(Titolo originale Hamapatz haqatan, Hakibbutz Hameuchad/Siman Kriah, Tel Aviv, 2009)
Trad. Shulim Vogelmann, Ed. Giuntina, collana Israeliana, 2011, pp. 120, €. 12,00
“Tutti questi libri….ci hanno aiutato a dare fuoco ai pezzi di legna più grossi per accendere il falò di Lag Baomer, e sono bruciati molto più rapidamente delle calorie che papà avrebbe dovuto bruciare con il loro aiuto”.
Un agile libretto di poco più di cento pagine, nel quale l’Autore, attraverso una vicenda incredibile, una favola dal gusto in parte horror, in parte surreale, ci rende partecipe di universali quadretti familiari e delle inestricabili vicende mediorientali, nelle quali la soluzione pare lontana, se non impossibile.
L’Autore è Benny Barbash, nato a Be’er Sheva nel 1951. Laureato in Storia presso l’Università di Tel Aviv, città nella quale vive, è stato impegnato nell’esercito israeliano per oltre un decennio, combattendo -e rimanendo gravemente ferito- nella guerra dello Yom Kippur dell’autunno 1973. Ha pubblicato quattro romanzi, dei quali Il mio primo Sony (del 1994) è stato tradotto in diverse lingue, tra cui l’italiano, grazie alla Casa Editrice Giuntina, che lo ha fatto conoscere al pubblico nel 2005. Tale romanzo è stato insignito del Premio letterario ADEI WIZO-Adelina Della Pergola 2006. Barbash è pure poeta e sceneggiatore: il film Beyond the Walls (“Oltre le sbarre”), del quale ha scritto la sceneggiatura, ha vinto il premio della critica al Festival di Venezia nel 1984 ed è stato candidato all’Oscar come migliore film straniero.
Nella presente opera -sempre pubblicata da Giuntina (collana Israeliana)- facciamo la conoscenza di una simpatica e un po’ squinternata famiglia residente a Tel Aviv.
C’è il Padre (Roy), operatore finanziario, ipocondriaco all’ultimo stadio, terrorizzato ma, va da sé, irrimediabilmente attratto da medici e medicine. Alle prese in primo luogo con problemi di eccessivo peso: all’uopo interpella in merito numerosi dietologi, legge una quantità abnorme di pubblicazioni in materia e intraprende, senza successo, le diete più fantasiose.
La Madre (Smadar), insegnante di lettere al liceo, bella donna, contrappone ai ragionamenti, talora assurdi del marito, osservazioni di buon senso ed aforismi di vago sapore britannico.
C’è poi il Nonno paterno (Boaz), sedicente scienziato o, come dicono in casa, cosmologo.
La Nonna (Miriam) è passata attraverso la Shoah e la sua personalità è caratterizzata da non pochi squilibri. Difficile quindi stabilire se certe anomalie siano conseguenze della tremenda esperienza patita o abbiano, per così dire, carattere originario. Tuttavia un dato è certo: non è concepibile maltrattare una reduce della Shoah, anche quando alcune sue prese di posizione meriterebbero di essere contrastate. Fervente nazionalista, non si fida delle promesse formulate dagli Arabi, dal 1948 in poi, vantandone -pure in presenza degli stessi, con conseguente imbarazzo generale- una lunga lista, sempre a portata di mano (e valle a dar torto!).
Il protagonista è Assaf, la voce narrante: 12 anni e mezzo, uno dei due figli, insieme alla sorella minore, Noga. Il ragazzo è la versione, un po’ cresciuta, del decenne Yotam del romanzo precedente. Come quest’ultimo che, attaccato al suo registratore, il Sony, appunto, come “ad una flebo”, registra la vita degli adulti che lo circondano e, partendo dai nastri, cerca di comprendere le dinamiche familiari, così anche Assaf fa di tutto per essere coinvolto in ogni evento di casa e specialmente nella questione della grassezza del padre e dei diversi sistemi da quest’ultimo escogitati per dimagrire. Va da sé che le riflessioni del ragazzo non fanno una grinza, al contrario di quelle paterne.
Logica ferrea: a proposito del legame tra causa ed effetto e di come, talora, accadano, di punto in bianco, fatti che non hanno alcuna spiegazione razionale. Insomma, come circa quattordici milioni di anni fa, si verificò un evento straordinario, repentino ed inspiegabile, denominato dagli scienziati Big Bang, allo stesso modo a suo padre un giorno, di punto in bianco, è accaduto un fatto definibile con identici aggettivi. Certo non così macroscopico: non un “Grande” Bang, bensì un Bang “Piccolo”: “Qatan, qatan”, come Roberto, un mio amico valdostano, non manca di raccomandare al barista ogni volta che, in Israele, ordina un caffè.
E qual’ è quest’evento fuori del comune? Quando ormai le speranze sono agli sgoccioli, Roy si rivolge ad una super esperta, la numero uno di Israele per “un nutrimento sano e un giusto dimagrimento”, la quale gli propone l’ennesima dieta, la più incredibile di tutte. Altro che cetrioli, carote, cavolfiori, melanzane o altri ortaggi inutili, cioè gli alimenti unici prescritti dai vari esperti nei regimi alimentari via via sperimentati con frustrazione! La soluzione è una dieta a base di sole…olive!
Potrebbe trattarsi dell’ennesimo tentativo andato a vuoto, quanto a risultati concreti, capace solo di scoraggiare l’interessato; sennonché, alcuni giorni dopo, mentre, per consolarsi dalla frustrazione dovuta al vedere i congiunti consumare un normale pasto, egli racconta alla moglie una storia particolarmente divertente, un nocciolo, di oliva appunto, gli si pianta in gola e, di lì a poco, all’improvviso, da un orecchio gli spunta un alberello di olivo, grazioso e ben formato, che cresce inesorabile. Stupore, disperazione, curiosità -in primo luogo da parte di Assaf-, desiderio di analizzare col massimo scrupolo la situazione -qui entra in scena il nonno- e un preregrinare vano di Roy e Smadar da uno specialista all’altro, compresi i medici cosiddetti “alternativi”.
Tutto inutile: ognuno si rivela incapace di fornire una risposta.
Finché un neurologo arabo, il Dr. Huda, accompagna il malcapitato paziente in un villaggio della Cisgiordania, dove abita un contadino palestinese, Hussein Abu Rujum, esperto coltivatore di ulivi, il quale, pare che di casi simili ne abbia conoscenza nelle sue memorie storiche. La ricetta dell’uomo è molto semplice: accettare l’insolita convivenza uomo / albero, poiché ormai le radici di quest’ultimo sono così intrecciate con il cervello e i diversi organi del primo che un’estirpazione è impossibile.
Anzi con disarmante sincerità Abu Rujum consola l’ospite osservando che le persone girano con cose ben peggiori, tumori, cattivi pensieri nel cuore…speranze che non si realizzeranno mai: “Credimi, può andare molto, molto peggio”.
Tanto più che, da quando gli era nato l’albero, a parte l’intuibile scomodità della situazione, il peso corporeo di Roy è tornato a livello normale e i muscoli si sono rafforzati; senza contare la benefica discesa del colesterolo “cattivo”!
Attraverso un racconto ironico, che si dipana lieve pagina dopo pagina, espresso con quei motti di spirito tipici degli Ebrei dell’Est Europa, i Wiz, ritroviamo in filigrana i problemi che preoccupano l’esistenza degli abitanti di Israele e dei loro vicini. I pericoli dell’Iran nucleare, con conseguente terrore di una nuova Shoah, ad esempio, o certe vicissitudini che hanno fatto sì che, da un certo punto in poi della loro storia, i Palestinesi non fanno altro che “andare indietro”.
Il rapportarsi delle persone alla Shoah: “…quando eravamo piccoli [Assaf e Noga], e la mamma era giovane, la nonna non raccontava niente…ma qualche anno fa la mamma è andata ad un seminario sulla seconda generazione e …le hanno spiegato che la vita di tutti loro era completamente distrutta…e dunque l’unica via per curare ferite così vecchie era mettere tutto quanto fuori…”.
C’è il delicato soffermarsi sul valore affettivo di un’antica porcellana di Meissen, l’andata in pezzi della quale è un autentico dramma.
Ed è quanto mai divertente leggere come la penna di Barbash ritragga in modo impietoso i medici incontrati dai protagonisti alla ricerca di una soluzione al Problema: quanti di noi hanno avuto l’avventura o, meglio, la sventura di imbattersi in personaggi tanto saccenti quanto incompetenti e distratti; adusi magari ad esibirsi in un vasto campionario di colpi di tosse e schiarimenti di voce…..
Un romanzo delizioso, da leggersi d’un fiato, in un momento di pausa, ma capace di evocare riflessioni di carattere universale. Immagino quale gioia per il traduttore dall’ebraico, Shulim Vogelmann!