(Titolo originale Pitom Ahavah, 2003)
Trad. Elena Loewenthal, Ugo Guanda Editore S.p.A., 2011, pp. 240 €. 16.50
“Quando uno ha fede di essere il prolungamento dei suoi avi, la morte non ha potere su di lui” “La scrittura giusta deve essere come la camicia contadina di nonno: una tunica semplice, senza alcun decoro, comoda da indossare”.
Un canto a due voci. Così potrebbe essere definito il romanzo L’amore, d’improvviso dello scrittore israeliano Aharon Appelfeld, pubblicato in Patria nel 2003 e uscito da ultimo presso Guanda Editore, con l’affascinante traduzione di Elena Loewenthal [1] .
Una vicenda semplice all’apparenza, in realtà complessa e sofferta come tutte le autentiche storie d’amore, intrecciata in una trama fitta dove ritrovi tanti riferimenti all’Autore, dal punto di vista sia delle esperienze vissute, che delle modalità espressive da lui adottate.
Ernest e Irena, questi i nomi dei protagonisti.
Ernest (Blumenfeld) ha 70 anni, è un consulente finanziario in pensione.
Arruolatosi nell’Armata Rossa durante la Seconda Guerra Mondiale, lascia la natìa Czernowitz, in Bucovina (attuale Ucraina); successivamente approda in Italia, indi, da lì, giunge in Israele su una nave di profughi. Nel Paese d’origine ha perduto tutta la sua famiglia.
Uomo ancora piacente, ha alle spalle due matrimoni. Il primo, contratto in età giovanile con l’amata Tina, deportata e uccisa dai nazisti insieme con la loro piccola Helga; il secondo (sciolto da divorzio) con una militante comunista dura e molto sicura di sé, Silvia Gross, della quale parla di rado.
Reduce da un grave intervento chirurgico, necessita di assistenza. La sua strada s’incrocia con quella della giovane Irena, di origine tedesca, da lui assunta come governante. Le si rivolge in tedesco, lingua materna per entrambi. Malgrado, ad un certo punto, per Ernest -come del resto per Aharon e per tanti, tanti altri; pensiamo a Helena, la madre della scrittrice israeliana Lizzie Doron- fosse divenuta il linguaggio degli assassini e degli oppressori, essa è pur sempre la lingua materna, quella “in [cui] parlavo con i miei genitori…..in questa lingua ho letto i miei primi libri, e solo in questa lingua ho la forza di scrivere”.
Tuttavia a volte scappa l’esclamazione in yiddish; e può pure accadere che due o tre frasi in ebraico tentino di far valere i loro diritti.
Anzi, a proposito del linguaggio dei Padri, l’A. ci dice che Ernest ammette tra sé e sé, di invidiare tutti coloro che il destino ”ha reso degni dell’antica lingua ebraica, nelle cui radici è posta l’essenza primigenia…l’ebraico è il Monte Nebo cui [Blumenfeld] non arriverà mai e tuttavia non passa giorno senza un capitolo della Bibbia…”.
Irena ha la metà dei suoi anni. E’ nata dopo la Liberazione in un campo di smistamento presso Francoforte da madre e padre ebrei molto religiosi, ai quali è rimasta profondamente legata anche dopo la loro morte. All’inizio della nostra storia lavora presso Ernest da circa due anni.
Alla sera torna al vicino quartiere Qatamon di Gerusalemme, nella casa dove era cresciuta e vissuta sempre; ancora tanto piena della presenza dei genitori, al punto che ella, una volta al mese, estrae dall’armadio, nel quale sono riposti, i loro vestiti per metterli in ordine ed essere così partecipe di quella vita, pur inanimata.
E’ piccola, timida e silenziosa; anzi Ernest, all’inizio, è quasi infastidito dalla sua riservatezza; poi comincia ad abituarsi a tale insolita presenza. Ella aveva frequentato a suo tempo le scuole medie inferiori, riprendendo gli studi solo in anni successivi per iscriversi ad un corso dedicato alle infermiere ausiliarie; tuttavia, malgrado la limitata cultura scolastica “…quel poco che le usciva dalla bocca veniva da lei, dalla sua interiorità, e le sue parole avevano un fascino discreto”.
Il servizio presso Ernest la occupa sempre di più, anche dal lato psicologico. “Come posso alleviare le sofferenze di questo principe?” si domanda ad un certo punto alludendo ai tormenti di lui.
Ella non è affatto quella che oggi viene definita con un brutto termine, peraltro entrato nel linguaggio comune (e perfino nella normativa in materia di lavoro!), “badante”: bensì una persona sensibilissima, caratterizzata da una religiosità che si esprime in primo luogo in un profondo equilibrio interiore: “In te c’è la quiete di colui che prega” osserva Ernest.
Ben presto Irena comprende che il problema, il campo di battaglia di Ernest è la scrittura.
Egli, dopo essersi ritirato dall’attività lavorativa, aspira a diventare un vero scrittore, non intende restare uno scribacchino dilettante. E’ puntiglioso, insoddisfatto; ha scritto ben tre libri, da lui non ritenuti degni di essere pubblicati e perciò distrutti. E’ dotato di forte senso critico, capace di restare ore su una frase o una parola. “A volte lui parla della sua scrittura, delle tante notti spese a scavare pozzi sbagliati…Per anni [riflette] non ho capito che erano pozzi aridi ”.
Dedica alla sua passione/tormento diverse ore della giornata e, per lo più, le notti. Notti terribili, popolate dai fantasmi del passato, in primo luogo dei genitori.
Ernest si era distaccato giovanissimo da loro, piccoli commercianti ebrei, molto legati alle tradizioni, ma professate e vissute senza quella gioia indispensabile per coinvolgere il prossimo. Due coniugi silenziosi e riservati; tanto che il ragazzo ben presto si era creato un suo mondo interiore attraverso la lettura, praticata non solo in tedesco, ma anche in rumeno e talora in francese. Il doloroso distacco era avvenuto in modo definitivo verso i diciassette anni, ma era iniziato cinque anni addietro con l’adesione di lui al Partito Comunista.
Appelfeld ci racconta con immagini di notevole efficacia l’ateismo militante dei gruppi marxisti (non di rado composti da ebrei), rivolto contro la religione in generale e, in specie, tenuto conto del forte antisemitismo diffuso in Ucraina, contro le locali comunità ebraiche. Pagine aspre che ci dicono come l’antisemitismo/antisionismo comunista non sia affatto nato dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, magari quale reazione ai pretesi “crimini israeliani” o alla cosiddetta “occupazione dei territori palestinesi”, ma vanti radici ben più lontane, sia cioè una sorta di fiume carsico pronto periodicamente a riemergere.
Il rapporto non risolto con i genitori (uccisi dai soldati romeni, efficienti complici dei tedeschi) è causa di profondo dolore per il protagonista poiché gl’impedisce di guardare alla vita con serenità, liberando quelle possenti energie che egli sente dentro di sé e che vorrebbe esprimere con la scrittura, ma non vi riesce, poiché esse giacciono in fondo ad un abisso di dolore e di disperazione.
Il potere dei ricordi è forte anche in Irena: la sua fantasia era fervida durante la prima giovinezza, tanto da immaginare con dovizia di particolari il mondo in cui erano vissuti i nonni (uccisi dai tedeschi), ovviamente mai conosciuti. Ma la madre, intimorita da quel talento (“Proibito immaginare. Chi ha troppa fantasia finisce per diventare bugiardo”), aveva fatto di tutto per tarparglielo.
Malgrado risieda in Israele da tanti anni, si sente ancora come una profuga. Ricerca la storia dei genitori, i quali ben poco le hanno raccontato. “..Se avesse saputo quello che [essi] avevano passato, li avrebbe amati ancora di più. Le persone che sono state ad Auschwitz bisogna portarle in palmo di mano e amarle mattina, pomeriggio e sera…si disse una volta…”.
Affronta con impegno gli scritti di importanti testimoni (come Primo Levi), sia per far propria la tragedia della Shoah, sia perché immagina che tali letture l’aiutino a comprendere meglio gli sforzi di Ernest.
Qual è il legame che unisce i due protagonisti?
L’equilibrio interiore e il totale coinvolgimento di lei nella creazione letteraria di lui, uniti ad un clima di serenità costruito giorno dopo giorno dalla donna con amore ed attenzione (ed arricchito dai piatti semplici e nutrienti usciti dalla sua cucina), la capacità d’immedesimazione di Irena, rimasta profondamente legata ai propri genitori, portano Ernest a riannodare i fili con il passato “..Mi restituisci i miei genitori”, le confida, esprimendo così la gioia di quel ritrovarsi, nonostante la differente sensibilità che l’aveva separato da loro, persone cariche di scetticismo, malinconia e di una (almeno apparente) estraneità nei confronti del figlio.
Il protagonista riesce così a raggiungere, tappa dopo tappa, quella prosa chiara ed essenziale, caratteristica di Appelfeld, e a diventare uno scrittore autentico, poiché ha “scoperto una fonte d’acqua viva che sgorga dentro di sé”.
Ritornano il mondo magico dei Carpazi, le vacanze estive negli anni dell’infanzia presso Nonno e Nonna, figure indimenticabili, ricche di umanità e fede, l’armonia tra esseri umani e animali, dove i secondi non venivano mai sfruttati, né vessati dai primi (“Non solo le creature umane si preparavano al giorno del giudizio [Yom Kippur], ma anche gli animali e gli alberi”); e senza dimenticare l’antigiudaismo spontaneo, certo alla fine odioso, ma talvolta quasi privo di malizia, emergente qua e là tra i contadini cristiani. Un Universo distrutto dal Male, ora riguadagnato al suo cuore.
Miracoli dell’amore contro gli spiriti maligni della vecchiaia e della malattia inesorabile che non dà tregua, combattuta però con costanza e decisione proprio grazie alla scrittura, la battaglia contro l’Angelo della Morte che sembra attendere in agguato dietro la finestra, pronto ad assumere, di volta in volta, sembianze di persone diverse, per lo più portatrici di frasi inopportune.
Il romanzo, scandito secondo capitoli brevi, ben scolpiti nella memoria perché espressi in uno stile scorrevole e coinvolgente, si sviluppa in una prosa limpida, ricca di sfumature, come quella conquistata dal protagonista, ed è una Summa della poetica espressa da Appelfeld.
Vi ritrovi infatti i filoni a lui più cari.
Il rapporto con la Scrittura -essa, si domanda l’A., che cos’è se non una lunga lettera d’amore?-, e, in primo luogo, la cura per le frasi brevi, il non indulgere con gli aggettivi, il saper apprezzare il Silenzio: “Durante la guerra non si parlava; nel ghetto e nel campo di concentramento solo coloro che impazzivano parlavano”.
“Dietro ogni scrittura ci sono molte motivazioni: odio, rabbia, ideologia, necessità di liberarsi di qualcosa di traumatico; ma anche l’esigenza di dare quanto di meglio c’è in noi; cioè di raggiungere il massimo dell’umano che c’è in noi”.
In un’intervista di alcuni anni fa Aharon dichiarava: “Non si può essere artisti senza l’ingenuità di un bambino, all’arte infatti viene richiesta una profondità mitologica primaria, il resto è accessorio, conseguente. La mia scrittura deriva da ciò che ho visto da bambino e la gran parte dei miei personaggi ha un legame col divino, magari inconsapevole”.
A ciò si lega l’importanza, per la sua formazione, dello studio della Bibbia (ce n’è una eco nel romanzo, quando il quasi tredicenne Ernest conosce un anziano insegnante assunto dal padre per prepararlo al Bar Mitzvah): la Bibbia, queste sono all’incirca le parole dello scrittore, elenca i fatti con un linguaggio all’apparenza minimalista, in grado di trasmettere il Divino senza parlarne in modo diretto.
Un commovente ritrovarsi. Accanto a Ernest Irena comprende come scrivere sia “far riemergere cose dall’oblio” e per questo ella torna a leggere Per il tuo sangue la mia vita, il diario di Leib Rochman, un giornalista ebreo polacco, il quale, negli anni della guerra, insieme con la moglie Ester, la cognata Tziporah e il cognato Efraim, si era salvato da sicura morte perché una coraggiosa prostituta polacca, Ciotka (Zia), li aveva accolti nel suo appartamento, nascondendoli dietro ad una parete. La vicenda la ascoltai, insieme ad un folto pubblico, all’Università di Firenze il 27 Gennaio 2008 dalla viva voce di David Grossman in occasione del conferimento a questi della laurea honoris causa in “Studi Letterari e Culturali Internazionali”. In tale occasione indimenticabile David fece della vicenda di Rochman (della cui figlia Rivka è buon amico) il fulcro della sua lezione dottorale [2] .
Coincidenza, solo in apparenza banale, vuole che Aharon Appelfeld e David Grossman abitino entrambi a Mevaseret Tzion, la Messaggera di Tzion, una cittadina alle porte di Gerusalemme, ricca di verde, di poesia, di pace. Anch’essa un sogno letterario.
[1] Sulla biografia e le opere di Aharon Appelfeld v. commento al suo Badenheim 1939 (Guanda Editore, 2007) in questo sito, Settembre 2007. Nel frattempo sono usciti, sempre col medesimo Editore: Storia di una vita (ripreso da Guanda nel 2008); Paesaggio con bambina (2009); Un’intera vita (2010).
[2] V. il mio commento Il Colombo Viaggiatore, in questo sito, Febbraio 2008.