l’antefatto, cioè la vera nascita dell’Europa Comunitaria. Fa pensare che, dopo la tragedia della guerra, ci si sia impegnati per una diversa Europa, pacifica e solidale, riconoscendo la propria storia e scorgendo il contributo fondamentale che essa ha dato alle vicende delle singole Nazioni che via via sono entrate a farne parte. Perché questo stupore? Perché simile riflessione, oggi come oggi, è inimmaginabile, a causa della mediocrità delle attuali classi dirigenti, non solo politiche, incapaci di meditare sulla propria identità perché vi si preferisce un globalismo insipido e comodo, buono per tutto e tutti, privo di valori solidi. Quindi aperto alle forze esterne distruttrici, delle quali volutamente se ne ignora la pericolosità per ragioni che sarebbe lungo spiegare.

Si parte l’ultima settimana di luglio, praticamente di colpo. Mauro ed io prepariamo le valige con sollecitudine lo stesso giorno della partenza, che, per questa ragione, avviene alle 15, non proprio nel fresco del mattino, come avrebbero saggiamente fatto i nostri genitori.

D’altronde, nei giorni precedenti, prima che alla preparazione dei bagagli, c’era da organizzare il viaggio stesso.

Infatti, dopo il corso di Bressanone, desideriamo ardentemente far visita a Marco, nostro figlio minore, che vive e lavora a Lussemburgo.

Io ora sto bene, ma in primavera, quando avevamo progettato di andare a trovarlo, non lo era stata per niente (dolorosi calcoli renali). E così era stato Marco che, nei giorni pasquali, preoccupato per la salute della mamma, era venuto a trovarci, insieme con la fidanzata Natalia, sobbarcandosi un laborioso viaggio in auto, proprio in uno dei periodi più affollati dell’anno.

Ora, un po’ di tempo ce lo abbiamo e quindi dobbiamo -e vogliamo con tutto il cuore- ricambiar loro la visita; anche se Lussemburgo, da Bressanone, non è dietro l’angolo, ma richiede un percorso alpino, in Austria e in Svizzera, e poi verso i Vosgi e le Ardenne, in Alsazia e Lorena.

Infine, ultimo ma non meno importante, un po’ prima di Ferragosto, si inaugura il Festival Musicale di Lucerna, che si trova al centro della Svizzera.

Da tempo desidero parteciparvi, sia perché, com’è noto, amo la Musica, sia per l’importanza e il livello della Luzern Festival Orchestra, il quale, tra l’altro, ha legami con grandi, suggestivi, Direttori, stranieri e nostri; fra questi ultimi, prima della guerra, Arturo Toscanini e, in tempi assai più recenti, Claudio Abbado. Ed ora, Riccardo Chailly. Ne parlerò in modo compiuto a tempo debito.

Contagiato da mio entusiasmo, Mauro si associa.

Quindi….che si fa? Dopo il Lussemburgo, da cui, per gli accordi con Marco, non si potrà restare, in pratica, oltre la prima settimana di agosto, si torna a Bologna e poi si va a Lucerna? O invece, dato che la via del ritorno passa comunque dalla Svizzera, e questa città è proprio al centro del Paese, facciamo anche di Lucerna una tappa del nostro viaggio? L’ultima tappa, alla fine di una settimana, la seconda di agosto?

E se sarà così, il mio eroico consorte riuscirà a resistere alla guida, poiché, opsss!, è il solo a praticarla?

La fortuna aiuta gli audaci e le mete sono molto attraenti; inoltre abbiamo bisogno di una pausa. Troppo faticoso tornare a casa dopo una settimana stiracchiata; anche se a Bologna, d’agosto, generalmente non si sta male.

Generalmente; quest’anno è un caldo pazzesco, che fa davvero pensare al surriscaldamento del pianeta, e il nostro tour europeo, perlopiù tra i monti, ci eviterà il peggio.

Alla fine, dunque, richiamato il detto proverbio latino, forti dell’ “osare” dannunziano e mentalmente incrociate le dita, è questo, della tappa a Lucerna, il partito che prevale. E quindi il nostro programma di vacanze da minimo (una settimana a Bressanone) diventa massimo: tre settimane, prima lì e poi in giro per la vicina Europa.

Naturalmente, per dar corpo al viaggio, ci vuole la costanza e lo spirito organizzativo di chi scrive. A pochi giorni dalla partenza scovo e prenoto, on line, un albergo in Alsazia. Poi si metto in contatto con un altro, dove già siamo stati, a Verdun, in Lorena. Soprattutto, mi metto alla caccia di un albergo a Lucerna, che ci occorre per ben sei giorni. E questa città, lo sappiamo per esperienza diretta, d’estate è affollatissima; come vedremo anche questa volta, letteralmente presa d’assalto dai turisti.

Soppesate diverse opzioni, anche nei dintorni, ed esperiti diversi tentativi, trovo libero, proprio per quel periodo, un albergo rimesso a nuovo, nel pieno centro della città vecchia, in un vicoletto (denominato Suesswinkel, “dolce angolo”), accessibile in auto solo per il carico e lo scarico dei bagagli. Non è certo regalato, ma per la Svizzera non c’è male. Non ha il garage, ma ci arrangeremo (a caro prezzo!).

Dulcis in fundo resta da prenotare, e fare i biglietti on line, per il concerto di apertura della Luzern Festival Orchestra, con musiche di Richard Strauss e direzione del nostro Riccardo Chailly. Si terrà presso il moderno edificio del KKL (Kultur und Kongresszentrum Luzern) progettato dall’Arch. Jean Nouvel, proprio in faccia al lago.

La cosa non è tra le più semplici. Compaiono sul sito del KKL diverse piante e prospetti dell’Auditorium, con poltrone in gran parte prenotate. I posti più a buon mercato, si fa per dire, sono già andati tutti via. Ne restano, alla fine, solo alcuni sul secondo palco, proprio sopra l’orchestra -quindi in sé non male- per la cifra non precisamente popolare di 240 franchi svizzeri l’uno (il franco vale poco meno di un euro).

Dopo alcuni tentativi -le lingue più accessibili sono il francese e l’inglese; l’italiano, benché lingua ufficiale della Confederazione, non c’è; e il francese, che pure ci è abbastanza familiare, a volte, per i dettagli pratici, è più oscuro dell’inglese!- riusciamo a “occupare” due posti vicini; e infine, nel nervoso turbinio delle nostre carte di credito, a passare alla fase dei conti.

A questo punto compare una sola lingua, il Tedesco, con lessico strettamente commerciale. Ahi, ahi….ci fosse l’amica berlinese Corina, qui con me….

Una botta inaspettata, anche se, con la forza della disperazione, e per mezzo dell’intuito, ci sforziamo di capire. E intuiamo che si preannunzia la confezione del biglietto, salve alcune battute finali.

Con una certa trepidazione -la paura di buttar via 480 franchi svizzeri, cioè quasi 500 euro, in un sol colpo, non è da poco; accidenti a quelli che già i nostri maestri del diritto chiamavano i “contratti per automatico”, come Mauro tante volte mi ha raccontato-. Osiamo fino in fondo e voilà (come direbbe Macron) alla fine i biglietti sono fatti e stampati, con il loro insostituibile codice a barre, su buona carta A4.

Abbiamo speso un sacco di soldi per una sola sera; ma, crepi l’avarizia, la procedura on line, complessa, articolata e plurilingue, è andata bene. Abbiamo superato l’esame. Questo è l’essenziale. Possiamo partire!

 

In un caldissimo pomeriggio si imbocca l’Autostrada per Modena e poi per il Brennero; ma giunti dalla pianura in mezzo alle montagne, e di più da Bolzano, la temperatura comincia a diminuire. Ci concentriamo sugli ultimi metri dell’Everest e, verso le sette, giungiamo a Bressanone e, poco dopo, a Novacella-Neustift.

Il tempo di parcheggiare e scendere dall’auto per capire subito che il grande caldo ce lo siamo lasciato alle spalle, in città. Del resto siamo proprio nelle Alpi, a circa 600 metri di altitudine. Stanotte si dormirà.

Percorriamo a piedi un po’ di strada e, superata la bianca e rotonda mole del Castel dell’Angelo (Engelsburg), posto come a presidio, entriamo nel cortile principale del complesso edificio, quasi una cittadella, ben fortificata, che ospita il Convento dei Canonici Regolari di S.Agostino (Augustiner Chorherrenstiftung), appartenente alla più generale Congregazione Lateranense Austriaca dei detti Canonici.

Trattasi di una singolare istituzione religiosa costituita da preti (con cura d’anime nei dintorni) e non da monaci; peraltro preti “regolari” e cioè viventi in convento e sottoposti ad una “regola” e ad un Abate, come i monaci, e non “secolari”, cioè residenti per conto proprio e non soggetti ad una regola, ma al vescovo, come gli altri preti.

Novacella-Neustift ha quasi novecento anni, essendo stata fondata nel 1142 dal Vescovo di Bressanone, Hartmann. E da quei tempi è giunta fino a noi, quasi in assoluta continuità, con la chiesa (ora tardo-barocca) ed il campanile romanico, il chiostro, la stupenda biblioteca, il giardino storico -che via via vedremo-; l’attuale convitto scolastico e l’importante Centro Congressi; nonché con il suo celebre ed apprezzato vino -che assaggeremo e poi acquisteremo-, prodotto nei dintorni.

Molto legata all’Austria e agli Asburgo, non fu mai presa dai Turchi; ma, come molte abbazie in Europa, fu soppressa ed espropriata, a seguito della abolizione degli ordini religiosi -voluta dalla Rivoluzione Francese e attuata da Napoleone, , ad opera del governo bavarese, nel 1807. Alla Baviera infatti, sotto l’influenza e con l’appoggio napoleonico, era stato allora annesso il Tirolo.

Del resto ancora, da quelle parti –da noi frequentate quando i figli erano ragazzi e vi si andava in occasione delle Settimane bianche invernali o nel mese di agosto per compiere lunghe escursioni tra i boschi- da quelle parti, dicevo, ci si ricorda delle prepotenze dei soldati francesi, alleati dei bavaresi, che non mancarono di fucilare sul posto diversi patrioti locali, a cominciare da Andreas Hofer; proprio in questo Tirolo del sud, territorio che, con l’annessione successiva alla prima guerra mondiale, chiamiamo Alto Adige.

Seguita poi la riunificazione del Tirolo all’Austria, l’Abbazia fu ripristinata e reinvestita dei suoi beni e diritti, con editto dell’Imperatore Francesco I, nel 1816.

Bene. Entriamo nel complesso dell’Abbazia, rigorosamente pedonalizzato -le valige ce le dobbiamo portare a mano; ma, in compenso, il traffico e il chiasso, fortunatamente, sono solo un ricordo- e guadagniamo il cortile principale.

In questo cortile, al centro, c’è il pozzo delle sette meraviglie del mondo antico. Il pozzo, o meglio il baldacchino che lo sormonta, è ottagonale e quindi, nei suoi riquadri, c’è un’ottava meraviglia……… l’Abbazia stessa! Da un lato, ecco l’entrata al Centro Congressi, con foresteria.

Già sulla porta troviamo Silvia (Alberani), il nostro angelo custode che, con la sua associazione (Nuova Associazione Culturale Accademia) collegata al Centro S. Domenico di Bologna, rappresentato anche questa volta dal Direttore, Padre Giovanni (Bertuzzi), ci indirizza e ci guida ad una camera, posta nella torre (Turm, la terminologia interna è solo tedesca, anche se tutti gli addetti parlano bene italiano).

Ci sistemiamo e poi scendiamo per la cena, questa sera, per praticità a self service ; cena gradevole, allietata da ottimo vino dell’abbazia, nella fattispecie una bottiglia dell’aromatico, bianco Gewuerztraminer.Vino che evoca una piacevole settimana trascorsa da noi due a Merano, in inverno, tanti anni fa: fu allora che scoprimmo questo nettare meraviglioso, il cui profumo è parte integrante della nostra vita.

E oggi, la simpatica vicinanza dello stesso Padre Giovanni e di una matura signora, che, con un suo lieve accento slavo, non si sottrae a una piccola conversazione con noi, unitamente al fatto che il viaggio è ormai alle spalle, ci fanno ancora una volta apprezzare il vino.

La signora, come si apprende, si chiama Danuta e, pur vivendo da tanto tempo a Roma, è slovacca e ben ricorda l’esperienza del suo connazionale Alexander Dubcek, culminata nei drammatici avvenimenti di Praga del 1968, a suo tempo vissuti anche da noi con tanta trepidazione. Del resto domani si parlerà di recente storia europea.

Dal pian terreno, dove si svolge la cena, risaliamo al primo piano. Si può farlo in diversi modi: per ascensore, armonicamente realizzato all’interno, o per le scale, interne o esterne. Detto primo piano è caratterizzato da un lungo corridoio, con ritratti degli Abati alle pareti. Al centro una bella, maestosa sala delle conferenze, perfettamente restaurata nei suoi stucchi e decori di piacevole sapore settecentesco.

Ivi ci riuniamo, noi “corsisti”, oltre 40, in maggioranza relativa di Bologna, ma pure di tutte le altre parti d’Italia, nord, centro e sud; conosciamo, o riconosciamo, i nostri intrattenitori -lo storico Prof. Giampaolo Venturi e i due maestri di musica Massimo Guidetti, pianista, e Giacomo Tesini, violinista -; quindi mettiamo a punto il programma della settimana.

Cominciamo così a entrare nella singolare atmosfera del corso e pure a prendere confidenza con l’edificio che ci ospita; un edificio davvero ben restaurato e reso funzionale con tutti i moderni impianti, inclusi eccellenti e comodi servizi igienici, sagacemente sparsi ovunque.

E’ proprio una pregevole struttura che, soprattutto in questa parte, oggi adibita a Centro Congressi, richiama un mondo ordinato, luminoso, figlio di quella stessa armonia di cui abbiamo goduto due anni fa durante la visita alle grandi abbazie benedettine poste in Austria Inferiore, lungo il Danubio. Göttweig, vicino a Krems, Melk (richiama il monaco Adso, uno dei protagonisti de Il nome della rosa di Umberto Eco) o Sankt Florian, legato alle immortali sinfonie di Anton Bruckner -ben noto a Papa Ratzinger-. Autore da me scoperto di recente, che i soliti incompetenti archiviano in modo sbrigativo sotto l’etichetta superficiale di “tardo romantico”.

 

Nel breve incontro introduttivo Giampaolo confessa di essere da diversi anni impegnato a far conoscere l’Europa nel mondo della scuola (media superiore): per giungere a ciò peraltro è necessario avere una coscienza profonda di questa realtà, conoscerne le origini e la Storia, che parte da lontano.

Giacomo riflette: il tema Europa, così affascinante e di forte attualità, non mi allontana dall’universalità del linguaggio musicale, pur nella peculiarità di una cultura rispetto ad un’altra. Lo vedremo nei prossimi giorni, allorché ci avvicineremo ad illustri Autori, suddivisi secondo il Paese del quale, al mattino, ci occuperemo dal punto di vista storico.

Un aneddoto personale. Il nostro violinista non è, come talvolta capita ai musicisti (ma non solo, beninteso), figlio d’arte: né i genitori, né nonno Giancarlo hanno praticato questa sublime disciplina, protetta dalla musa Euterpe; è stato proprio Giacomo ad inaugurare la tradizione in famiglia. Amore folgorante allorché, ragazzino, udì suonare La Moldava, poema sinfonico composto nel 1874 dall’illustre boemo Bedřich Smetana, facente parte del ciclo sinfonico Mà vlast (la mia Patria) [1]. Come dargli torto? Se ti lasci trasportare dalle sue note meravigliose, vedi le campagne, le vastità d’orizzonti dell’Europa orientale, la scenografica Praga, mentre riecheggia, come tema principale, il motivo conduttore che diverrà l’inno nazionale di un grande Paese, figlio (anche) del nostro continente: Israele con il suo Hatikvah, La Speranza; interessante conoscerne la genesi.

Da Giacomo hanno preso esempio i tre fratelli minori, nonché la sorella, Maria Giulia: viola, violoncello, ancora violino, a seconda delle predisposizioni di ciascuno.

Massimo, a sua volta, dichiara di aver colto l’universalità della Musica allorché, giovanissimo, si è avvicinato allo studio del pianoforte. Musica occidentale, premette; poiché arabi, cinesi, indiani partono da presupposti diversi e di conseguenza intraprendono e vivono percorsi diversi.

Esempio tipico di espressione ed organizzazione, se così si può dire, della Musica occidentale è la cosiddetta “Forma sonata”, uno dei padri spirituali della quale è, com’è noto, Johann Christian Bach (Lipsia, 5 settembre 1735 / Londra, 1 gennaio 1782), undicesimo figlio di Johann Sebastian e della moglie Anna Magdalena (la seconda, nata Wilcke; la prima era la parente Barbara); insomma, per capirsi, il cosiddetto Bach “inglese”. Nei prossimi giorni svilupperemo meglio l’argomento.

Anche se va detto, aggiunge sorridendo ironico dietro gli occhiali Massimo, che i grandi Autori hanno sempre usato la “Forma sonata” secondo le loro esigenze compositive; adattandola e…tirandola a seconda delle circostanze artistiche. Un esempio per tutti: Ludwig van Beethoven.

Ci salutiamo dandoci appuntamento per l’indomani.

Con Mauro facciamo una breve passeggiata all’esterno. Nel buio, le sagome degli edifici, i boschi e i monti all’intorno acquistano un nitore sorprendente. Atmosfera magica, volta celeste che pare abbracciarci… Fresca pace dopo la calura del giorno.

Appena all’esterno dell’Abbazia, ecco il rustico, ma confortevole Hotel Brückenwirt (o Al Ponte, se preferite), a lato del ponte sul ruscello. Immagino che vi si soggiorni e  mangi da re.

Rientriamo all’interno del nostro complesso. Angoli arricchiti da piante in vaso, di specie diverse. Ascoltare il Silenzio, lo so, è il viatico più degno per la Musica.

In lontananza, il breve, festoso abbaiare di un cane.. Qui vicino, il gocciolare di una fontana.

All’improvviso, una visione due passi avanti a noi. I due musicisti, sbucati da chissà dove, camminano rapidi chiacchierando fitto tra loro nella notte.

 

 

24 LUGLIO, LUNEDI’

Festosa prima colazione nella grande sala, sorta di simpatico refettorio.

Presentazioni, saluti a persone conosciute che non vedevi da anni…..Un clima per così dire scolastico, ma caldo, privo di quell’alone doveristico tipico degli anni di studio.

Giacomo è con tutta la famiglia. La moglie, Erica, molto graziosa, con l’accento veneto, il sorriso dolce e rassicurante, un tipo, come si diceva un tempo, acqua e sapone; i figli, Teresa, quattro anni, e Pietro, due, non stanno fermi un attimo. Come la maggior parte dei giovani padri di oggi, Giacomo si china su di loro, li aiuta a districarsi tra latte, brioche e biscotti; poi, quando hanno terminato, si alza da tavola, acchiappa il piccolo e se lo prende quasi sottobraccio con un gesto caratteristico che, in questa settimana, gli vedrò compiere a più riprese, suscitando in me infinita tenerezza. A breve distanza da loro, Massimo, atteggiamento da fratello maggiore, osserva compiaciuto.

Mi avvicino e, dopo alcune frasi di circostanza, comunico al nostro violinista che saremo all’inaugurazione del Festival di Lucerna, l’11 agosto prossimo.

“Benissimo! Così saremo in…famiglia. Noi, dopo Bressanone, andremo per qualche giorno dai suoceri vicino a Venezia; indi ci trasferiremo a Lucerna dove sarò impegnato nell’Orchestra del Festival”.

Ricordiamo insieme “quel” l’ultimo concerto di Claudio Abbado, il 26 agosto 2013. Incompiuta di Schubert e Nona di Bruckner; non c’è il filmato, ma, all’interno del CD, due immagini fotografiche da brivido. Il Direttore, eroico nella sofferenza, riesce a sorridere al pubblico.

Non c’è aria di festa attorno, bensì di dolore; lo vedi nelle espressioni di Raphael (Christ) e di Giacomo. Commossi e addolorati.

“Una serata molto triste” mormora quest’ultimo. Gli accarezzo il viso.

 

E’ ora di iniziare.

 

Cominciamo il corso, intitolato Europa: le molte Nazioni di un solo Paese. Un percorso storico e musicale.

Il nostro relatore del mattino, cioè il Prof. Giampaolo Venturi, ci intrattiene amabilmente e, così, riesce a suggerirci tanti punti di riflessione, su problemi pure gravi e complessi, con sapienza ed equilibrio.

Dal canto mio, vedrò di enuclearne i punti salienti, oggi come nei prossimi giorni. Chi avrà la pazienza di leggermi potrà sviluppare, secondo le proprie convinzioni, le diverse problematiche.

Qual è, nel recente passato, lo stato di salute dell’Europa?

Quello di chi ha contratto una malattia grave, costituita dalla II guerra mondiale. Malattia così grave che da essa, se non si muore, è possibile solo risalire.

Nel 1945 l’Europa è impoverita e in ginocchio. Le distruzioni belliche sono state enormi. Ad es., per effettuare lo sbarco in Normandia, gli alleati avevano provveduto a distruggere tutte le locomotive della regione.

Umanamente, poi, domina un clima di risentimento, anzi di odio.

Tuttavia i padri fondatori dell’odierna Comunità – come via via meglio ricorderemo: Robert Schuman e Jean Monnet per la Francia; Konrad Adenauer per la Germania e Alcide De Gasperi per l’Italia – distinguono tra governi e nazioni. E hanno un bagaglio culturale ed una profondità eccezionali.

Essi colgono che tutte le nazioni europee, fino agli Urali, hanno relazioni fondamentali ed elementi comuni, più evidenti nei territori di confine, come, ad es., l’Alsazia-Lorena, il Lussemburgo (dove gli studenti in terza media parlano correntemente almeno due lingue) o la Wielkopolskie, a confine con la Germania[2]

Ne è riprova, da ultimo, la particolare collaborazione stabilitasi nell’ambito di territori vasti, tra regioni confinanti, come la c.d. “Alpe Adria”, che si estende dal Danubio all’Adriatico, in Baviera, nel Veneto, in Slovenia, in Croazia e in altre regioni ancora.

A proposito di Robert Schuman, del quale speriamo di vedere, almeno dall’esterno, la casa a Lussemburgo, non si può far a meno di citare la dichiarazione, nota come il “Discorso dell’orologio”, così detta perché pronunciata da lui il 9 maggio 1950 nella sala dell’Orologio del Ministero degli Esteri francese, in Quai d’Orsay n. 37.

In essa si prospetta la creazione di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio, i cui membri avrebbero messo in comune queste due rilevanti produzioni.

La CECA (Paesi fondatori: Francia, Germania occidentale, Italia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo) è stata la prima di una serie di istituzioni europee sovranazionali che avrebbero condotto a quella che si chiama oggi “Unione europea”.

Come ho scritto sopra, nel 1950 le nazioni europee cercavano ancora di risollevarsi dalle conseguenze devastanti della Seconda Guerra Mondiale, conclusasi cinque anni prima.

Determinati ad impedire il ripetersi di un simile terribile conflitto, i governi europei giunsero alla conclusione che la fusione delle produzioni di carbone e acciaio avrebbe fatto sì che una guerra tra Francia e Germania, storicamente rivali, diventasse -per citare Robert Schuman- “non solo impensabile, ma materialmente impossibile”.

Si pensava, giustamente, che mettere in comune gli interessi economici avrebbe contribuito ad innalzare i livelli di vita e sarebbe stato il primo passo verso un’Europa più unita. L’adesione alla CECA era aperta ad altri Paesi.

Ecco il Testo integrale

“La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano.

Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche. La Francia, facendosi da oltre vent’anni antesignana di un’Europa unita, ha sempre avuto per obiettivo essenziale di servire la pace. L’Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra.

L’Europa non potrà farsi una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto. L’unione delle nazioni esige l’eliminazione del contrasto secolare tra la Francia e la Germania: l’azione intrapresa deve concernere in prima linea la Francia e la Germania.

A tal fine, il governo francese propone di concentrare immediatamente l’azione su un punto limitato ma decisivo.

Il governo francese propone di mettere l’insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune Alta Autorità, nel quadro di un’organizzazione alla quale possono aderire gli altri Paesi europei.

La fusione della produzioni di carbone e di acciaio assicurerà subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico, prima tappa della Federazione europea, e cambierà il destino di queste regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime.

La solidarietà di produzione in tal modo realizzata farà si che una qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile. La creazione di questa potente unità di produzione, aperta a tutti i paesi che vorranno aderirvi e intesa a fornire a tutti i paesi in essa riuniti gli elementi di base della produzione industriale a condizioni uguali, getterà le fondamenta reali della loro unificazione economica.

Questa produzione sarà offerta al mondo intero senza distinzione né esclusione per contribuire al rialzo del livello di vita e al progresso delle opere di pace. Se potrà contare su un rafforzamento dei mezzi, l’Europa sarà in grado di proseguire nella realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano. Sarà così effettuata, rapidamente e con mezzi semplici, la fusione di interessi necessari all’instaurazione di una comunità economica e si introdurrà il fermento di una comunità più profonda tra paesi lungamente contrapposti da sanguinose scissioni.

Questa proposta, mettendo in comune le produzioni di base e istituendo una nuova Alta Autorità, le cui decisioni saranno vincolanti per la Francia, la Germania e i paesi che vi aderiranno, costituirà il primo nucleo concreto di una Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace. Per giungere alla realizzazione degli obiettivi così definiti, il governo francese è pronto ad iniziare dei negoziati sulle basi seguenti.

Il compito affidato alla comune Alta Autorità sarà di assicurare entro i termini più brevi: l’ammodernamento della produzione e il miglioramento della sua qualità: la fornitura, a condizioni uguali, del carbone e dell’acciaio sul mercato francese e sul mercato tedesco nonché su quelli dei paese aderenti: lo sviluppo dell’esportazione comune verso gli altri paesi; l’uguagliamento verso l’alto delle condizioni di vita della manodopera di queste industrie.

Per conseguire tali obiettivi, partendo dalle condizioni molto dissimili in cui attualmente si trovano le produzioni dei paesi aderenti, occorrerà mettere in vigore, a titolo transitorio, alcune disposizioni che comportano l’applicazione di un piano di produzione e di investimento, l’istituzione di meccanismi di perequazione dei prezzi e la creazione di un fondo di riconversione che faciliti la razionalizzazione della produzione. La circolazione del carbone e dell’acciaio tra i paesi aderenti sarà immediatamente esentata da qualsiasi dazio doganale e non potrà essere colpita da tariffe di trasporto differenziali. Ne risulteranno gradualmente le condizioni che assicureranno automaticamente la ripartizione più razionale della produzione al più alto livello di produttività.

Contrariamente ad un cartello internazionale, che tende alla ripartizione e allo sfruttamento dei mercati nazionali mediante pratiche restrittive e il mantenimento di profitti elevati, l’organizzazione progettata assicurerà la fusione dei mercati e l’espansione della produzione.

I principi e gli impegni essenziali sopra definiti saranno oggetto di un trattato firmato tra gli stati e sottoposto alla ratifica dei parlamenti. I negoziati indispensabili per precisare le misure d’applicazione si svolgeranno con l’assistenza di un arbitro designato di comune accordo : costui sarà incaricato di verificare che gli accordi siano conformi ai principi e, in caso di contrasto irriducibile, fisserà la soluzione che sarà adottata.

L’Alta Autorità comune, incaricata del funzionamento dell’intero regime, sarà composta di personalità indipendenti designate su base paritaria dai governi; un presidente sarà scelto di comune accordo dai governi; le sue decisioni saranno esecutive in Francia, Germania e negli altri paesi aderenti. Disposizioni appropriate assicureranno i necessari mezzi di ricorso contro le decisioni dell’Alta Autorità.

Un rappresentante delle Nazioni Unite presso detta autorità sarà incaricato di preparare due volte l’anno una relazione pubblica per l’ONU, nelle quale renderà conto del funzionamento del nuovo organismo, in particolare per quanto riguarda la salvaguardia dei suoi fini pacifici.

L’istituzione dell’Alta Autorità non pregiudica in nulla il regime di proprietà delle imprese. Nell’esercizio del suo compito, l’Alta Autorità comune terrà conto dei poteri conferiti all’autorità internazionale della Ruhr e degli obblighi di qualsiasi natura imposti alla Germania, finché tali obblighi sussisteranno”.

 

Una sola domanda, fra me e me: possibile aver fatto così giganteschi passi indietro, anzitutto nello spirito davvero illuminato e democratico che animava i Padri Fondatori?

 

Uno spirito, anzi: uno Spirito che, tra l’altro, poggiava su tre principi fondamentali: Grecità, Romanità, Cristianità. E, mi permetto di aggiungere: Ebraicità. Non spreco parole su come tali principi di Civiltà verrebbero accolti, nell’attuale misera Europa, da politici, sedicenti persone di cultura; e, ahimé, tanti comuni cittadini che non possiedono più né Storia, né Memoria, bensì solo un indistinto e piatto “Oggi”, materialista, condito di vago ambientalismo all’insegna di quanto la moda spaccia per verità assoluta, ossessionato da sensi di colpa senza costrutto; e falsamente solidale nella propria monumentale ipocrisia.

Andiamo avanti.

A proposito di Cristianità va ricordato, sottolinea Giampaolo, l’importanza dell’Ordine benedettino nella costruzione dell’Europa. Tappe comuni nella diversità delle Nazioni, ma unità di fondo.

Dunque, dopo la CECA (18 aprile 1951, Parigi), operazione peraltro assai complessa, nel 1953, su impulso di Alcide De Gasperi, si tentò di costituire la CED, Comunità Europea di Difesa; tentativo andato a monte per l’opposizione francese (e ti pareva….).

Si arrivò al Trattato di Roma del 1957 soprattutto grazie all’impulso del BENELUX [3].

 

Pomeriggio, in compagnia dei musicisti.

Giampaolo, si siede in fondo alla sala, con l’atteggiamento di chi non si perderà una battuta, o meglio: una nota.

Veniamo introdotti al tema -Musica in FRANCIA – da una danza seicentesca chiamata Forlane [4].

Giacomo ci intrattiene su Autori appartenenti ad epoche diverse, ma collegati da un misterioso filo rosso.

Pensiamo, ad esempio, per un verso: a Jean-Baptiste Lully (ben conosciuto da Giacomo Puccini) nato Giovanni Battista Lulli, (Firenze, 28.11.1632 / Parigi, 22.3.1687), compositore, ballerino (come il Re Sole) e strumentista italiano naturalizzato francese.

Trascorre gran parte della sua vita alla corte di Luigi XIV, ottenendo, nel 1661, la naturalizzazione francese. Interessante leggerne la curiosa biografia.

Lully ha esercitato una considerevole influenza sullo sviluppo della musica francese. Molti Autori, fin dal 1700, fanno riferimento alla sua opera. Pensiamo a Henry Desmarest o Jean Philippe Rameau.

Una figura di notevole rilievo è pure François Couperin (Parigi, 10 novembre 1668 / Parigi, 11 settembre 1773), compositore, clavicembalista, organista.

In breve. Anche se l’ascesa musicale è caratterizzata, all’inizio, da incarichi di organista, la sua carriera è determinata soprattutto dalla sua attività di clavicembalista e dalle sue suites denominate Ordres che lo fanno apprezzare dai suoi contemporanei; al punto da divenire un musicista imitato, non solamente dai francesi, ma anche da tedeschi e belgi. Ancora oggi viene considerato, insieme a Bach e Scarlatti, come uno dei più proficui clavicembalisti di tutti i tempi. Diviene il maestro preferito della nobiltà parigina, insegnando il clavicembalo a numerose personalità della società francese dell’epoca. Protetto dagli esponenti della famiglia reale e da altri illustri mecenati (tra cui il principe di Condé), riveste importanza come compositore e didatta, e come interprete delle sue musiche clavicembalistiche. La carica di clavicembalista reale (“ordinaire du roi pour le clavecin”, o “musicista ordinario del re per il clavicembalo”) è tuttavia assegnata al musicista Jean-Baptiste d’Anglebert (figlio del famoso Henry), che Couperin, tuttavia, sostituisce sempre più spesso a corte.

Nel corso degli anni si trova a cambiare abitazione diverse volte, ma resta sempre a Parigi non volendo saperne di trasferirsi a Versailles, sede della Corte.

Ha quattro figli: due maschi e due femmine. Muore a Parigi nel 1733.

Giacomo, mentre ricorda come Couperin, al contrario di altri (!), non disprezzi affatto la tradizione italiana -amava Arcangelo Corelli, ad esempio-, sofferma la sua attenzione sui cosiddetti Concerts royaux (concerti reali), termini col quale si intende un insieme di quattro suites orchestrali.

Esse furono composte da Couperin tra il 1714 e il 1715 alla corte di Luigi XIV (donde l’aggettivo di “reali”), seguendo la passione, allora in voga, per i concerti cameristici. Furono pubblicate nel 1722, senza indicazioni per la strumentazione. Questo comporta notevole libertà espressiva: lo stesso brano infatti può essere eseguito sia da un clavicembalo solista che da un’orchestra formata da uno strumento per il basso (continuo), un violino, una viola, un oboe o un flauto. La raccolta fu ampliata un decennio dopo coi Nouveaux Concerts (Concerti nuovi), sottotitolo Les Goûts réunis (I gusti riuniti), indicante gli stili francese e italiano.

Ogni concerto è composto da un preludio e da una successione di danze secondo l’ordine tradizionale (allemanda, courante, sarabanda e altre danze).

Dall’altro verso. Nel 1915, Maurice Ravel, volontario nella Grande Guerra, scrive un brano in cui riprende la tradizione della Forlane. Esso s’intitola Le Tombeau de Couperin [5]

Iniziato nel 1914 come tributo all’illustre compositore barocco e terminato nel 1917, è dedicato anche ai diversi amici morti in guerra -alla memoria di ciascuno è intitolato un movimento-.

Ne ascoltiamo una parte nell’interpretazione della London Symphony Orchestra, diretta da Claudio Abbado (notevole pure un’altra direzione, quella di Pierre Boulez).

Precisazione. Non dispongo ancora di un hi-Phone, il magico strumento col quale si possono effettuare i filmati. Quindi tutta la Musica che ascolteranno i miei pazienti -e spero motivati- lettori è tratta da esecuzioni presenti sul web che ho scelto con cura; purtroppo non sono in grado di riversare sul mio Diario quanto goduto durante il presente viaggio ad opera dei nostri due Maestri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La parola a Massimo.

Due personalità di grande spessore e con tratti biografici accostabili sono Claude Debussy e Francis Poulenc: il primo lo riferiamo alla Ia Guerra Mondiale, il secondo alla IIa Guerra Mondiale.

Brevissime note, dalle quali nasce l’esigenza di approfondimento su vita e opere di entrambi.

Claude Debussy nasce a S. Germain en Laye il 22 agosto 1862 e muore a Parigi il 25 marzo 1918.

Figlio di genitori ricchi, poi divenuti poveri, nel 1872 entra al Conservatorio nazionale superiore di Musica e Danza di Parigi studiando il pianoforte con Antoine Marmontel e composizione con Ernest Guiraud. In seguito alla vittoria del prestigioso Prix de Rome nel 1884 per la cantata L’enfant prodigue, soggiorna nella capitale italiana tra il 1885 e il 1887 entrando in contatto con la musica di Pierluigi da Palestrina, alla quale si appassiona.

Notevole influenza su di lui hanno pure i soggiorni a Bayreuth, il regno wagneriano, (1890 – 1891), nonché l’ascolto delle musiche di Gamelan di Giava. Debussy è considerato come uno dei principali esponenti del cosiddetto “Impressionismo musicale”, anche se egli ne negò l’appartenenza, nonostante le chiare influenze simboliste di Verlaine e Mallarmé.

Debussy muore per un cancro il 25 marzo 1918 (otto mesi prima che la vittoria venga dichiarata), mentre l’esercito tedesco bombarda la città con un cannone a lunga gittata chiamato Parisgeschütz (cannone di Parigi). A Debussy non vengono subito tributati grandi onori funebri perché, alla sua morte, la situazione della Francia è ancora critica.

Nel 1914 egli è stanco, anziano, ammalato; ovviamente non può arruolarsi volontario e ciò lo addolora. L’unico modo di contribuire alla causa nazionale è, per lui, far rinascere la grande scuola francese, “distrutta” da Wagner. Compone allora 6 Suonate per 6 strumenti diversi (Arpa, Violino Viola, Flauto, Violoncello, Pianoforte).

Un aneddoto significativo. In occasione dell’Esposizione Universale di Parigi del 1899 il pubblico fa la conoscenza di una Musica insolita, lontana dalle musiche europee cariche di pathos e suonata da un’orchestra di strumenti che provengono dall’isola di Bali, compreso il gong.

Dopo aver ascoltato questo brano Debussy ne compone una serie: il primo ha il suggestivo nome di Pagodes. Un po’ sul serio, un po’ per scherzo il nostro Massimo ci dice che se del pianoforte usiamo solo i tasti neri, otteniamo un sorta di effetto “esotico”. Dimostrazione pratica: è vero!

Per non esser da meno di Debussy, Ravel comporrà, alcuni anni dopo (1908), L’imperatrice delle pagode, un brano inserito in Ma Mère l’Oye (Mamma oca), una suite originalmente composta per pianoforte a quattro mani, poi ampliata e trascritta per orchestra. La versione pianistica, pubblicata nel 1910, è composta di cinque pezzi, ispirati da altrettante illustrazioni tratte da un libro di fiabe per l’infanzia (di qui il sottotitolo Cinq pièces enfantines).

In quegli anni è molto forte in Francia l’interesse per la Musica non europea, contrariamente a ciò che accade in ambito tedesco.

Maurice Delage -autore oggi dimenticato, pianista e compositore, nato e morto a Parigi: 1879 /1961- viaggiò moltissimo e scrisse quattro canti hindu per voce (soprano) e piccolo organico strumentale; usò peraltro un canone di tipo occidentale per elaborare la musica indiana, costituito da tante piccole variazioni su un tema.

In questi anni ci troviamo in pieno Simbolismo e Impressionismo. Nell’ambito musicale sono usate “macchie di suoni”, accenna Massimo con un significativo gesto della mano, come in pittura ci sono le “macchie di colore”.

Certo, un esempio tipico è la Musica di Debussy, come detto. Pensiamo a “Fuochi d’artificio”: due raccolte per pianoforte solista che egli compone tra il 1909 e il 1913. Entrambe le raccolte (chiamate solitamente Premier livre e Deuxième livre) contengono ciascuna 12 brani di tonalità ed ispirazioni differenti.

Ecco un’interpretazione del grande, amatissimo Bruno Canino

 

 

O anche a La Mer, ove il protagonista è nientemeno che il Sole , dall’alba a mezzogiorno: la Musica dà in pieno l’idea del Sole che sorge, sale in cielo coi raggi di luce.

La Mer, trois esquisses symphoniques pour orchestre o semplicemente La Mer, risale agli anni 1903 /1905 durante il soggiorno dell’Autore sulla costa inglese della Manica a Eastbourne.

E’ considerata come una delle migliori opere per orchestra del ventesimo secolo.

Ecco uno stralcio

 

Tra i brani proposti questa sera –ne parlo qui, per praticità, come accadrà ancora- c’è (è il secondo): Sonata per violino e pianoforte [6].

Esso risale ad un anno prima della morte, 1917. In questo periodo il Musicista è molto depresso, come rivela nella lettera ad un amico.

Il suo stato d’animo è chiaro sin da subito: il primo movimento è denominato Allegro vivo, ma, in realtà, si tratta di un girovagare senza un punto di riferimento preciso, reso molto bene soprattutto dal pianoforte. Il seguito (Intermezzo) ha assonanze orientaleggianti.

Il movimento finale (Très animé) è animatissimo e nervoso, come una sorta di serpente che si morde la coda. Chiara l’influenza spagnola: fa pensare a Ravel o a Bizet.

Ne propongo l’interpretazione di Giacomo Ronchini (pianoforte) e della nostra (bolognese) Laura Marzadori

 

 

 

 

Il 2013, rammenta Massimo, non è stato solo il (bi)centenario della nascita di Giuseppe Verdi e Richard Wagner, ma pure il cinquantesimo anniversario della morte di Francis Poulenc.

Poulenc nasce (1899) e muore (1963) a Parigi. Figlio di un pianista e pianista lui stesso, membro del cosiddetto Gruppo dei Sei (con Darius Milhaud, George Auric, Arthur Honegger, Louis Durey e Germaine Tailleferre, che composero pure musica per balletti), la sua musica esprime tutto il fascino della cosiddetta Belle Époque, in uno stile semplice, scherzoso, umoristico, ma pure melanconico. “La mia musica” era solito affermare “è come il mio carattere”. Una musica, per così dire, antiromantica, lontana sia da Wagner che da Debussy, che richiama piuttosto lo stile popolare del music-hall e del cabaret, vicina a Cocteau e Satie. Amò molto la sua città natale della quale rappresenta l’energia e l’eleganza.

Poulenc è consapevole di non essere un innovatore; ma di questo non se ne fa un cruccio, anzi, Ritiene che si possano comporre buone opere senza innovare il linguaggio. Nel dopoguerra, in opposizione con i nuovi interpreti e autori, come Olivier Messiaen e allievi (Pierre Boulez), difende il proprio ruolo all’interno della musica francese.

La vivacità, la creatività e l’indipendenza di spirito si sono manifestate in una produzione vasta e di generi assai diversi.

Ad un certo punto della sua vita si converte al Cattolicesimo.

Scrive le Litanie alla Vergine Nera (1936) per coro e orchestra

 

e un’opera lirica I dialoghi delle Carmelitane (1953), rappresentato per la prima volta alla Scala nel 1957.

Si tratta dell’opera più intensa di Poulenc, nata da una profonda crisi creativa ed esistenziale. E’ tratta dal testo di Georges Bernanos, basato su una novella del 1931, Die Letze am Schafott, cioè “L’ultima al patibolo”, di Gertrud von Le Fort,.

La vicenda narrata è autentica: il 17 luglio 1794, a Parigi, il regime del Terrore, instaurato durante la Rivoluzione, fa ghigliottinare 16 monache carmelitane (le “martiri di Compiègne”) perché si sono rifiutate di rinunciare ai voti. Ci troviamo di fronte al dramma mistico della fede, del coraggio, della redenzione. Nella trasposizione nell’opera lirica lo stesso Poulenc ha messo mano al testo per armonizzare la partitura con gli eventi che si susseguono sul palco.

Il lavoro, drammaticissimo, per sole voci femminili, scava nel cuore delle protagoniste.

Il climax si raggiunge nell’ultima parte quando le religiose vengono portate al patibolo, mentre cantano la “Salve Regina”.

Si ode più volte il colpo duro della ghigliottina, fino all’ultima di loro (che è poi la protagonista, Blanche).

Il canto e il colpo finale che le uccide, una dopo l’altra.

Conclusione nel Silenzio.

Di Poulenc i nostri amici interpretano stasera (come quarto brano) la Sonata per violino e pianoforte (1942 / 1943), dedicata a Federico Garcia Lorca, il grande poeta (drammaturgo e regista teatrale) spagnolo, ucciso dai franchisti il 19 agosto 1936.

Nella Musica è ben presente la violenza che, in quegli anni, permeava l’Europa.

Brevi note introduttive di Giacomo, prima dell’interpretazione.

In tre movimenti: Allegro con fuoco; Intermezzo; Presto tragico.

Inizio violento, sorprendente alternarsi dei due strumenti, cui seguono alcune melodie “facili” , con l’Intermezzo che riecheggia temi che fanno pensare alla Spagna. Tutti e tre i movimenti racchiudono, al loro interno, una sorta di “corteo funebre”. Il brano gli fu commissionato dalla fantastica violinista francese Ginette Neveu (1919-1949), che insistette molto con Poulenc affinché ponesse mano alla composizione.

Poulenc si era cimentato in alcuni tentativi (di un concerto per violino) fin dal 1918, ma non si era mai sentito soddisfatto di questi schizzi, finendo puntualmente per distruggerli. D’altronde, il violino, come strumento da utilizzare da solo non lo convinse mai troppo.

Tanto che ebbe a scrivere una volta: “Il violino primadonna sugli arpeggi del pianoforte, mi fa vomitare”. Esagerato!!!! Nel riportare questo aneddoto, Giacomo sorride, con leggero imbarazzo.

La prima esecuzione vide lo stesso Poulenc al piano, con la Neveu al violino: il compositore stesso, in seguito alle critiche non proprio eccelse, riconobbe che questa sonata -pur volendo essere testimonianza musicale della sua stima per Federico García Lorca, alla cui memoria, come detto, era stata pensata- non apparteneva al novero delle sue composizioni migliori.

 

Mio doveroso excursus-omaggio dedicato a Ginette Neveu,  della quale Giacomo parla con straordinaria, comprensibile ammirazione.

Talento precocissimo, allieva di George Enescu e Carl Flesch, lanciata nel circuito internazionale con la conquista, nel 1935, del concorso “Wieniawski” di Varsavia (al secondo posto si piazzò niente meno che David Oistrakh), ebbe a osservare  una volta, allorché alcuni critici giudicarono il suo suono poco “femminile” (?): “Ciò che più conta per l’artista è la propria individualità, che deve tendere ad acquisire sempre più forza”. Capito, parrucconi?

 

 

Morì, nella notte tra il 27 e il 28 ottobre 1949, in un disastro aereo avvenuto nell’Arcipelago delle Azzorre, sulla rotta Parigi-New York, senza superstiti. A bordo di quel velivolo c’era pure Marcel Cerdan, il pugile campione del mondo dei pesi medi e grande amore di Edith Piaf.

Eccoli, poco prima dell’imbarco fatale.

constellation

Il corpo di Ginette fu ritrovato: era morta abbracciata al suo violino. In seguito la salma fu sepolta al cimitero Père Lachaise di Parigi.

Mi permetto di inserire in questo scritto l’ultima –o una delle ultime- “meraviglie” di Ginette: il Concerto per violino e orchestra, op. 61, di Beethoven (primo movimento) [7], che amo molto e che ricordo nelle interpretazioni, ad es., di Viktoria Mullova e di Isabelle Faust (quest’ultima al concerto del 6 gennaio 2017 con l’Orchestra Mozart, ben noto).

 

Il primo brano di questa sera è la cosiddetta Sonata postuma in La minore di Maurice Ravel, in un solo movimento. E’ un lavoro dei primi anni artistici, risalente all’aprile 1897, che si colloca nel periodo in cui il poco più che ventenne Ravel era stato riammesso in Conservatorio per la seconda volta -dopo esserne stato espulso nel 1895- grazie alla considerazione che egli era stato capace di ottenere da Gabriel Fauré. L’anziano maestro lo incoraggiò sempre, intuendone le doti, e gli testimoniò sempre grande stima, di cui Ravel fu grato, ricambiandola quando poté, con dediche affettuose; tuttavia, questo credito non fu sufficiente a evitargli di essere nuovamente espulso nel 1900, dopo due bocciature consecutive al concorso di fuga.

Questa sonata, quindi, lungi dall’essere postuma poiché composta agli esordi artistici, è tale perché in pratica fu dimenticata e pubblicata da Salabert solo nel 1975. La composizione risente degli influssi che Gabriel Fauré e César Franck ebbero sul giovane Ravel, poco prima che questi se ne distaccasse, proprio all’inizio del nuovo secolo, sotto l’ascendente che la musica di Debussy avrebbe esercitato sul gruppo dei giovani ribelli Les Apaches, di cui Ravel fu entusiasta aderente.

Inizia il violino, cui, poco dopo, si affianca il pianoforte, in un dialogo sempre crescente. Indi il pianoforte solo.. poi insieme in un crescendo sempre più alto e drammatico.

Infine il tono cala, sfumando nell’intimità.

Eccolo.

 

 

Il terzo brano (il secondo era Debussy, v. sopra) è di Jules Massenet:

Méditation dall’opera Thaïs del 1894 nella versione per violino e pianoforte di M.P. Marsick.

Jules Émile Frédéric Massenet (Saint Étienne, 12 maggio 1842 / Parigi, 13 agosto 1912 è compositore, pianista, organista francese, noto in primo luogo come autore operistico, in particolare di Manon (1884), Werther (1886 / 1892) e Thaïs (tratto dal romanzo omonimo di Anatole France).

Il brano proposto oggi è molto melodioso e toccante.

A domani.

                                                                                                                                                                         [CONTINUA]

 

 

[1] Nella Moldava, Smetana celebra la bellezza del fiume Moldava(da cui ha preso nome anche il poema), che nasce nei boschi della Selva Boema e, dopo aver attraversato la campagna, giunge nella capitale per poi sfociare nell’Elba, che a sua volta si getterà nel Mare del Nord.

[2] Questa regione è particolarmente importante per la storia della Polonia. Proprio qui il primo condottiero appartenente alla famiglia dei Piast è stato battezzato (966). E’ nato così, oltre 1000 anni fa, lo Stato polacco. La capitale è Poznan, il cui centro storico è tra i più belli d’Europa.

[3] Il trattato che istituisce la Comunità economica europea (TCEE) è il trattato internazionale che ha istituito la CEE, firmato il 25 marzo 1957 a Roma, insieme al trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica (TCEEA); insieme sono chiamati Trattati di Roma.

[4] La Furlana (anche forlana, frullana o friulana) è una danza molto allegra in 6/8 o in 6/4 che si balla in una o in più coppie. L’origine è popolare, ma attraverso Venezia divenne di gran moda in tutta l’alta Italia e, nel Milleseicento, anche alla corte di re Luigi XIV. Il nome indica la provenienza geografica dal Friuli, ma potrebbe anche avere un’origine slava.

 

[5] Non mi soffermo qui in modo approfondito sulla figura di M. Ravel. Lo farò l’anno prossimo quando – ciò mi è stato rivelato da fonti attendibili- l’Orchestra del Festival di Lucerna, con Riccardo Chailly, si dedicherà a lui in modo esclusivo, o quasi. Al 2018, quindi!

[6] Sonata nel senso di musica da suonare, non di “Forma sonata”

[7] Peccato che il film non sia completo

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